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Messaggi Don Orione
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Nella foto: Torino, 10 marzo 2002. Incontro culturale nell'aula magna del Seminario Metropolitano dedicato a Filiberto Guala. Da Sinistra: Camillo Montanaro, Franco Peradotto, Flavio Peloso, Chiara Molino, Clelia Ruffinengo.
Autore: Flavio Peloso
Pubblicato in: In AA.VV. Filiberto Guala. L’imprenditore di Dio. Testimonianze e documenti, Ed. Piemme, Casale M. 2001, p.11-22.

Fu personalità vivace e intraprendente, di vita molto attiva e contemplativa, manager di successo e poi trappista inquieto.

FILIBERTO GUALA
L’itinerario vocazionale dell’imprenditore di Dio


Flavio Peloso


“Ancora oggi sconto quei due anni alla Rai. Arrivano qui giornalisti come lei, mi fanno domande sulla televisione e poi vedo sui giornali titoli tipo ‘dal potere alla trappa’, come se io in una azienda di proporzioni come la Rai contassi qualcosa”;(1) così confidava bonariamente qualche anno fa Padre Filiberto Guala, già monaco trappista da vari anni.
Della vita di questo monaco, morto nella trappa delle Frattocchie presso Roma, il 24 dicembre scorso, a fare notizia è soprattutto il suo passato di manager di alto livello nella amministrazione pubblica italiana che lo vide primo direttore e fondatore della RAI. E’ figura molto nota in Italia. L’ingegnere Guala organizzò e diresse tante iniziative per la ricostruzione del nostro Paese dopo la catastrofe bellica. Ma piace qui ricordare, più che la sua carriera professionale, il suo itinerario umano e spirituale durato ben 93 anni.
La vita di Filiberto Guala può essere divisa nettamente in due periodi: fino al 1960 (a 53 anni) fu protagonista della città; fino al 2000 (a 93 anni) fu protagonista della trappa.



Professione e vocazione coincidono

Nato a Torino il 18 dicembre 1907, crebbe in un ambiente cattolico fermentato dai santi esempi di Piergiorgio Frassati. “Dopo la morte di Piergiorgio Frassati si formò a Torino un gruppo di amici provenienti da diverse regioni italiane, militanti nella FUCI: volevano vivere insieme la spiritualità di Piergiorgio. Ci incontravamo tre volte all’anno”, ricorda Guala (Lettera del 20.9.1998). Era un gruppo eccezionale di amici fraterni, che diverranno poi ‘personaggi’ noti: Roberto Einaudi, Domenico Garelli, Carlo Carretto, Enrico di Rovasenda e altri. Alla vita di questo gruppo si deve molto lo “stampo vocazionale” di Filiberto Guala: umanamente forte, profondamente spirituale, apostolicamente intraprendente, consapevolmente ecclesiale, socialmente aperto e in dialogo.

Nell’ambiente spirituale e apostolico della FUCI, Guala trovò in Mons. Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, un amico e un sicuro riferimento per il suo impegno di santificazione cristiana nel mondo, sempre dinamico in opere di bene. “A vent’anni Montini diceva a noi studenti: Dovete prendere coscienza che chi ha il privilegio di fare l’università e crescere nella Chiesa ha il dovere di diventare un laico impegnato. Tu sei un cristiano impegnato a servire il prossimo come ingegnere, devi diventare un grande ingegnere”. Furono parole che lasciarono un segno profondo nel giovane Guala i quale riconobbe: “Di fatto, mio padre spirituale era Mons. Montini. Restai sempre in rapporto con lui e quando venivo a Roma andavo da lui a confessarmi. ‘Lei deve essere un buon ingegnere e non un prete’ mi disse Montini. La Chiesa ha bisogno di laici che abbiano delle posizioni determinanti nella struttura del paese”.
Certamente, Guala aveva ben chiaro che la vita cristiana è “vocazione”, in senso stretto, anche per i laici. E questa fu la sua decisione: “Sì sarò ingegnere che darà lavoro. Servirò così la Chiesa senza diventare sacerdote, ma laico consacrato”. (2) Visse la sua vocazione laicale con intraprendenza intelligente ed efficiente, nutrendosi alle sorgenti della preghiera e della passione per la salvezza delle anime.

A Torino ebbe un qualificato impiego professionale alla RIV di Torino (fabbrica di cuscinetti a sfera). Dopo qualche tempo, fu optato come direttore dei lavori per il raddoppio della funivia che trasporta carbone dal porto di Savona al Piemonte. “Entrai allora in un gruppo di preghiera che mi mise in stretta relazione con l’avvocato Franco Costa, che diventerà Mons. Costa, successore di Montini alla FUCI, e mi coinvolse nella Stella Maris (Assistenza religiosa ai marittimi di passaggio)”. (3)
L’Apostolato del Mare lo coinvolse e appassionò. (4) “A 30 anni, a Savona, andavamo sulle navi mercantili a invitare i marittimi per la Messa al porto. Un giorno sentii il commento di un macchinista pugliese a un compagno: ma lo sai che nessuno li paga!”.



L’incontro con Don Orione

Un incontro importante nell’itinerario vocazionale di Guala è quello con Don Luigi Orione, sacerdote già in fama di santità e fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza dedita all’apostolato tra le classi popolari. Nel 1938, “a trentun anni ho incontrato Don Orione che era appena tornato dall’America e si prese cura di me”. Ne nacque una relazione al alto tenore spirituale e apostolico. “Don Orione andava a Genova tutti i Giovedì. Io facevo con Don Orione il tragitto da Genova a Tortona, perché stavo a Saronno e lavoravo a Savona. Viaggiavamo insieme parlando e pregando, poi stavamo assieme alla sera. Così ogni giovedì. L’incontro con Don Orione è certo il più grande avvenimento della mia vita: mi ha fatto capire la vita di unione con Dio… Forse soprattutto mi ha aiutato ad aver fede”.

Da Don Orione attinse soprattutto l’attenta disponibilità alla Divina Provvidenza che conduce le vicende della vita. Guala ricordò sempre un suo discorso: “Tu sei un consacrato nel celibato, ma restando nel mondo ‘fino a quando’ il Signore non ti chiederà altro”. (5) “Ricordo – continua Guala - la sua spinta alla disponibilità nell’affrontare qualunque impresa. Un bel giorno lui mi disse: Tu farai grandi cose nella vita. Io ti chiedo un impegno: quando ti diranno che devi fare una cosa molto difficile, e tutti dicono di non farcela, e ti dicono che non c’è nessun altro che la possa fare, in coscienza tu la devi fare”.



Manager e apostolo

Con questo atteggiamento di coraggiosa intraprendenza, l’ingegnere Filiberto Guala passò poi da direttore dei lavori di Savona a responsabile delle “Acque Potabili” di Torino, del Gruppo Frassati. Nella sua Torino, egli può così dare sviluppo agli impulsi apostolici con l’animazione e il coordinamento delle iniziative socio-caritative di Torino, godendo di grande stima da parte del Cardinale Maurilio Fossati.
“Io mi sono trovato a fare tante cose a Torino nel campo civile e sociale. C’era bisogno di chi si occupasse dell’assistenza religiosa degli operai nelle fabbriche. Mi fu indicato Don Giuseppe Pollarolo che stava a Milano e faceva molto bene, era anche noto predicatore. Così Don Pollarolo è venuto a Torino e abbiamo cominciato insieme il lavoro nelle fabbriche. In questo campo è Don Pollarolo quello che ha fatto tutto; ma io ero il responsabile della Caritas piemontese e quindi eravamo una cosa sola. Sempre insieme. Don Pollarolo era una persona meravigliosa; ha incantato tutta Torino”. L’avere avviato una pastorale operaia popolare a Torino e in Italia nell’immediato dopo guerra è un altro dei meriti del dinamico ingegnere Guala.

Terminata la disastrosa Guerra mondiale, il governo italiano varò un imponente progetto di ricostruzione del Paese e Guala fu chiamato a Roma quale direttore tecnico del piano di costruzioni INA-Casa (il Piano Fanfani).
La sua competenza, onestà e abilità manageriali attirarono su di lui l’attenzione dei politici quando, nel 1954, si trattava di scegliere l’Amministratore delegato della RAI. “Ad un certo momento, mi chiesero di assumere la direzione della RAI, un’impresa nuova e ardua, dove non sapevano chi mettere. Decisero di chiedere a me. L’onorevole Scelba mi chiamò, mi parlò un poco e io gli dissi: Guardi, lei lo sa, io penso di non essere preparato per fare questo… Ed egli replicò: Non c’è nessun altro di area cattolica che possiamo mettere! A queste parole, io mi sono rivisto, lì davanti, Don Orione e le sue parole. E gli ho detto “si”.

La sua vocazione sembrava bene delineata e stabile: un cristiano dei tempi moderni, bene formato, competente e brillante nelle imprese sociali e civili, apostolico nel suo sentire e operare. Eppure, ad un certo punto, in Guala esce allo scoperto, irrefrenabile, il suo prepotente desiderio di maggiore intimità con Dio e di contemplazione, che sempre aveva accompagnato il suo esuberante attivismo.



La scelta della Trappa

La sua scelta fu una sorpresa per tutti. Ma lui spiegò che la decisione aveva radici lontane. “Gli incarichi manageriali li ho presi per accontentare gli amici che mi chiedevano o mandavano. Ma io non ci credevo tanto – riconobbe a distanza di anni. Quando è morto Don Orione, ho cominciato a frequentare Tortona e l’Istituto Teologico, lì mi pareva casa mia, ecco. C’erano i chierici e così mi sentivo attratto, però non mi sono deciso perché lasciavo fare agli altri. Ma Don Orione non mi disse mai di lasciare il mondo e di andare con lui, ma mi considerava uno dei suoi: mi accennò una volta che mi vedeva in futuro sacerdote” (lettera del 9.11.1963).

Da allora passarono molti anni, con vari impegni pubblici. “Poi mi capitò una cosa curiosa. Il superiore generale degli Orionini, Don Carlo Pensa, mi telefonò dicendomi: Il tuo amico, Don Ignazio Terzi, vuole farsi trappista. Ora io vorrei che tu lo portassi in una trappa per esaminare se deve o non deve farsi trappista”. Furono insieme alla Trappa di Citeaux. Don Terzi non decise di entrare. Guala invece ne restò affascinato. “Fu quest’incontro a farmi intuire che il ‘fino a quando’ di Don Orione stava per scadere? Certo è che l’anno seguente mi recai a Tamié, dove cominciai a pensare che quella fosse davvero la mia strada”. Così fu. “Passò un altro anno e mi ritrovai un’altra volta per una bella settimana di ritiro alla Trappa di Tamié, in Savoia. E decisi di farmi trappista”.

Restava solo da dare corso alla scelta con il distacco dai tanti impegni pubblici e con l’elezione di una Trappa come stabile dimora. Un’altra circostanza lo determinò. Dovendo accompagnare l’amico Don Pollarolo per una esperienza al monastero delle Frattocchie di Roma, Guala profittò per manifestare la sua intenzione all’Abate. “Questi mi disse che ero troppo vecchio: ‘Ma lei non sa che cosa vuol dire farsi frate; vuol dire che dove va non solo deve dire che tutto va bene, ma deve anche credere che tutto va bene’. Decisi di entrare lì. Era il 1960”.

In realtà, dovette disimpegnare ancora alcuni incarichi amministrativi, quale quello di dirigente del progetto dell’Esposizione internazionale “Italia 61”.
Renato Marchetti, amico dell’anima di Guala, assicura che “l’entrata nella Trappa per Guala fu un voler sparire per entrare in uno spazio più intimo con Dio. Questo lo discutemmo molto nel marzo del 60”.
Tra i primi cui l’ing. Guala diede la notizia della scelta fu Don Carlo Pensa: “Voglio che Lei sia fra i primi ad avere notizia della mia entrata in religione, poiché, se Don Orione ne è il primo ispiratore umano, anche Lei tanto ha fatto per accompagnarmi verso questa meta”. E poi spiegava “Sono certo che è Lui (Don Orione) che mi ha inoculato il bacillo della vita contemplativa, anche se per me egli pensava ad una vita attiva, ma sottolineando con tanta insistenza il dovere della preghiera e della interiorità”. (6)

Gli restava ancora uno scrupolo: cosa ne penserà Mons. Montini, l’amico ora diventato cardinale di Milano? “Quando conobbe la mia decisione – racconta Guala - l’accolse con qualche riserva scrivendomi in una lettera nel Natale 1960: ‘Troppo presto per lasciare quelle responsabilità a cui ti sei consacrato’. All’inizio del Concilio, Montini subito mi fece il dono di una sua lunga visita alle Frattocchie e mi confermò tutta la sua amicizia: "Tutti i nostri amici dicono che eri pronto per quella scelta e anche io mi arrendo". Questo è stato il culmine della paterna benevolenza con cui Montini mi guidò per 30 anni. Ero perdonato. Ho provato una gioia grande e ho superato ogni disagio di fronte a questo amore immutato”. (7)

Con l’11 novembre 1960, inizia la seconda parte della vita di Guala come monaco trappista. Fece il suo noviziato e divenne trappista nel 1962; fu ordinato sacerdote il 29 aprile 1967.
La stabilitas del monastero sembrerebbe a questo punto togliere argomenti alla cronaca della seconda fase della vita di Padre Filiberto Guala, ma dalla molta corrispondenza e dai colloqui con tante anime che a lui ricorrevano in cerca di grazia e di consiglio si può ricostruire una vivacità di percorso spirituale inarrestabile e sempre nuovo.



A San Biagio di Morozzo

L’iniziativa anche esteriormente più rilevante e il recupero materiale e spirituale del Monastero di San Biagio di Morozzo, nei pressi di Mondovì (Cuneo). “Alcuni benefattori piemontesi avevano offerto al Vescovo di Mondovì un appezzamento di terreno agricolo in cui si voleva impiantare un centro di spiritualità sul modello di quello di don Gasparino di Cuneo. Monsignor Franco Costa che viveva in stretto contatto con Paolo VI, presentò questo progetto al Papa che lo approvò”. (8) Fu così che, nel 1972, “a 66 anni giunsi a Mondovì a fare vita eremitica in un vecchio monastero, avendo a fianco un fabbricato per l’accoglienza per chi volesse frequentare una scuola di preghiera. Mi trovavo ancora una volta alla soglia di un’impresa; anche per questo la Provvidenza mi venne incontro ispirando Beppe Viada a scolpire per noi la dolce e riposante immagine di Maria che presenta ai fedeli che qui si raccolgono in preghiera il suo bambino… e noi a darle il nome di Madonna della Fiducia, che è diventato come l’insegna della nostra accoglienza”.

Fu un tempo di umiltà di vita, unita a non poca fatica e povertà di condizioni, ma anche di molte relazioni di gente d’ogni tipo. Volle aprire un piccolo sentiero di “monachesimo al servizio dell’uomo” oltre che di Dio, “capace di offrirgli non un culto esteriore ma un’esperienza profonda di Dio e profondamente umana”. Divenne un centro di vita spirituale profondamente radicato nella tradizione monastica e in dialogo con le nuove sfide e problemi del mondo.
All’amico artista di Cuneo, Beppe Viada, scrive: “Voi artisti e noi oranti abbiamo una meta comune: riuscire ad arrivare “al-di-là” di quello che si tocca con le mani! Per arrivarci occorre un dono di Dio: la gioia, che per voi si chiama ispirazione”.



“Nella vecchiaia daranno ancora frutti”

L’espressione del Salmo 91, si addice bene al nostro Padre Filiberto. Al Monastero della “Madonna della Fiducia” di Morozzo risiedette fino al 1984 quando, a 77 anni, per motivi di salute, si vide costretto a fare ritorno definitivo alle Frattocchie.
Ricercatissimo come confessore, in corrispondenza con vecchie e nuove conoscenze, esercitò un non piccolo apostolato anche mediante la Lettera ai nipoti con cui faceva giungere periodicamente a tante persone ricordi, sprazzi di luce spirituale, consigli. “Sto sperimentando che, col declinare delle forze, cresce il dono del ricordo, del rivivere esperienze e incontri che si arriva a penetrare più profondamente”. (9)

Padre Filiberto vive con nuovo impulso e nuovi argomenti l’impresa della preghiera come opera propria e più necessaria. “Da vecchio, capita spesso di riflettere sul compito del monaco: a poco a poco ho capito che Magnificat e Miserere sono la sintesi della vita cristiana che noi dobbiamo testimoniare a coloro che fanno capo al Monastero per la loro crescita spirituale”. (10)

L’ingegnere e poi padre Filiberto Guala è sempre stato un ‘imprenditore’, nel senso etimologico della parola, non solo nella vita civile, ma anche in quella monastica.
Non si è mai lasciato vivere o vivere di rendita. Già novantenne, aveva ancora progetti per la testa: “Voglio farti sapere che sono in un momento che potrebbe dare una svolta alla mia attività di … vecchio novantenne. Il Signore sta cambiando il modello delle persone che vengono a confidarsi. Aumenta di giorno in giorno il numero di coloro che vedo per la prima volta: si aprono sul mondo sconvolgente dei loro guai e mi fanno intuire che forse non riescono a capire in profondità la “miseria” che ciascuno porta come conseguenza della propria storia personale. Ecco la svolta… Mi rendo conto che c’è più miseria di quella che conoscevo e quindi mi sento chiamato: 1) a dedicare più tempo a questi ‘miseri’, 2) a mobilitare i miei amici, come te, a sostenere questo ‘mondo’ con la loro preghiera”. E lanciò una crociata di preghiera “per sostenere il mondo”. (11)

Sempre in cammino. Ad un amico artista di Cuneo, Viada, scrive: “Un anno fa’ ho pensato che mi resta ancora un passo da fare verso il Signore, per prepararmi ad adorarlo faccia a faccia: comprendere, adorare la sua maestà, il suo splendore”.
L’imprenditore aveva compreso con San Giovanni della Croce che “Quando si è dato tutto a Dio, molto ancora resta da fare e cioè lasciarsi ‘prendere’ da Lui”.



NOTE
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1. I testi di Guala, salva diversa indicazione, sono tratti da un colloquio avuto con lui nel maggio 1999 e riportato in “A colloquio con Padre Filiberto Guala” Vedi più sotto”.

2. “Guala ricorda Paolo VI” in “Filiberto Guala. L’imprenditore di Dio”. Ed. Piemme, 2001, p. 177-182. 3. In “Guala ricorda Paolo VI”, cit.

4. Cfr il contributo di Renato Marchetti “Sessant’anni di amicizia nati con l’Apostolato del Mare”, p. 44-58. 5. “Naturalmente gli raccontai dei miei rapporti con Monsignor Montini – ricorda ancora Guala - per il quale Don Orione aveva una vera devozione. Tuttavia quando Don Orione entrò maggiormente in confidenza con me, l’anno prima della sua morte, mi disse che non era d’accordo con Montini sulla esclusione per sempre del sacerdozio nella mia vita.Io confidai a Montini questa divergenza di vedute, ma lui mi chiese: “ Ti ha detto quando devi diventare prete?”. Gli risposi di no e lui: “Allora non parliamone più tra noi”, in “Guala ricorda Paolo VI”, cit.

6. Summarium ex processu canonizationis, p.684.

7. In “Guala ricorda Paolo VI”, cit.

8. In “Guala ricorda Paolo VI”, cit.

9. Lettera a Don Ignazio Cavaretta, 14.2.1994, Archivio Don Orione, Roma.

10. Lettera ai Nipoti n.6.

11. Lettera circolare del 14.3.1997.




Pubblicato in “Messaggi di Don Orione” 33(2001) n.103, p.53-58.

 

A COLLOQUIO CON PADRE FILIBERTO GUALA

Abbazia Cistercense delle Frattocchie (Roma),[1] 20 maggio 1999.[2]

 

Dove ha conosciuto Don Orione? Qual è il primo ricordo?
Io ero a Savona, dove lavoravo nelle ferrovie, e Don Costa mi parlava sempre di questo Don Orione che era in America in quegli anni. Appena tornato in Italia, Don Costa mi ha messo nelle mani di Don Orione. Ricordo che Don Orione mi ha subito preso sotto il suo comando.[3] Di fatto, mio padre spirituale era Mons. Giovanni Battista Montini; restai sempre in rapporto con lui e quando venivo Roma andavo da lui a confessarmi. “Lei deve essere un buon ingegnere e non un prete” mi disse Montini. “La Chiesa ha bisogno di laici che abbiano delle posizioni determinanti nella struttura del paese”. Poi ne parlai a Don Orione il quale commentò: “Sul non diventare prete… si dovrà vedere”. Quando poi, a distanza di molti anni, io sono diventato prete, Papa Montini non ha accolto molto bene la notizia.

Poi prese a frequentare Don Orione.
Don Orione andava a Genova tutti i Giovedì. Io facevo con Don Orione il tragitto da Genova a Tortona, perché stavo a Torino e lavoravo a Savona. Don Orione saliva su quel treno, viaggiavamo insieme e stavamo assieme alla sera. A Bolzaneto, passando presso la Madonna della Guardia, recitavamo il rosario. Parlavamo a lungo. Il giorno dopo, celebrava la Messa e io partecipavo. Poi ci dividevamo: io per i miei affari e lui se ne andava per i suoi. Così ogni giovedì.

Fra gli insegnamenti e fra le parole di Don Orione, cosa ricorda a distanza di tanto tempo?
Ricordo la sua spinta alla disponibilità nell’affrontare qualunque impresa.[4] Un bel giorno lui mi disse: “Tu farai grandi cose nella vita. Io ti chiedo un impegno: quando ti diranno che devi fare una cosa molto difficile, e tutti dicono di non farcela, e ti dicono che non c’è nessun altro che la possa fare, in coscienza tu la devi fare”. Ricordo che queste parole mi vennero in mente, poi, quando diventai direttore della RAI. Ad un certo momento, mi chiesero di assumere la direzione della RAI, un impresa nuova e ardua, dove non sapevano chi mettere. Decisero di chiedere a me. L’onorevole Scelba mi chiamò, mi parlò un poco e io gli dissi: Guardi, lei lo sa, io penso di non essere preparato per fare questo… Ed egli replicò: Non c’è nessun altro di ambito cattolico che possiamo mettere! A queste parole, io mi sono rivisto, lì davanti, Don Orione e le sue parole. E gli ho detto “si”.

Don Orione compagno di viaggio. Che altro ricorda di lui?
Ricordo un bel ritiro a Genova, a Villa Figino, dove ho conosciuto i giovani laici più vicini e amici di Don Orione: erano Terzi, Zambarbieri, Castello, e altri. Era un ritiro spirituale particolare.[5] Don Orione, ad un certo punto, fece venire delle macchine e ci portò tutti in giro per la città, a visitare le Case sue di Genova. Ricordo il Paverano. Voleva farci conoscere l’Opera! Ci considerava in qualche modo parte dell’Opera in quanto laici ed amici. Don Orione voleva presentarci alla sua famiglia.

Don Orione che rapporto aveva con voi giovani laici?
Di Don Orione – ma questo era comune anche con Montini – mi impressionava la sua capacità di attenzione: la persona con cui stava parlando era la più importante del mondo, in quel momento tutto il resto era niente, l’importante era quello lì davanti. Così faceva Don Orione con me, quando gli ero davanti era tutto per me: questo senso di unità era meraviglioso, dava confidenza a chi aveva davanti. Don Orione era uno che ti prendeva in mano.[6] Aveva questa forza coinvolgente! E uno si lasciava prendere in mano con gioia. Nell’incontro con Don Orione, colpiva l’atteggiamento di fiducia e di libertà, le sue vedute ampie, libere da interessi piccoli, da beghe di paese. Mi incoraggiò molto nelle attività dell’Apostolato del mare,[7] nonostante le difficoltà.

Quando è che si è accorto della vocazione monastica? Lei era un uomo di successo, intraprendente, un manager, direttore della RAI, quindi era lanciatissimo.
Veda, gli incarichi manageriali li ho presi per accontentare gli amici che mi chiedevano o mandavano. Ma io non ci credevo tanto. Quando è morto Don Orione, ho cominciato a frequentare Tortona e l’Istituto Teologico, lì mi pareva casa mia, ecco.[8] C’erano i chierici e così mi sentivo attratto, però non mi sono deciso perché lasciavo fare agli altri.

E poi ha sciolto il nodo…
Poi lì qualcuno ha detto: bisogna fargli fare la preparazione teologica e mi hanno fatto andare dal cardinale Siri di Genova. Andavo un giorno la settimana a Genova, a parlare con Siri e per fare la mia preparazione teologica. A un certo momento Don Carlo Pensa venne a sapere quello che Don Orione mi aveva detto sul “diventare prete” e sul fatto che quando io ero nell’apostolato del mare, avevo confidato a Don Orione: “Veda, questo apostolato del mare è un problema perché io vado a bordo e tutti mi dicono: perché tu non ci confessi?”. Perché non sono prete! – rispondevo. Sapendo questo da Don Orione,[9] Don Pensa mi suggerì addirittura di ordinarmi come prete “clandestino”, avrei continuato i miei impegni civili, ma quando avrei viaggiato per l’apostolato del mare avrei fatto il prete. Don Costa mi mandò a Belo Horizonte; risiedevo presso il “Lar dos Meninos” di Don Orione e facevo teologia in seminario, presso l’Arcivescovo.[10] Varie circostanze, tra cui il fatto che cessò l’apostolato del mare, mi indussero poi a non accettare la proposta dell’Arcivescovo che mi voleva ordinare prete.

Un altro appuntamento sfumato.
Passarono altri anni, con altri impegni pubblici. Poi mi capitò una cosa curiosa. Il superiore generale degli Orionini, Don Carlo Pensa, mi telefonò dicendomi: “Il tuo amico, Don Ignazio Terzi, vuole farsi trappista. Ora io vorrei che tu lo portassi in una trappa per esaminare se deve o non deve farsi trappista”. Allora, io telefonai a Parigi, a un famoso Padre trappista, e facemmo una esperienza alla Trappa di Citeaux. Passò un altro anno e mi ritrovai un’altra volta per una bella settimana di ritiro dai trappisti. E decisi di farmi trappista.[11]

E poi, cosa successe?
Io avevo già deciso ad entrare in monastero. Ero già pronto per entrare, quando a Torino mi avvicinò Cigna chiedendomi di guidare la gestione dell’esposizione internazionale “Italia 61”, con il solito ritornello: E’ una cosa importante. Non abbiamo nessuno di sicuro da mettere. Non c’è altra persona che possa farlo… E accettai. Gestii “Italia ‘61” assieme a Don Pollarolo. Si trattava di pochi mesi, poi pensavo di poter finalmente andare in monastero. Ed invece mi giunse un’altra proposta: gestire il piano nazionale delle case popolari, le cosiddette “Case Fanfani”. E così passò altro tempo.

Finalmente entrò qui, al monastero delle “Frattocchie”.
Io conoscevo il monastero delle “Tre Fontane” a Roma e mi piaceva. Poi però accompagnai Don Giuseppe Pollarolo per una esperienza al monastero delle “Frattocchie” e qui parlai all’Abate della mia intenzione. Questi mi disse che ero troppo vecchio: “Ma lei non sa che cosa vuol dire farsi frate; vuol dire che dove va non solo deve dire che tutto va bene, ma deve anche credere che tutto va bene”. Decisi di entrare lì. Era il 1960.[12]

Con gli Orionini è rimasto in contatto?
Si, con Frate Ave Maria, al quale Don Orione mi aveva mandato negli anni ‘40. Ero molto amico di Don Piccinini, di Don Pensa che accompagnai nei suoi viaggi in Sud America facendogli da autista e da interprete. E, soprattutto, ricordo bene Don Giuseppe Pollarolo. A Torino, noi eravamo sempre assieme. Io sono un tipo un po’ ribelle e anche Don Pollarolo era un tipo un po’ ribelle. Quelli che non trovavano me cercavano Don Pollarolo e viceversa. Mangiavamo nello stesso piatto, eravamo molto in sintonia.

In che cosa collaboravate?
Io mi sono trovato a fare tante cose a Torino nel campo civile e sociale. Allora mi rivolsi a Don Carlo Sterpi, successore di Don Orione, perché c’era bisogno di chi si occupasse dell’assistenza religiosa degli operai nelle fabbriche. Mi fu indicato Don Pollarolo che stava a Milano e faceva molto bene, era anche noto predicatore. Così Don Pollarolo è venuto a Torino e abbiamo cominciato insieme il lavoro nelle fabbriche. In questo campo è Don Pollarolo quello che ha fatto tutto; ma io ero il responsabile della Caritas piemontese e quindi eravamo una cosa sola. Sempre insieme. Don Pollarolo era una persona meravigliosa; ha incantato tutta Torino.[13] E’ stato anche frainteso, ha avuto delle critiche… era un lavoro delicato perché questioni politiche potevano interferire.

Ricordando quello che lei ha attinto da Don Orione, oggi, che cosa vorrebbe si sviluppare di lui?
Raccomanderei l’unità, l’essere una cosa sola, l’aprire tutto il cuore verso ciascuna persona. Penso alla tanta gente che io accompagnavo a Don Orione: si sentiva in lui un’apertura di cuore che in nessun altro ho mai sentito. Io non lo so fare; lui lo sapeva fare.


NOTE
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[1] Abbazia cistercense presso Roma cui apparteneva Padre Filiberto Guala e dove egli morì il 24 dicembre 2000.

[2] Tratto da colloquio registrato di Fra Filiberto Guala con Don Flavio Peloso. Le note sono tratte da documenti conservati nell’Archivio Don Orione (Via Etruria 6, Roma).

[3] Padre Filiberto, in una lettera a Don Luigi Orlandi del 9.11.1963, afferma: “L’incontro con Don Orione è certo il più grande avvenimento della mia vita: mi ha fatto capire la vita di unione con Dio, quando alzava gli occhi… Forse soprattutto mi ha aiutato ad aver fede”.

[4] In altra circostanza, Guala ricordò: “Ha cercato di formarmi ad una completa disponibilità nelle mani di Dio, forse perché prevedeva le varie mansioni ed impegni di natura diversa che avrei dovuto assolvere”, in Summarium ex processu canonizationis, p.682.

[5] Don Orione aveva preparato con cura questo ritiro. L’aveva annunciato ai suoi confratelli: “Domani incominceranno i Ritiri minimi nella nostra nuova Casa. Credo che siano i primi, a Genova: minimi per il numero dei partecipanti e per il tempo. Ci sarà anche quell’ingegnere che è venuto qua e che vi ha parlato dell’Apostolato del Mare, l’Ingegner Guala. Egli non potrà venire subito domani, perché ha i suoi “marini” e fino a domenica, alle dieci, non sarà libero”, Parola XI, 215. Di questo ritiro, tenuto a Villa Figino dal 12 al 14 novembre 1939, sono ancora conservati gli Appunti delle prediche di Don Orione con l’elenco dei partecipanti. “Ing.r Guala di Sagoma, n. a Torino, impiegato Carbonifere”, annota Don Orione; Scritti 27, 237. Parlando del sacramento della penitenza, Don Orione fa un simpatico inciso conoscendo la passione di Guala per l’Apostolato del mare: “La Confessione è secunda post naufragium tabula: c’entrano i marittimi, caro signor Ingegner Guala – propriamente è per salvare i naufraghi”, Parola XI, 232.

[6] Della capacità di Don Orione nel seguire personalmente ne è documento convincente la molta corrispondenza conservata. All’Ing.r De Domenico Don Orione scrive: “E dell’Ing.r Guala, che ne è? Se lo vedi, fa i miei migliori auguri pel 1940, a Lui e all’Apostolato del Mare. Viva Maria!”, Scritti 43, 112.

[7] Con una lettera del 3.2.1940, l’Ing. Guala chiese a Don Orione di presentare al Card. Salotti un Promemoria sul piano di azione dell’Apostolato del mare.

[8] Don Orione invitò più volte l’Ing. Guala a Tortona per parlare ai suoi chierici. “Cari miei chierici – commentò poi Don Orione -, dopo pranzo ed anche stamattina l’Ingegnere Filiberto Guala vi ha parlato dell’Apostolato del mare e stasera ci ha detto quello che la società aspetta da noi. Chiediamo di essere veramente, nella Casa di Dio, il Sale della terra. Pur nella sua forma semplice, senza fronzoli, quell’Ingegnere ci ha parlato, in breve, ma queste cose ci ha detto – specialmente dopo pranzo – e tutta pratica! Dio mio! Che non abbiano i secolari da avanzarci nelle vie del Signore”, Parola (8.1.1940). In una nota di Diario troviamo scritto: “25.1.1940. “Quest'oggi fu ospite della Casa P. Antonio van Rixtel, un olandese, l'Ingegner Guala. Alla visita in Cappella Don Orione lo fece parlare, come poteva ma con sentimento. Raccomandò di coltivare la fede, che egli ha sentito tra noi, e l'Apostolato del Mare”, Parola XI, 51.

[9] Don Orione, in un momento di confidenza con i suoi chierici e confratelli, l’8.4.1939, aveva detto: “Voi sapete cos’è l’Apostolato del mare. Ve ne è stato parlato quando venne quell’ingegnere Guala che domani sarà vostro confratello”, Parola X, 162. Da parte sua, Guala confermò: “Non mi disse mai di lasciare il mondo e di andare con lui, ma mi considerava uno dei suoi: mi accennò una volta che mi vedeva in futuro sacerdote” (lettera del 9.11.1963).

[10] Nell’Archivio Don Orione è conservata corrispondenza relativa a questa permanenza di Guala in Brasile. In una lettera del superiore generale, Don Carlo Pensa, il Guala viene presentato all’Arcivescovo di Belo Horizonte come “aspirante alla Congregazione nostra”. “Egli dovrebbe ascendere agli ordini venendo incardinato in codesta Diocesi, ma considerato tuttavia della Congregazione religiosa, alla quale resterà vincolato non appena avrà fatto il noviziato e la professione religiosa”; lettera del 31.3.1953.

[11] Guala nella già citata lettera del 9.11.1963, riconosce che: “Sono certo che è Lui (Don Orione) che mi ha inoculato il bacillo della vita contemplativa, anche se per me egli pensava ad una vita attiva, ma sottolineando con tanta insistenza il dovere della preghiera e della interiorità”. In altra occasione: “Posso dire che la mia vocazione religiosa è orientata alla grande umiltà che ho riscontrato in Don Orione: vedevo in lui la pratica di questa virtù del tutto rispondente alla Regola di San Benedetto”, Summarium ex processu canonizationis, p.684.

[12] Tra i primi cui comunicò la decisione fu Don Carlo Pensa: “Badia Padri Trappisti Frattocchie (Roma), 23 nov. 60. Carissimo e Rev.mo Don Pensa, voglio che Lei sia fra i primi ad avere notizia della mia entrata in religione, poiché, se Don Orione ne è il primo ispiratore umano, anche Lei tanto ha fatto per accompagnarmi verso questa meta”.

[13] In una lettera del 15.6.1943 a Don Sterpi, l’Ing. Guala scrive: “Le molte consolazioni che il Signore ci ha dato in questi giorni coi nostri operai di tutta Italia mi hanno fatto pensare come Don Orione mi accompagna – vorrei quasi dire mi perseguita – in tutte le opere di apostolato alle quali mi sono un po’ dedicato. Io non so come esprimere a Lei la mia riconoscenza per aver mandato a Torino Don Pollarolo. Senza di lui non avremmo saputo come iniziare: egli ha sofferto tanto, in principio, ma, grazie a Dio, ora è pieno di successo e di slancio. (…) Come l’incontro con Don Orione è stato decisivo nella mia vita, così il contatto colla Vostra Congregazione mi anima e mi guida attraverso gli anni”.





Sete di anime. Un brano di Don Orione commentato da Fra Filiberto Guala, “Messaggi di Don Orione” 4(1972) n.10.

 

 

 

 

CONSEGNÒ AL PROSSIMO TUTTO IL SUO “IO”
Filiberto Guala ricorda Don Orione


 

Moltissimo devo a Don Orione. Lo conobbi che era nel pieno del suo vigore e della sua maturità. Sessantasette anni. Il suo secondo soggiorno nel Sud America, la sua prestigiosa attività alla ricerca di anime da portare a Gesù Cristo – missionario, predicatore, iniziatore di opere nuove in quel continente – aveva accresciuto anche da noi la fama di questo prete, già ben noto per lo sviluppo delle sue opere in tante regioni d’Italia. Non conoscevo nessuna delle sue Case, non sapevo della stima che gli aveva manifestato il Legato Pontificio Pacelli sul «Conte Grande». Sapevo che tanti cercavano di incontrarlo per averne luce, conforto, consiglio. E che era disponibile per tutti, con pazienza, con attenzione: come se non avesse altro impegno più urgente che quello di entrare veramente in comunione col suo interlocutore, di incontrarne l’autentico essere umano per riversare nella vita di lui il proprio cuore ripieno di Dio.
A questo modo accolse anche me.

La mia prima impressione fu la pacata tenerezza del suo sguardo. Poi colsi nei suoi grandi occhi neri che mi guardavano dentro, come un riflesso di Dio, proprio come ho letto, più tardi, nella descrizione dei Padri del deserto!
«Basta guardarlo, per vedere ch’egli vive in Dio e Dio in lui. Nel suo portamento, nel suo sguardo, nel suo sorriso, nella sua conversazione, in tutta la sua persona si sente l’irradiarsi della presenza interiore di Dio». Così scrive il Maestro Generale dei Domenicani Gillet. E io aggiungerei: «nei suoi silenzi…», perché mi prese alla sua scuola, ricevendomi di frequente, facendomi pregare con lui e sostare vicino a lui.
Voleva farmi sentire il suo «cuore a cuore» col Cristo, comunicarmi la sua devozione alla Madonna mediatrice di tutte le grazie, trasmettermi la sua visione dell’apostolato cristiano. Penso che abbia voluto fondamentalmente farmi intuire la responsabilità che egli sentiva per guidare la sua opera, anche al di là delle varie Case della Congregazione.
Voleva costruire una fraternità vera tra «i suoi» - membri della Congregazione e amici - fondata su un’unità di visione della vita. Per questo si preoccupava della formazione dell’«uomo completo», anche nei suoi aspetti culturali (Dante e Manzoni gli erano tanto cari) e in quelli sociali (sensibilità accesa alla elevazione dei poveri e degli umili). Credeva nell’universalità della redenzione e sentiva l’ansia dei fratelli separati e lontani. Per avvicinare questi ultimi è dovere di ogni cristiano di tentare anzitutto un accostamento umano – nel campo del lavoro, come dell’apostolato – a più largo raggio possibile, in ogni occasione, senza limitazioni né esclusioni, sempre nel solco della carità.

Desiderava che lo si sapesse disponibile per intervenire là dove nessun altro provvede – essere come uno straccio nelle mani della Provvidenza: uno straccio non ha forma propria, ma deve assumere facilmente quella che gli dà chi lo usa. Pronto a intervenire con audacia, anche con rischio. (È su questa linea che la Congregazione, dopo la sua morte, si prestò tanto efficacemente per l'Apostolato del Mare, l'assistenza religiosa nelle fabbriche, le Case dell'Operaio, i Mutilatini...).
Naturalmente mi fece anche visitare le sue Case, create nello spirito di immediata aderenza ai bisogni delle varie categorie: dai «buoni figli» alle signore decadute. Ma mi apparvero più che altro come attuazioni particolari della sua ansia di fraternità universale.
Ricordo che dopo un corso di esercizi tenuto da lui al Boschetto (c’erano Pino Zambarbieri e Ignazio Terzi, studenti universitari) ci guidò nella visita di tutte le sue «Case» di Genova. A Paverano, paradossalmente mi confidò: «Questa casa finirà col giovare maggiormente ai cosiddetti benefattori, più che a queste poche centinaia di ricoverate. I ricchi hanno il dovere di fare la carità e noi li aiutiamo a soddisfare questo loro “bisogno”. Per di più, alcuni di essi vengono qui a fare una visita, e vi incontrano il Signore».

Mi fece conoscere da vicino i suoi chierici «facchini della Provvidenza»: dimessi nel vestire, scalcagnati nelle calzature e con certi cappellucci che li rendevano immediatamente riconoscibili appena li incontravo in ogni città. Affrontava i problemi della loro formazione con senso realistico, facendoli lavorare manualmente, chiedendo loro l’esercizio di una dura povertà. Più di una volta mi ha detto che intenzionalmente, a un certo momento voleva mettere ciascuno alla prova, in modo che se non si sentiva di abbracciare totalmente il suo ideale, se ne andasse.

Avevo incontrato, dunque, chi doveva orientare la mia vita. Quante volte ho pensato questo – e benedico il Signore – quando la notte, contemplando il cielo stellato, il mio sguardo è come attratto dalla costellazione di Orione!
Un sacerdote moderno, oggi si può dire a giusto titolo: con apertura conciliare. Voleva «camminare alla testa dei tempi…per poter tirare e portare i popoli e la gioventù alla Chiesa e a Cristo».

Don Orione aveva una capacità di ascolto eccezionale: «aveva consegnato il proprio io al prossimo», direbbe Boros. «Il primo aiuto è un tacito, intimo sorriso sulla singolarità dell’esistenza umana, sorriso che può dare solo chi dispone di un’interna tranquillità e distensione». Sapeva comprendere il lamento di ogni uomo nella peculiarità della sua situazione umana concreta.
Attraverso l’esperienza aveva raggiunto una tal finezza di sentire, che il suo sguardo penetrante arrivava alla profondità dei cuori; e spesso riusciva a scoprire ciò che «ancora» un uomo non è, ma deve divenire nel piano di Dio. Risvegliava così nel suo interlocutore possibilità e speranze che in lui già riposavano, perché Dio è dentro ciascun uomo: lo ama, è presente in lui, vive in lui, abita in lui, lo chiama, lo salva, gli offre una luce. Don Orione aiutava le anime a prender coscienza di questa realtà, perché aveva fede che «nel più misero degli uomini brilla l'immagine di Dio».

Ho voluto soffermarmi su questo avvicinamento umano, sul piano psicologico, e sulla fiducia nell’uomo, perché sono temi che nel nostro secolo hanno trovato un rilievo crescente, diventando note essenziali della azione della Chiesa nel mondo. Tanto che Paolo VI li ha presentati come atteggiamenti peculiari della Chiesa di oggi, in quella sintesi insuperabile che è il discorso di chiusura del Concilio, pronunciato il 7 dicembre 1965: «La Chiesa del Concilio si è assai occupata…dell’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’ “uomo vivo”, l’uomo tutto occupato di sé…, rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze, l’uomo tragico dei suoi propri drammi…l’ “uomo com’è”, che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa, il “filius accrescens” (Gen. 49, 22); e l’ “uomo sacro” per l’innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore.
Ha considerato ancora l’eterno bifronte suo viso: la miseria e la grandezza dell’uomo, il suo male profondo, innegabile, da se stesso inguaribile, e il suo bene superstite, sempre segnato di arcana bellezza e di invitta sovranità.

Ma bisogna riconoscere che questo Concilio, postosi a giudizio dell’uomo, si è soffermato ben presto a questa faccia felice dell’uomo, che non a quella infelice…tutto rivolto in un’unica direzione: “servire l’uomo”. L’uomo in ogni condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità. Sempre in atteggiamento di servizio si presenta Don Orione con la sua fiducia nella Provvidenza e coi suoi strumenti umani di cui certamente era superdotato, non solo nel campo psicologico, ma anche in quello organizzativo: era un uomo di genio e uno dei più «forti» che abbia mai incontrato. Tuttavia, egli non fa tanto leva su queste doti, ma piuttosto sulla fede. Rinuncia spesso ai mezzi umani, per poggiarsi sulla preghiera, sull’immolazione, le sue vere vie per arrivare alle anime.

 

 

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