Card. Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo di Genova e di Milano; testo tratto della lezione tenuta in occasione della inaugurazione della Università Popolare Don Orione, a Genova, il 12 marzo 1999.
TETTAMANZI DIONIGI
Il valore culturale della carità.
Don Orione voleva affermare il valore sociale della carità: è precisamente questo valore a renderla una realtà diversa da un semplice raccogliere, per così dire spigolando, i mali di oggi e cercare di porvi rimedio. La carità è una realtà più profonda e originale: nel progetto di Don Orione la carità è il segno vivo di una testimonianza cristiana, di una testimonianza talmente forte da conquistare e attrarre gli uomini all’interno del popolo di Dio. Riprendiamo le sue stesse parole: “Noi, attraverso i rottami della società, cerchiamo che non si rompa, ma si alimenti l’unione, l’amore al Papa. Questo – dei rottami – deve essere il nostro filo conduttore” (Spirito I, 45).
Così il Piccolo Cottolengo è allora uno strumento più che uno scopo, un veicolo più che un traguardo, un’azione intenzionale che sprigiona un cambiamento di cultura – ossia di mentalità e di gesti concreti – , quasi una eco viva della parola conclusiva della parabola del Buon Samaritano “vai e fai altrettanto” (Lc 10,37). Infatti il Piccolo Cottolengo Don Orione non è stato costruito solo in funzione dei suoi ospiti, ma, come diceva Don Orione stesso guardando al futuro, “diventerà la ‘cittadella spirituale di Genova’. Altro che la lanterna che sta sullo scoglio! – continuava – Il Piccolo Cottolengo sarà un faro gigantesco che spanderà la sua luce e il suo calore di carità spirituale anche oltre Genova e oltre l’Italia” (Lettere I, 537).
Ma questo sarà possibile se al Cottolengo si affiancheranno luoghi e momenti nei quali la sua azione “profetica” o di annuncio viene studiata e indagata, approfondita e chiarita nelle sue autentiche finalità.
Carità e annuncio, carità e cultura si richiamano a vicenda. In realtà, se un’opera si chiude in se stessa e non viene fatta conoscere, è come se non esistesse, almeno a livello di significato sociale. Oltre a fare il bene, è necessario dunque trovare il linguaggio per raccontarlo al mondo, certo con giusto pudore nei riguardi di noi stessi e con grande delicatezza nei riguardi di chi riceve il bene ma anche con convinzione e decisione, mettendo al centro il povero; questo, evidentemente, secondo lo spirito evangelico; al di fuori quindi di ogni sterile sentimentalismo e ancor più di ogni insulsa demagogia. In un certo senso, non è carità vera quella di un’opera che non si racconta, che non è visitata da nessuno, che non viene capita né spiegata all’uomo d’oggi. Se l’opera non è anche notizia, “buona novella”, è monca, in qualche modo non serve. Non è forse questo che intende dire il Signore Gesù con l’immagine della lucerna? “Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa” (Mt 5,15). E conclude; “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,16).
Mi vengono in mente alcune interessantissime espressioni dei Vescovi italiani che nei loro “Orientamenti pastorali per gli anni ‘90” dal titolo Evangelizzazione e testimonianza della carità scrivono, tra l’altro: “La ‘nuova evangelizzazione’, a cui Giovanni Paolo II chiama con insistenza la Chiesa, consiste anzitutto nell’accompagnare chi viene toccato dalla testimonianza dell’amore a percorrere l’itinerario che conduce, non arbitrariamente ma per logica interna dello stesso amore cristiano, alla confessione esplicita della fede e all’appartenenza piena alla Chiesa. Per sottolineare questo profondo legame tra evangelizzazione e carità abbiamo scelto, quasi filo conduttore della nostra riflessione, l’espressione ‘vangelo della carità’. Vangelo ricorda la parola che annuncia, racconta, spiega e insegna. All’uomo non basta esser amato, né amare. Ha bisogno di sapere e di capire: l’uomo ha bisogno di verità. E carità ricorda che il centro del vangelo, la ‘lieta notizia’, è l’amore di Dio per l’uomo e, in risposta, l’amore dell’uomo per i fratelli (cf 1 Gv 3, 16; 4, 19-21). E ricorda – di conseguenza – che l’evangelizzazione deve passare in modo privilegiato attraverso la via della carità reciproca, del dono e del servizio” (n.10).
Alla luce del valore sociale della carità e del rapporto tra carità e cultura, Don Orione raccomandava ai suoi figli “il nobile scopo di istruire ed elevare il popolo facendo risplendere alla mente del popolo la bellezza della verità e della virtù, del sapere: e nel nome di Dio educare all’Italia dei cittadini di cui abbia ad onorarsi” (Scritti 52, 249 e 37, 245). È esattamente la stessa azione e lo stesso scopo che Don Orione aveva in mente quando definiva i membri della sua Congregazione quali “gesuiti del popolo”, capaci di diffondere la cultura cristianamente ispirata non solo nei luoghi dove istituzionalmente si riflette e si pensa, ma anche dove si lavora e si vive, si soffre e si spera: nel popolo, appunto.
L’aggettivo popolare non significa affatto semplicistico, né tanto meno banale o sciocco. Per Don Orione ha una risonanza e un significato del tutto particolare, che supera l’accezione del Volk di scuola tedesca e che si avvicina piuttosto al valore di popolo di Dio, che è la Chiesa. L’anima popolare di Don Orione si esprime, ad esempio, in queste sue parole: “Cercare e medicare le piaghe del popolo, cercare le infermità: andargli incontro nel morale e nel materiale. In questo modo la nostra azione sarà non solamente efficace, ma profondamente cristiana e salvatrice. Cristo andò al popolo! Sollevare il popolo, mitigare i dolori, risanarlo. Deve starci a cuore il popolo. L’Opera della Divina provvidenza è per il popolo” (Spirito VII, 102).
Come si vede, non siamo affatto dinanzi a un populismo fine a se stesso: in questo Don Orione è di una chiarezza cristallina, diventando persino ripetitivo. Ogniqualvolta egli tenta di descrivere il suo progetto, vicino al popolo mette sempre anche la Chiesa e il Papa: portare i poveri al Papa, diffondere l’amore a Gesù Cristo e alla Chiesa, dare Cristo al popolo e il popolo al Vicario di Cristo. Ecco un significativo testo, in occasione del suo 25° di Messa.
“Mai come ai nostri tempi il popolo fu staccato dalla Chiesa e dal Papa; ed ecco quanto è provvidenziale che questo amore sia risvegliato con tutti i mezzi possibili, perché ritorni a vivere nelle anime l’amore di Gesù cristo (…) Quanto maggiormente sarà sentito l’amore al Papa e alla Chiesa, in coloro che per ragioni di ministero sono maestri dei popoli, di altrettanto sarà più ardente la fiamma che li agita nel comunicare alle anime questo sentimento, senza del quale nessuna partecipazione di vita soprannaturale potrà avvenire; in tal modo l’esercizio della carità raggiungerà perfettamente il suo scopo corrispondente ai bisogni dei nostri tempi, che è precisamente questo: di ricondurre la società a Dio riunendola al Papa e alla Chiesa (…). Quella carità pertanto che viene esercitata nella società nostra prendendo le mosse dall’amore al Papa e alla Chiesa, e mirando al raggiungimento di questo amore in tutti, è precisamente quella che meglio risponde al bisogno dei tempi. E tale è lo spirito di cui è informata l’Opera della Divina provvidenza, tale è la sua fisionomia, il suo carattere tipico: Instaurare omnia in Christo” (Spirito VII, 42-43).
Mi è caro riproporre ancora alcune splendide parole di Don Orione.
“Noi non facciamo politica: la nostra politica è la carità grande e divina, che fa del bene a tutti. Noi non guardiamo ad altro che alle anime da salvare. Se una preferenza la dovremo fare, la faremo a quelli che ci sembreranno più bisognosi di Dio, poiché Gesù è venuto più per i peccatori che per i giusti. Anime e anime! Ecco tutta la nostra vita; ecco il nostro grido, il nostro programma, tutta la nostra anima, tutto il nostro cuore: Anime e anime! Ma, per meglio riuscire a salvare le anime, bisogna pur sapere adottare certi metodi e non fossilizzarci nelle forme, se le forme non piacciono più, se diventano, o sono diventate, antiquate e fuori uso…Anche quelle forme, quelle usanze, che a noi possano sembrare un po’ laiche, rispettiamole e adottiamole, occorrendo, senza scrupoli, senza piccolezze di testa: salvare la sostanza, bisogna! Questo è il tutto. I tempi corrono velocemente e sono alquanto cambiati, e noi, in tutto che non tocca la dottrina, la vita cristiana e della Chiesa, dobbiamo andare e camminare alla testa dei tempi e dei popoli, e non alla coda, e non farci trascinare. Per poter tirare e portare i popoli e la gioventù alla Chiesa e a Cristo bisogna camminare alla testa. Allora toglieremo l’abisso che si va facendo tra il popolo e Dio, tra il popolo e la Chiesa” (Scritti 20, 96-97).
Queste ultime parole di Don Orione mi portano a parlare di tutte quelle persone che vogliono “camminare alla testa dei tempi” e che hanno decisamente colmato quell’ “abisso” che talvolta esiste tra il popolo, da un lato, e Dio e la Chiesa, dall’altro lato. L’impegno è di aiutare anche altri a colmarlo, questo abisso, suscitando e alimentando una vera e propria cultura della carità: una carità, dunque, che viene sempre più scoperta nella straordinaria ricchezza e bellezza dei suoi significati umani e cristiani e che si fa annuncio e testimonianza del Vangelo che libera e salva.