Articolo pubblicato in "Unitā e carismi", Cittā Nuova, n.2, aprile-maggio 2015, p.50-54.
In italiano e spagnolo
Don Flavio Peloso
Giovanni Paolo II, che ben conosceva la vita di Don Orione e l’ha definito “stratega della carità”, “una meravigliosa e geniale espressione della carità cristiana” del quale è “impossibile sintetizzare in poche frasi la vita avventurosa e talvolta drammatica”, ha osservato che “dalla sua vita, tanto intensa e dinamica, emergono il segreto e la genialità di Don Orione: egli si è lasciato solo e sempre condurre dalla logica serrata dell'amore!”.[1]
Per comprendere la misericordia in Don Orione, e più in generale la misericordia cristiana, occorre partire dalla sua personale esperienza della misericordia di Dio. In un proposito e preghiera del 1917 (aveva 45 anni) scrisse: "Che io non dimentichi mai che il ministero a me affidato è ministero di misericordia e usi coi miei fratelli peccatori un po' di quella carità infaticata, che tante volte usaste verso l'anima mia, o gran Dio".[2] Scrivendo alla mamma di un suo alunno, gli scappò detto di sentirsi “un cuore senza confini perché dilatato dalla carità del mio Dio”.[3]
Un cuore senza confini
Caratteristica di Don Orione é la visione universale della salvezza e dell’amore cristiano che egli espresse con il motto programmatico “Instaurare omnia in Christo” (Ef 1, 10). Il suo cuore "cattolico" ispira tutti i suoi scritti e forma la trama della sua azione. C’è una pagina di mirabile semplicità e di mistica intensità che può introdurci a capire cosa sia “un cuore dilatato dalla carità di Dio”. San Francesco, al termine della sua vita, espresse l’universalismo della divina Provvidenza nel “Cantico delle creature”. San Luigi Orione, a pochi mesi dalla sua morte, cantò l’universalismo della divina Misericordia nel “Cantico delle anime”.
“Non saper vedere e amare nel mondo che le anime dei nostri fratelli.
Anime di piccoli,
anime di poveri,
anime di peccatori,
anime di giusti,
anime di traviati,
anime di penitenti,
anime di ribelli alla volontà di Dio,
anime ribelli alla Santa Chiesa di Cristo,
anime di figli degeneri,
anime di sacerdoti sciagurati e perfidi,
anime sottomesse al dolore,
anime bianche come colombe,
anime semplici pure angeliche di vergini,
anime cadute nella tenebra del senso
e nella bassa bestialità della carne,
anime orgogliose del male,
anime avide di potenza e di oro,
anime piene di sé,
che solo vedono sé,
anime smarrite che cercano una via,
anime dolenti che cercano un rifugio
o una parola di pietà,
anime urlanti nella disperazione della condanna,
o anime inebriate dalle ebbrezze della verità vissuta:
tutte sono amate da Cristo,
per tutte Cristo è morto,
tutte Cristo vuole salve
tra le Sue braccia e sul Suo Cuore trafitto.
La nostra vita deve essere un cantico insieme
e un olocausto di fraternità universale in Cristo.
Dobbiamo avere in noi la musica profondissima della carità.
Io non sento che una infinita, divina sinfonia di spiriti,
palpitanti attorno alla Croce,
e la Croce stilla per noi goccia a goccia,
attraverso i secoli,
il sangue divino sparso per ciascun'anima umana.[4]
Il “Cantico delle anime” di Don Orione è frutto della contemplazione delle umane miserie e della divina misericordia, sgorga dal cuore di un uomo buono, divenuto padre misericordioso delle anime. Le anime sono in cima ai suoi pensieri e ai suoi sentimenti perché è coinvolto nella misericordia redentiva di Cristo. “L’ultimo a vincere è Lui, Cristo, e Cristo vince nella carità e nella misericordia”. Per questo egli vuole abbracciare tutte le anime; vuole che nessuna si perda. Fu il proposito e la grazia chiesta nella sua prima Messa e fu il consuntivo al termine della vita: “Che tutta questa povera vita mia sia un solo cantico di divina carità in terra, perché voglio che sia – per la tua grazia, o Signore – , un solo cantico di divina carità in cielo! Carità! Carità! Carità!”.[5]
Amore verso i più lontani da Dio
C’è uno scritto che rivela in pieno l’animo di Don Orione e la sua concezione del sacerdozio.
“Fine del sacerdozio è di salvare le anime e di correre dietro, specialmente, a quelle che, allontanandosi da Dio, si vanno perdendo. Ad esse devo una preferenza, non di tenerezza, ma di paterno conforto e di aiuto al loro ritorno, lasciando, se necessario, le altre anime meno bisognose di assistenza. Gesù non venne per i giusti, ma per i peccatori. Preservatemi, dunque, o mio Dio, dalla funesta illusione, dal diabolico inganno che io prete debba occuparmi solo di chi viene in chiesa e ai sacramenti… Solo quando sarò spossato e tre volte morto nel correre dietro ai peccatori, solo allora potrò cercare qualche po' di riposo presso i giusti. Che io non dimentichi mai che il ministero a me affidato è ministero di misericordia…”.[6]
Il ministero della misericordia è, per Don Orione, la sostanza del suo sacerdozio, l'orizzonte permanente della sua azione caritativa. È anche un indice chiaro della santità, perché “un segnale - diceva Cassiano - che l'anima è stata purificata con il fuoco divino è la capacità di aver compassione dei peccatori”.
Un fatto della vita di Don Orione può aiutarci a fissare valori e atteggiamenti del ministero della misericordia.
“Tanti anni fa – racconta Don Orione -, predicavo le missioni a Castelnuovo Scrivia. La misericordia di Dio è più grande del cielo, è più grande del mare; la misericordia di Dio è più grande dei nostri peccati.
Era arrivata l'ultima sera di predicazione. Avevo parlato sulla confessione. Durante la predica, non so neppure io come, dissi: Se anche qualcuno avesse messo il veleno nella scodella di sua madre e l'avesse così fatta morire, se è veramente pentito e se ne confessa, Dio, nella sua infinita misericordia, è disposto a perdonargli il suo peccato.
Finita la predica mi fermai a confessare fino a mezzanotte. Benché stanco, mi avviai sulla strada che da Castelnuovo Scrivia viene a Tortona. Il tempo era pessimo: si era d'inverno, nevicava e all'intorno era tutto coperto di neve.
Avvolto nel mio mantello, uscii dal paese. Ed ecco, fuori dal paese, vedo muoversi davanti a me un'ombra nera, che si avvicinava. Era un uomo avvolto in un tabarro, con il capello calato sulla testa. Sembrava aspettare qualcuno. Mi accorsi che l'aspettato ero io. Un certo timore l'avevo. Lo salutai per primo:
Qualche momento dopo, quello disse:
Non mi ricordavo proprio di aver detto quelle parole, tuttavia gli dissi:
E si mise a piangere. Mi raccontò la sua storia, e poi mi si gettò ai piedi:
Poi soggiunse: Da quel momento non ho avuto più pace... Sono tanti anni. Da allora non mi sono più confessato.
Mi avvicinai ad un paracarro, levai il cappello di neve che c'era sopra; anche per terra spazzai un po' di neve e... Venite qua - dissi, sedendomi sul paracarro -: confessate tutte le vostre colpe; confessate anche quel peccato di aver messo il veleno nella scodella di vostra madre.
Si inginocchiò e poi si confessò piangendo e gli diedi l'assoluzione. Poi si alzò e mi abbracciava e stringeva, sempre piangendo, e non sapeva staccarsi, tanta era la consolazione da cui era inondato. Anch'io piansi e lo baciai in fronte e le mie lacrime si confondevano con le sue. Ripresi il cammino e arrivai a Tortona tutto bagnato. Quella notte mi levai le scarpe e mi gettai sul letto, e sognai... Che cosa sognai? Sognai il cuore di Gesù Cristo; sentii il cuore di Dio, quanto è grande la misericordia di Dio”.[7]
Questo episodio, raccontato da Don Orione stesso ai suoi chierici e confratelli, è una parabola che aiuta a comprendere la misericordia di Dio e il ministero della misericordia.
Don Orione è stato definito “una faccia della misericordia di Dio”. E con questo volto era riconosciuto dalla gente che a lui ricorreva. Ernesto Buonaiuti, noto modernista, fu uno che, sull’orlo del baratro, rimase attaccato alla sua carità, come risulta da questa breve lettera: "Roma, 12-XII-1938. Caro, ti si presenta un giovane mio amico. Ti spiegherà il suo caso. È un boccheggiante sulla via, colpito, malmenato, lasciato nell’abbandono. Tu sei il buon samaritano. Lo sanno tutti; io lo so meglio di ogni altro. Lo metto sul tuo cammino. Non lo lascerai boccheggiare. Tu lo raccoglierai e lo curerai. Non aggiungo una parola: tutti i tuoi secondi sono preziosi. Io sono sempre assetato del tuo ricordo. Prega e ricordami. E. Buonaiuti".[8]
Ci si può confondere circa la verità della fede, ma non sulla verità della carità: "Tu sei il buon samaritano. Lo sanno tutti; ed io lo so più di ogni altro".
L’inno della carità
La nota pagina di San Paolo (1Cor 13, 1-8a) fu per Don Orione ed è per ogni cristiano l’imprescindibile riferimento. Commentandola in modo vibrante, Don Orione osservò che San Paolo nel suo inno alla carità “scrisse le più belle e più alte parole, dopo averlo attuato nella sua vita. Ed egli poteva ben cantarlo quest’inno così come l’ha cantato, poiché nessuno più di lui lo sentì vibrare nel suo cuore, nessuno ha sentito più di lui l’amore di Gesù Cristo e della umanità e gli echi di quella divina poesia sono giunti sino a noi. Poiché, a partire da Cristo, la religione diventò ispiratrice di carità e con lei è talmente congiunta, che cristianesimo senza carità non sarebbe che un’indegna ipocrisia”.
Don Orione richiama sempre l’unità vitale di carità nel cuore, carità nelle parole, carità nei fatti, perché “la carità ha fame di azione, è una attività che sa di eterno e di divino”.[9]
Ancora una volta, l’eloquenza di un episodio di vita può bene illustrare la concretezza e la bellezza dell’agire misericordioso.
Il 13 aprile 1920, Don Orione celebrava il suo giubileo sacerdotale. Un sacerdote, suo compagno di seminario e amico d’anima, gli scrisse parole buone di augurio. Don Orione gli rispose il 1° giugno 1920, raccontandogli come celebrò le "nozze d'argento sacerdotali".
“Caro Don Casa. Ho ricevuto la tua gradita lettera del 15 aprile e ti ringrazio nel Signore. Tutto quello che serve ad unire e a confortare nella carità, fa sempre bene e fa sempre piacere; non dobbiamo guardare a noi ‘servi inutili’ ma alla gloria di Dio e al bene delle anime nostre e altrui.
Qui di feste non se ne sono fatte; non ho permesso che se ne facessero per il mio XXV di Sacerdozio. Quel giorno io dovevo passarlo a Bra, nel silenzio e in Domino; ma, la vigilia, mi accorsi che il caro chierico Viano andava peggiorando, e allora mi fermai a Tortona. La notte, la passai presso il letto di Viano e la mattina dissi la Messa ai piedi della Madonna della Divina Provvidenza, e i ragazzi e tutti fecero la comunione.
Venuta l'ora del pranzo, ti dirò come l'ho passata. Viano andava peggiorando, ma era sempre presente a se stesso; da più giorni quel povero figlio, malgrado gli enteroclismi, non aveva avuto più beneficio di corpo, quando, verso mezzodì, ebbe come un rilassamento di corpo, e non si fece a tempo, perché anche lui non avvertì a tempo o non se ne è neanche accorto, poveretto!
E allora il chierico Don Camillo Secco – ora è suddiacono – che fa da infermiere, e che è forte assai, alzò il caro malato diritto sul letto, e abbiamo cambiato tutto, e il letto e il malato, e così mentre gli altri pranzavano, con dell'acqua tiepida io lo lavavo e pulivo, facendo, col nostro caro Viano, quegli uffici umili sì, ma santi, che una madre fa con i suoi bambini.
Ho guardato in quel momento il chierico Camillo, ed ho visto che piangeva. Ci eravamo chiusi in infermeria, perché nessuno entrasse, e fuori picchiavano con insistenza che andassi giù a pranzo; ma io pensavo che meglio assai era compiere, con amore a Dio e umiltà, quell'opera santa, e veramente di Dio; e dicevo tra me: Oh, molto meglio questo che tutte le prediche che ho fatto! Ora vedo che veramente Gesù mi ama, se mi dà modo di purificare la mia vita e di santificare così questo XXV anniversario del mio sacerdozio. E sentivo che mai avevo più sublimemente né santamente servito a Dio nel mio prossimo, come in quel momento, ben più grande che tutte le opere fatte nei 25 anni di ministero sacerdotale. E Deo gratias! E Deo gratias!” [10].
Certo, le biografie e la saggistica su Don Orione indugiano a presentare la sua vita come un prodigioso sviluppo di carità, “alla testa dei tempi”, e i suoi insegnamenti come frutto di sapientia cordis profetica e lungimirante; Papa Benedetto XVI ha incluso il suo nome, al n. 40 dell’Enciclica “Deus caritas est”, come santo rappresentativo della carità sociale della Chiesa. Ma è in simili fatti, come quello dei servizi “umili e santi che una mamma fa con i suoi bambini”, resi normali dalla misericordia di un’anima immersa in Dio, che va ricercata la sostanza della misericordia cristiana.
“Passare dalle opere di carità alla carità delle opere”
Non si può comprendere la carità “esplosiva”, educativa e assistenziale, pastorale e politica di Don Orione, senza riandare alla sua esperienza mistica. "Mi sento come un carbone acceso su un grande altare: vivere in Lui e Lui in noi. Ecco il sublime della vita, il sublime della morte, il sublime dell'amore, il sublime della gioia, il sublime dell'eternità”, lasciò scritto in un passaggio rivelatore della sua interiorità.[11] In altra occasione parlò di “dinamite della carità” che caratterizza “non l’umano modo ma il divino modo” di vivere.[12] Don Giuseppe De Luca, fine conoscitore e storico della spiritualità, disse di lui che “viveva sempre in uno stato di ebbrezza spirituale”.[13]
Papa Benedetto XVI, commentando l’affermazione di Don Orione “la carità è la migliore apologia della fede cattolica”, disse che “Le opere di carità, sia come atti personali e sia come servizi alle persone deboli offerti in grandi istituzioni, non possono mai ridursi a gesto filantropico, ma devono restare sempre tangibile espressione dell’amore provvidente di Dio. Per fare questo - ricorda don Orione - occorre essere ‘impastati della carità soavissima di Nostro Signore’ mediante una vita spirituale autentica e santa. Solo così è possibile ‘passare dalle opere della carità alla carità delle opere, perché - aggiunge il vostro Fondatore - anche le opere senza la carità di Dio, che le valorizzi davanti a lui, a nulla valgono’ ”.[14]
Per non confondere l’azione caritativa con certo protagonismo filantropico umano, che San Paolo paragona a quello di “un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (1Cor 13, 1), va ricordato che la misericordia è qualcosa che si riceve da Dio. Di più: è qualcosa che si subisce e si soffre per l'azione di Dio. Così fu per Gesù che “doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo (Eb 2, 16-17), e “imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna” (Eb 5, 8-9).
“Inginocchiato - confessa Don Orione - con tutta la mia miseria, io mi stendo, gemendo, dinanzi alla tua misericordia, o Signore, che sei morto per noi”. Però, aggiunge subito, "lo splendore e l'ardore divino non m’incenerisce, ma mi tempra, mi purifica e sublima e mi dilata il cuore, così che vorrei stringere nelle mie piccole braccia umane tutte le creature per portarle a Dio”.[15]
La prassi della misericordia in Don Orione è compassione e condivisione, lontana sia da espressioni solo intimistiche e sia dalla beneficienza superficiale e mondana: “Vorrei farmi cibo spirituale per i miei fratelli che hanno fame e sete di verità e di Dio; e vorrei vestire di Dio gli ignudi, dare la luce di Dio ai ciechi e ai bramosi maggiore luce, aprire i cuori alle innumerevoli miserie umane e farmi servo dei servi, distribuendo la mia vita ai più indigenti e derelitti; vorrei diventare lo stolto di Cristo, e vivere e morire nella stoltezza della carità per i miei fratelli!”.[16]
La misericordia è un “dare con il pane del corpo il divino balsamo della fede”.[17] Inscindibilmente. E allora le opere di misericordia sono in se stesse evangelizzazione (“la carità apre gli occhi alla fede”[18]) e culto gradito a Dio (“vedere e servire Cristo nell’uomo”[19]).
Le parole della preghiera della Messa in onore di San Luigi Orione riassumono la sua esperienza della misericordia: “Dona a noi, Signore, di esercitare come lui le opere di misericordia, per far sperimentare ai fratelli la tenerezza della tua Provvidenza e la maternità della Chiesa”.