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Messaggi Don Orione
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Autore: Roberto Simionato
Pubblicato in: Pubblicata in“Vida Religiosa”, (Ed. Claretiana, Madrid), dicembre 2004, pp. 36-42.

Superiore generale dei Figli della Divina Provvidenza di Don Orione, al termine del suo incarico nel 2004, ha conversato con Pedro Bederrain trasmettendo la sua esperienza a cuore aperto.

INTERVISTA A DON ROBERTO SIMIONATO

A cura di Pedro Belderrain

 

  • Ci dia, per favore, alcune notizie che ci aiutino a conoscerla: luogo di nascita, percorso di vita…

 Sono il quarto figlio di una famiglia abbastanza numerosa, che dopo la guerra mondiale, cercò rifugio in America, sognando un futuro migliore per i suoi figli. Sono nato in piena guerra, in un paese del Nord d’Italia, vicino a Venezia. Sono cresciuto a Mar del Plata, a sud di Buenos Aires. Ho fatto tutti i miei studi nell’Opera Don Orione, e quando, sentii la chiamata vocazionale, essere Figlio della Divina Provvidenza è stata una scelta naturale. Ordinato nel 1969, ho avuto diverse destinazioni in Argentina. Dopo qualche anno come Provinciale, incominciai un lungo periodo a Roma, 18 anni, prima come vicario, poi come superiore generale.

  • Sembra, fin da piccolo, un uomo di due mondi. Cosa ha significato questo nella sua vita?

Non so se sono riuscito ad essere un uomo di due mondi, ma vorrei essere un uomo di molti mondi; se fosse possibile, di tutti. Avevo sei anni, quando i miei genitori ci diedero una nuova patria. Da bambino, non si domandano troppe cose, si va dove ti portano. Nella vita religiosa mi è capitato qualcosa di simile. Già da giovane professo, mi è toccato preparare le valigie. A 20 anni, fui inviato in Cile per la pratica pastorale e poi in Italia per la teologia. Dopo vari compiti in Argentina, un nuovo trapianto, questa volta per trasferirmi a Roma. Uno va e viene, pensando, come ci hanno insegnato i nostri padri, che in tutto ciò si gioca la volontà di Dio.

Avendo emigrato molte volte, non posso che guardare con speranza questo movimento di popoli che ci preoccupa tanto. Anche se oggi, lo si vive come un assalto dei poveri alle frontiere dei paesi ricchi, non è che una grande opportunità di crescita per un’integrazione e dialogo di culture.

  • I religiosi fanno abbastanza per aprirsi ad un mondo multi-culturale?

Certamente questa è una delle caratteristiche del tempo attuale. Ovviamente, è molto più facile fare un corso sull’interculturalità, che affrontare il contatto quotidiano con gente di altre culture. Davanti a ciò che è differente, ci sentiamo destabilizzati. Tutti siamo troppo “provinciali”. Se in una congregazione di vita attiva, la gente non supera l’orizzonte della propria Provincia, perdiamo coesione, boicottiamo i migliori progetti, diventiamo una federazione, dove ogni settore difende i propri interessi. Negli ultimi anni, tra noi, si è sottolineato l’importanza che ad ogni religioso, sia offerto, almeno una volta nella vita, un buon periodo di tempo fuori del proprio paese. In tempi di globalizzazione, credo che sia un diritto di ciascuno, o meglio ancora, un dovere. Senza questa seria esperienza da “straniero”, molta parte della legittima e sacrosanta difesa della propria identità, diventa irrazionale attaccamento alle proprie usanze, alla propria lingua, quasi puro sciovinismo, direi. Finché uno non varca una frontiera, e si sente povero, strano, diverso, farà fatica ad apprezzare nei giusti termini i valori della cultura altrui.  In questo, dell’apertura ed accoglienza all’altro, ho paura che siamo ancora in deficit.

  • Superiore generale. Che cosa ha significato per lei questo incarico?

Bisogna tener conto che un superiore è uno dei tanti fratelli che ha bisogno di grande aiuto per adempiere degnamente i suoi compiti. Inoltre, il fatto di essere superiore generale è una cosa che capita e che passa. Capita, avviene senza che uno lo possa prevedere. Infatti, non c’è una scuola dove si formano i provinciali o i generali; un giorno ti eleggono e tu ti alleni meglio che puoi per la missione, difficile e mai imparata abbastanza, di esser padre, fratello ed amico. E poi, anche passa, nel senso che non dura cent’anni. Io sono molto felice di esser stato superiore generale e molto felice di aver finito. Credo che uno dei doni che noi religiosi possiamo offrire come testimonianza nella Chiesa, è il fatto che il nostro servizio di autorità, abitualmente duri per un tempo ben determinato ed abbia una data di scadenza. Questo ci da una grande libertà interiore per cercare la volontà di Dio, compiere la nostra missione con la disposizione di chi è intento a servire davvero, senza soccombere ad eventuali “attacchi di importanza”.

  • L’esperienza ha avuto più luci o più ombre?

In un compito come questo non mancano mai le difficoltà. Bisogna sognare cose grandi e nel frattempo, tener conto delle fragilità proprie e altrui, con progetti che crollano, persone che si stancano, qualche scandalo. Ma sarebbe ingiusto fermarsi ad una lettura negativa. Al modo come ce l’ha promesso, Gesù ci da il cento per uno, in mezzo alle tribolazioni. L’esperienza per me è stata una grazia: la più grande grazia che ho ricevuto dal Signore. Non avrei mai potuto immaginare di conoscere tante cose belle della mia famiglia religiosa e che mi sarebbe toccato di essere testimone di tanta dedizione e sacrificio. Mi ha sempre edificato le fedeltà dell’immensa maggioranza dei miei fratelli. Mi ha colpito la serena perseveranza dei più vecchi e la generosità di molti giovani, anche per missioni difficili. Soprattutto mi ha commosso il dialogo con più di qualche confratello che pur avendo l’età per essere mio padre, venne a chiedermi con semplicità di figlio: “Mi dica lei, qual è la volontà di Dio sulla mia vita”. In quei momenti ci si conferma che la vita religiosa si muove chiaramente nel terreno della fede.

  • Durante il suo servizio, è avvenuta la canonizzazione di Don Orione. Come lo presenterebbe ad uno che non lo conosce?

La canonizzazione è stato un tremendo scossone per tutta la famiglia. Non ci stancammo di ripetere: “Guarderanno Lui, guarderanno noi”, per indicare che il popolo, dopo aver contemplato la sua immagine nella Piazza San Pietro, avrebbe subito cercato noi per vedere quanto i suoi figli e figlie siano simili al Padre.

Presenterei Don Orione come un grande innamorato dei poveri e della Chiesa che ha saputo scrivere la sua poesia con opere buone. E’ quasi contemporaneo. Nasce nel 1872 e muore nel 1940. Vive tormentato dall’abisso che si va facendo tra la Chiesa e le masse popolari e si propone di costruire un ponte di carità come il migliore freno alla “scristianizzazione”. Evangelizza con le opere di misericordia, dicendo agli umili che Dio è Padre e che la Chiesa è Madre, non “matrigna”. E nel contempo, vuole ricordare alla Chiesa che deve essere vicina ai poveri, che sono i suoi tesori da sempre. Don Orione non vuole dicotomie, né contrapposizioni: unisce nello stesso amore, i derelitti, la Chiesa, il Papa, i vescovi. Più che estraniarsi con una aggressiva denuncia di ambiguità e meschinità dal di fuori, vuole essere vincolo di unione col suo amorevole impegno dal di dentro. Ciò che oggi chiameremo “spiritualità di comunione”.

  • E voi della Piccola Opera, chi siete? dove siete? a che cosa vi dedicate?

La nostra famiglia è formata da un migliaio di religiosi e altrettante religiose, ai quali si aggiunge un grande numero di laici impegnati. Siamo in trenta paesi. Don Orione fondò in Italia, ma ben presto si estese in Europa ed America Latina, dove compì due lunghi viaggi. Dopo la sua morte siamo arrivati in Africa, Asia, Europa dell’est. La gente ci identifica molto con l’assistenza e promozione dei disabili, o “diversamente abili" come oggi si preferisce chiamarli. Ma Don Orione non voleva chiudersi in nessun tipo di opera; volle rimanere aperto a tutti: giovani, anziani, parrocchie, scuole, opere di carità, missioni. Perciò scrisse che il fine è costruire un ponte di amore tra il popolo e il Papa e che le opere di carità sono semplici strumenti che possono cambiare. Se riusciamo ad essere fedeli a questo spirito, la congregazione sarà sempre attuale. Pur con i nostri limiti, cerchiami di mantenerci aperti a tutto.

  • Come vede la situazione dei disabili e dei bambini?

C’è stato un grande progresso, soprattutto nei paesi più evoluti. Questo si deve in gran parte all’opera della Chiesa, pioniera in questo campo come in tanti altri. Mi piace citare come esempio, ciò che ci è accaduto in Africa. In Costa d’Avorio, i nostri missionari inventarono i disabili. Prima esistevano, ma nascosti nelle case. Si accettava con impotenza che un destino fatale, li escludeva dalla società. Quando si iniziò a lavorare, venne loro riconosciuta una dignità cha mai avevano avuto. Si costruì un moderno centro medico per rendere visibili i segni del Regno: “I ciechi vedono, gli storpi camminano, i poveri sono evangelizzati”. Purtroppo, le enormi differenze consolidate nelle nostre società si riproducono, a livello mondiale, nel campo della carità. Viene voglia di piangere, quando si vede la differenza tra ciò che offriamo ai disabili ed anziani in Europa, e le briciole che arrivano al terzo e quarto mondo, dove cresce la massa di poveri abbandonati nell’estrema miseria, di mutilati e rifugiati delle mille guerre assurde che si combattono. La Chiesa, specialmente i religiosi e le religiose, forma un grande corridoio umanitario che unisce i ricchi con i poveri, ma quanta strada rimane ancora da percorrere!

  • E’ facile trovare Dio in tante situazioni dolorose?

Nulla è facile, ma è garantito da Gesù: “Ciò che avete fatto ad uno di questi piccoli, l’avete fatto a Me”. Sarà l’unica domanda dell’esame finale. La carità, il servizio diretto, è la migliore scorciatoia per la contemplazione che non avviene mai senza l’amore del prossimo. In questo Don Orione ha molto da insegnarci. E’ un uomo d’azione che visse una vera esperienza contemplativa accanto al povero. Ci insegna che servire i poveri è il più alto privilegio, e in quel senso, ci ha reso il cammino più facile. Per la fedeltà alla vocazione, non c’è maggiore stimolo del contatto giornaliero con la sofferenza e la miseria dei fratelli più poveri. Se te lo prendi sul serio, non ti rimane tempo per le tentazioni.

  • Lei ha conosciuto altre famiglie religiose. Di quale salute gode oggi la vita consacrata?

Mi pare che, nel suo insieme e aldilà della particolare situazione di alcune regioni, gode di un’ottima salute. Il dialogo con altri superiori generali mi ha molto illuminato. Confrontarsi con gli altri aiuta a ridimensionare i propri problemi. La preoccupante scarsità vocazionale in Europa si va compensando, in parte, con la crescita nelle chiese di recente fondazione, in America Latina, Africa, Asia. La povertà dei più, si mitiga con la generosa comunione di beni. Se in qualche parte siamo devastati da scandali, in altre possiamo mostrare l’eroismo dei nostri martiri. Se qui viviamo assediati dal laicismo, più in là abbiamo un popolo che ci cerca con la stessa ansia delle masse che seguivano Gesù. Oggi è pessimista, solo chi si ostina a rinchiudersi nel suo piccolo e ristretto orizzonte. Non si può osservare il quadro dell’Ultima Cena, fissandosi su Giuda o il cane che è sotto il tavolo! Bisogna sollevare lo sguardo per contemplare i Dodici con Gesù in mezzo.

  • Come s’immagina i prossimi anni?

Non so come saranno. Ma ho molta speranza. Sono convinto che lo Spirito ha più risorse di quante ha manifestato finora alla sua Chiesa. Forse corriamo il rischio di fare previsioni che non si avverano mai, dedicando troppo tempo a pensare a noi stessi e dimenticando di essere ciò che dobbiamo essere. Non credo, ad esempio, che si debba guardare con preoccupazione l’attuale trasformazione o la crescita di nuovi movimenti ecclesiali. Non vengono a toglierci lo spazio. Nella Chiesa c’è posto per tutti. Può darsi che dobbiamo cambiare molte cose, che in qualche parte, in qualche momento i religiosi diventiamo di meno, con presenze diverse dalle attuali. Ci sarà un’evoluzione come sempre ne abbiamo avute, ma amo lasciare tutto nelle mani della Divina Provvidenza. A noi tocca invocare il dono della fedeltà. Finché la vita religiosa sarà fedele a se stessa, avrà il futuro assicurato, perché appartiene alla vita stessa della Chiesa.  Certo, dovremo essere capaci di formare una nuova generazione che sia all’altezza di questa grande speranza.

  • Quali conseguenze avrebbe questo per la formazione?

Io sono stato poco coinvolto direttamente in essa, ma c’è un qualcosa che amerei condividere. Oggi abbiamo nutrito il terrore allo sterile volontarismo. E’ molto svalutato perché in passato abbiamo esagerato proponendo mete tanto ideali, da superare le possibilità delle persone. E, come si sa, non tutto si può risolvere stringendo i denti. Ma è ora di incominciare a riconoscere che, con il nuovo stile, le cose non ci riescono neanche tanto bene. Risulta che ponendo l’accento sulla comprensione di fronte alle fragilità, insistendo giustamente più nella gioia della donazione che nella durezza della rinuncia, non stiamo raggiungendo, come sarebbe da sperare, quella generazione serena, spontaneamente fervorosa, che senza digrignare i denti, si senta orgogliosamente felice del proprio stato.

Questo ci dice che si può forse cambiare l’impostazione, ma non annacquare l’esigenza. Se costatiamo con realismo che il mondo spazza via i fragili, non ci sarà altra via che quella della dedizione totale, fino al limite della resistenza. Nel linguaggio cristiano - ed orionino – ciò ha un nome preciso: si chiama Croce. In un mondo felice in cui le macchine ci risparmiano ogni sforzo, nell’era degli analgesici, del parto indolore, del suicidio assistito o eutanasia (pur di evitare la sofferenza), pare che non ci sia modo di bandire del tutto il sacrificio, né dissimulare la necessaria abnegazione.

  • Si dice che i giovani sono fragili, potranno accettare una simile proposta?

La fragilità dei giovani d’oggi potrebbe essere anche un mito. E se fossimo noi a farli diventare fragili, giocando sempre al ribasso? I giovani, quando trovano motivazioni, non risparmiano sacrifici. Basta vedere come bruciano la loro vita. Forse il problema è nostro: non riusciamo a convincerli che vale la pena bruciare la vita per Cristo. Insisto: i giovani hanno molto chiara l’idea dello sforzo e della lotta. Per mantener un posto di lavoro, devono darsi, anima e corpo, e se occorre, lavorare cinquanta ore settimanali per rispondere alle attese. Per avere un corpo che risponda al modello in vigore, con quante ore di palestra sanno massacrarsi? Quanta fatica facciamo a proporre una quasi simbolica penitenza quaresimale! Eppure a quanti e quali sacrifici si sottopone un giovane per divertirsi? Arriva all’avvelenamento con la droga, pur di strappare ad esse quel supplemento di resistenza fisica che gli permetta di godere fino allo sfinimento. E’ questa una curiosa forma di eroismo. Una specie di autoflagellazione fino alla morte. E’ il rovescio del martirio cristiano che è dare la vita per Qualcuno al di fuori di se stesso: per il fratello, per Cristo. Non è che manchi oggi il sacrificio; è cambiato l’ideale che lo giustifica. Non lo si fa per Dio, ma lo si fa per il godimento immediato, per il proprio benessere che è il nuovo dio senza atei, perché sembra che tutti lo stiamo cercando come l’unico, supremo orizzonte di vita.

  • Come presenterebbe oggi questi ideali di sacrificio ed abnegazione?

Confesso la mia povertà. Non so qual è la mediazione pedagogica e certamente non basta col enunciare grandi mete. Pero, se non siamo disposti alla dedizione personale e a proporre il sacrificio come cammino di realizzazione della propria vita, da dove potrà venirci quella generazione saldamente resistente alle imponenti sfide che non ci stanchiamo di enumerare ad ogni incontro? Si può cadere negli idealismi, vero! Ma mettendo la barra ben alta, i fondatori ottennero che molti dei loro figli facessero un “salto di santità” al quale mai avrebbero osato. Grazie a questo crearono una scuola di santità. Non credo che oggi si possa battere altra strada, se non quella.

  • Nel vostro carisma gioca un ruolo molto importante la fedeltà alla Chiesa e al Papa, tanto da avere un quarto voto.

Non è stato sempre facile neanche per noi stessi, capire bene questa dimensione così essenziale che Don Orione ci volle legati da un quarto voto di fedeltà al Papa. Ci sembrava che si rinunciasse alla possibilità di essere sanamente critici all’interno della Chiesa, “sempre reformanda”. Quando si è giovani, si usa avere qualche problema con tutto ciò che è istituzionale. Poi ci si accorge che le cose non sono così nitide, le carte sono mischiate. Sorprende, ad esempio, che oggi il Papa sia più propenso a chiedere perdono dei peccati della Chiesa, di alcuni progressisti che non sbagliano mai, che persino sembrano stabilire un nuovo dogmatismo, in questo caso anti istituzionale. Don Orione ci vuole mossi da un fine istinto ecclesiale. Sente la Chiesa come “Madre”. Questa categoria di Chiesa Madre è un po’ offuscata oggi. Sembra che ci infantilizzi. Non c’è dubbio che questo è un pericolo reale. Ma a Don Orione preoccupa di più l‘altro rischio: quello di dirsi figli, vivendo da estranei.

  • Questa dimensione quale messaggio ci trasmette oggi?

Ci invita a vivere come “figli della Chiesa”. Io mi sono riconciliato con il quarto voto, quando ho capito che non mi veniva chiesto de bendarmi gli occhi, ma di amare la Chiesa. Solo questo e niente meno di questo! E’ come imparare a muoversi con un istinto ecclesiale che ad ogni passo ti fa interrogare: da che parte sto? Con questo modo di agire, chi aiuto? Perché ci può capitare di lanciare sassate sul nostro proprio tetto, anche con la migliore intenzione.

C’è un testo di Don Orione che ci aiuta ad intuire il mistero della Chiesa, ad un tempo divina ed umana. Mi permetta di leggerlo: "Non è, credetelo, lo spettacolo delle nostre miserie e dei nostri difetti che crea l'odio di tanti contro di noi e contro la Chiesa. Chi è mai che giudichi l'oceano da quella schiuma che esso rigetta sulla spiaggia? O dalle tempeste che agitano talora le onde? L'oceano non sta nei rifiuti impuri delle sue riviere, ma nella profondità, nell'immensità delle sue acque, nelle vie che apre ai commerci più lontani, nella solennità del suo riposo, nelle grandiosità delle sue emozioni, nell'abisso del suo divino silenzio... Non sono i nostri peccati che provocano l'odio del mondo, sono le nostre virtù, sono i nostri santi! Non è l'elemento umano della Chiesa, ma l'elemento divino!"

  • Una parola finale per i giovani. Quale messaggio lascerebbe loro?

Don Orione aveva solo 19 anni, quando gettava le basi della Congregazione. Direi ai giovani che si innamorino di Gesù Cristo e troveranno spazio abbondante nella Chiesa e nel mondo. E se non è troppo, chiederei loro due cose specifiche.

La prima, che si consacrino per sempre. Che vivano con speranza e ce la contagino, e si giochino per una vita religiosa fino alla morte. Oggi si amano le esperienze molteplici, perciò non mancano ipotesi di consacrazione “ad tempus”. Mi sembra meraviglioso pensare a comunità più aperte, a potenziare le “foresterie” dei monasteri per facilitare esperienze più prolungate, forse per qualche anno. Ma, mi urta abbastanza l’idea di un amore con data di scadenza, anche se fosse molto alla moda. Alla vita religiosa gli sta bene il modello del “tempo pieno”. Quello del: «Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio». Il modello ci ricorda che consacrarsi non è solo donare frutti, ma l’albero intero, completo di radici, e perfino con un po’ di terra attorno, per evitare malattie e piaghe che sono in agguato.

In secondo luogo, chiederei loro che si consacrino del tutto, che è l’unico modo con cui vale la pena consacrarsi per sempre. Non vedo come si possa vivere nella dedizione, ma solo un po’. Senza la decisione di giocarci interi e tutto, non arriviamo da nessuna parte. Se un aereo non prende velocità, non spicca il volo, si schianta alla fine della pista. Abbassare la barra è grave stoltezza! Ci frustriamo, rimaniamo a metà strada, senza le gioie del mondo e le consolazioni di Dio. Come ci ha ricordato Giovanni Paolo II, la vera sconfitta della vita religiosa non consiste nel calo numerico, ma nel venir meno all’adesione spirituale al Signore ed alla propria vocazione e missione.

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