Inos Biffi è stato docente e direttore dell'Istituto di Storia della Teologia (da lui fondato) presso la Facoltà di Teologia di Lugano e docente ordinario emerito di storia della teologia medievale e di teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale (Milano). Presidente dell'Istituto per la Storia della Teologia Medievale di Milano, dottore della Biblioteca Ambrosiana. Larga parte della sua attività è anche dedicata al campo della liturgia, particolarmente di quella ambrosiana. Collaboratore delle principali riviste teologiche, tra cui «La Scuola Cattolica», «Teologia», «Communio» e «Rivista Teologica di Lugano».
1. L’espressione è di Don Orione: «Cristo viene, portando sul suo cuore la Chiesa», con l’aggiunta: «e nelle sue mani le lacrime dei poveri». «Una visione trionfale – commentava il cardinale Giovanni Colombo –, che richiama in mente il 23° canto del Paradiso dantesco».
Luminosa e teologicamente perfetta, essa racchiude il principio costante che ha ispirato e sostenuto la figura di Don Orione, e insieme rivela la ragione profonda della sua “attualità”. O, meglio, si dovrebbe dire della sua “inattualità”.
Cristo che porta sul suo cuore la Chiesa traduce suggestivamente l’immagine paolina della Chiesa, «Corpo di Cristo» e quindi sua «Sposa»; una Chiesa che non s’aggiunge casualmente a lui, ma che egli ha amato appassionatamente, fino al dono di sé sulla Croce, per poterla ammirare nell’immacolato e santo splendore ricevuto dal lavacro dell’acqua e dalla Parola.
Ma davvero oggi è diffusa questa teologia paolina della Chiesa santa, dotata della prerogativa della grazia, e posta sul cuore di Cristo, secondo l’affermazione felicissima di Don Orione? O non è, invece, diffuso e triste il vezzo di sparlare della Chiesa, di tacciarla come peccatrice, della cui storia soprattutto arrossire, di sentirne elencare le colpe con acrimonia e risentimento? «Madre dei santi», la definiva splendidamente Manzoni, mentre sant’Ambrogio, invaghito della sua bellezza, amava insegnare ai fedeli di Milano che essa «non è vulnerata in sé, ma in noi», a motivo delle nostre infedeltà.
Non è difficile oggi constatare, qua e là nella stessa comunità cristiana, un allentarsi di quel legame, che per il fondatore dei Figli della Divina Provvidenza indissolubilmente annoda Cristo, la Chiesa e i poveri.
«Per don Orione – e il rilievo è ancora del cardinale Colombo – Cristo e la Chiesa sono inscindibili: la fede in Cristo separata dalla fede nella Chiesa è ambigua; l’amore a Cristo disgiunto dall’amore alla Chiesa non è autentico». La conseguenza inevitabile è la precarietà dello stesso amore ai poveri.
2. L’amore che assorbe e possiede tutte le energie di Don Orione è anzitutto l’amore a Gesù Cristo, che rappresentava il suo vissuto normale: «Niente che non respiri Gesù»; «Sarò sempre tuo, – esclamava con la semplicità e l’ardore che lo distinguevano –, o dolcissimo mio amore Gesù»; «Dio solo» – andava ripetendo –, «Dio solo, figli miei». Il cardinale Schuster, che era convito di saper percepire «quando un’anima è di Dio», scriveva: «Ho avuto qui Don Orione, quando non era ancora conosciuto; pure ho sentito che c’era in lui qualcosa di straordinario; ben comprendevo di trattare con un’anima posseduta per intero da Dio».
Era la stessa impressione di Gallarati Scotti: «Don Orione viveva in una sfera che era quella del miracolo», ossia la sfera di Dio; si comprende allora come mai questo colto e raffinato duca, attraversato nel tempo del modernismo e anche in seguito da incertezze, grovigli e travagli interiori, gli potesse scrivere: «Io vorrei averla vicino al mio letto di morte, perché non vedo nessun altro prete che potrebbe consolarmi».
3. Dallo stesso amore assoluto per Cristo scaturiva in Don Orione l’amore alla Chiesa, che Cristo porta sul cuore: «Tutto per me – faceva sapere a Buonaiuti – è incanto di venerazione e di amore alla Chiesa». Un «incanto»: non perché nella sua forte intelligenza ed esperienza egli non riuscisse ad avvertire i limiti negli uomini di Chiesa, ma perché, oltre le vicissitudine umane, egli della Chiesa avvertiva e ne ammirava il mistero. Esattamente quel mistero della Chiesa che il Vaticano II ha tanto, giustamente, illustrato ed esaltato, e che inquiete e rissose contestazioni non raramente hanno finito per offuscare.
Don Orione condivideva certamente gli interventi di condanna del modernismo da parte della Chiesa, anche se non deve aver fatto personalmente l’ analisi delle singole posizioni di quanti venivano talora non sempre giustamente accusati e sospettati. Ma quello che sorprende è la fitta rete di rapporti intercorsi tra Don Orione – dotato di fine intelligenza, ma non intellettuale, informato, ma non uomo di studio – e quanti si trovavano in dolorose o non serene situazioni a motivo di adesione o connivenze col modernismo. Tutti sentivano che la sua integra fermezza nel condannarlo, e il suo pieno consenso con «la S. Chiesa nostra Madre», e col Papa – «Il nostro Credo è il Papa» – si accompagnavano a una sconfinata e sincera carità, piena di attenzioni e di finezze. La sua “intransigenza” non la spegneva, ma la rendeva più intensa e trasparente.
Ancora Gallarati Scotti attestava, parlando di lui: «Tutti sentivano il Santo. Il Santo che è al di sopra di tutti, che congiunge tutti, che abbraccia tutti, che comprende tutti», non mai d’altra parte – lo assicurava lui stesso al cardinale Merry del Val – «a scapito dei principi». La verità nella carità. In un tempo di annebbiamento del senso dell’ortodossia, ha la sua parte di “inattualità” questa professione del primato della Verità col suo splendore; ma piuttosto inedita è anche questa carità accogliente e operosa, che è l’indice della fraternità evangelica. A Romolo Murri si dichiarava «fratello senza ira», per grazia di Gesù.
4. Don Orione ebbe la visione di Cristo che, mentre sul suo cuore sosteneva la Chiesa, «nelle sue mani» portava «le lacrime dei poveri»: «Amare i poveri più abbandonati; mi pare di essere già un po’ in Paradiso». Era il buon samaritano verso ogni forma di povertà, pronto ad astergere ogni genere di lacrime, quelle del corpo e quelle dello spirito.
Si trattasse di erigere un Piccolo Cottolengo o di accogliere chi si trovasse ecclesialmente lontano, la carità di Don Orione aveva un’unica radice: il suo amore indiviso per Cristo e per la Chiesa. «Chi crede in Dio – annotava – ama la misericordia», e per la sua Congregazione aspirava a scrivere «una legge che sia grande come la carità» (a Semeria).
«La sensibilità squisita – osservava il cardinale Colombo – che porta l’umile prete a vedere la povertà di ogni uomo e l’umanità di ogni povero è l’aspetto qualificante e intramontabile della sua spiritualità». Egli ha evitato «da una parte il sociologismo senza trascendenza e dall’altra il pauperismo della contestazione», abitualmente animato da irosità e retoriche antiecclesiali. E questo è potuto avvenire a Don Orione, – d’altronde estremamente lucido nel discernere le esigenze per un nuovo ordine di giustizia sociale – proprio a motivo di quel nodo – a cui abbiamo accennato – che al suo sguardo stringeva indivisibilmente Cristo, la Chiesa, i poveri. «Gli occhi e il cuore di don Orione rimasero sempre fissi in quell’uomo perfetto e in quel povero perfetto che è Gesù Cristo».
Siamo, così, all’opposto – ed ecco un altro indice di “inattualità” di Don Orione – della carità secolarizzata e risentita, che talora, anche in operatori cristiani di iniziative di solidarietà, sembra quasi preoccupata di fare scomparire le tracce di Cristo, i segni ecclesiali, e le ragioni teologali, che le generano e le sorreggono.
Da qui quel tono non raramente secolaresco e trasandato, tanto lontano dallo stile di un uomo di Dio qual era Don Orione, e quali erano i santi che della Chiesa hanno scritto la storia più avvincente e più vera, da Cottolengo a Don Bosco, da Don Guanella a don Calabria, solo per ricordarne alcuni.