L'ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Mordechay Lewy, è intervenuto il 13 dicembre 2011 al Centro Don Orione di Roma - Monte Mario per un incontro organizzato dall'Associazione "Cattolici amici di Israele" con la collaborazione dell'Opera Don Orione.
Nel suo discorso, l'Ambasciatore ha affermato:
"Non perdiamo mai di vista la prospettiva con cui guardare alle nostre relazioni e con questo intendo che dobbiamo guardare ai passati duemila anni, per poter dire oggi che stiamo andando nella direzione della riconciliazione tra ebrei e cattolici. Non dovremmo essere ingrati per l'anno passato, durante il quale abbiamo avuto testimonianze di amicizia, di comprensione e di volont? reciproca di smussare gli angoli. L'essenza delle relazioni tra mondo cattolico e mondo ebraico, da un lato, e tra e Santa Sede e Israele, dall'altro, è quello di essere cauti nelle parole e ricchi nei gesti".
RICONOSCIMENTO E RICONOSCENZA
FANNO CRESCERE L'AMICIZIA TRA LA CHIESA E ISRAELE
Flavio Peloso
Centro Don Orione, Roma – Monte Mario, 13 dicembre 2011.
Sono lieto di accogliere ancora una volta il Signor Ambasciatore Mordechay Lewy in quest’Opera della Congregazione a Monte Mario per parlare con amicizia di fatti di umanità e di fraternità che costituirono piccoli ma sicuri segni di primavera dello spirito durante il lungo gelo di civiltà che tutto e tutti sembrò devastare durante l’epoca della seconda guerra mondiale 1939-1940. Particolarmente colpito dall’“orrenda tragedia” fu il popolo ebraico.
Lo smarrimento sbigottito di allora – Perché? Perché Signore? - continua oggi a produrre una salutare inquietudine della memoria, anche collettiva e culturale, che alimenta responsabilità, rispetto e fraternità. Solo la responsabilità, il rispetto e la fraternità possono in parte consolare e aprire alla fiducia nelle possibilità di bene dell’uomo, nell’uomo in quanto fratello e, ultimamente, nel Padre nostro che è nei Cieli.
Personalmente vivo questo nostro semplice incontro non solo come un segno di fraternità tra cattolici ed ebrei – che Ella signor Ambasciatore rappresenta – ma anche come un atto di culto a quel Signore – benedetto egli sia! – che sempre rigenera nel suo amore vittorioso la nostra figliolanza divina e, dunque, la nostra fraternità umana.
Questo sguardo fiducioso in alto, all’Altissimo, prende ragione d’essere nella quasi concomitante Festa delle luci dell’Hănukkāh ebraica, che ricorda la luce che tornò a splendere nel Tempio di Gerusalemme riconsacrato, e della Festa del Natale cristiano, annunciato dalla luce della stella posata su Gesù e sul povero rifugio di Betlemme.
Il tema del nostro incontro odierno è "L'amicizia tra la Chiesa e Israele. Ricordi e testimonianze tra storia e cultura", riferendoci soprattutto ai ricordi legati al tempo della seconda guerra mondiale che corrispose anche alla shoah ebraica.
Può essere una fonte di amicizia tra la Chiesa e Israele il ricordo di quel tempo? È la risposta affermativa a questo interrogativo che ci ha riuniti qui. Ci sono tante testimonianze di giustizia e di carità fraterna legate a quel periodo oscuro, ci sono tante luci che possono illuminare e riscaldare l’amicizia tra Chiesa, Israele e gli Ebrei presenti nella nostra Roma e in Italia.
Il riconoscimento e la riconoscenza per questi fatti di amicizia e di giustizia durante la persecuzione contro gli Ebrei ha portato all’istituzione della nota onorificenza per i “Giusti fra le nazioni”. Il riconoscimento (fatto intellettuale) e la riconoscenza (fatto affettivo) sta alla base della gratuità che rigenera le relazioni personali, sociali e anche politiche.
Vorrei entrare nel merito del tema del nostro incontro.
In questa sala, il Signor Ambasciatore è venuto a conferire il titolo di “Giusto fra le Nazioni” a un mio confratello Don Gaetano Piccinini su iniziativa di alcuni “salvati”, soprattutto i fratelli Camerini. In quell’occasione, fu particolarmente evidenziata la personalità e l’azione di Don Piccinini.
Ebbene, oggi, allargando la visione mi pare di poter dire che le notizie raccolte con ricerca accurata[1] ci portano a documentare che l’aiuto agli Ebrei durante il tempo dello sterminio costituisce una pagina importante della vita della Piccola Opera della Divina Provvidenza e di alcuni suoi figli in particolare.
La persecuzione degli ebrei, seguita alle leggi razziali, costituì per la nostra Congregazione una nuova emergenza a cui far fronte con tutti i mezzi, tanto più che era una risposta alla sollecitudine di Pio XII: «Salvate gli ebrei, anche a costo di sacrifici e pericoli». Un po’ tutte le case ed opere, i sacerdoti e le suore di Don Orione furono coinvolti nel proteggere e nascondere gli ebrei minacciati e perseguitati. Ci furono in particolare quattro centri di questa azione salvatrice: Milano con il cardinal Schuster e con riferimenti orionini in Don Cappelli, Suor Croce e il Piccolo Cottolengo; Torino con il cardinal Fossati, Mons. Barale e con riferimento a Don Giuseppe Pollarolo; Genova con il cardinal Boetto, Mons. Repetto e con riferimento a Don Sciaccaluga, Suor Bennata e le varie sedi del Piccolo Cottolengo; e infine Roma, ove ci furono richieste alla Congregazione dalla Santa Sede, tramite mons. Montini e mons. Tardini sostituti alla Segreteria di Stato, e come coordinatore orionino Don Gaetano Piccinini.
Quanto fatto a Roma è già stato ricordato in occasione della onorificenza tributata a Don Piccinini . Don Piccinini stesso scrisse le sue memorie in Roma tenne il respiro[2] dando notizie dell’aiuto portato a tanti «ebrei sbattuti dalla bufera e pei quali il Santo Padre aveva invitato a rischiare».[3] Ricorda che richieste d’aiuto giunsero, con pronta risposta, pure dal responsabile del DELASEM (Delegazione Assistenza Ebrei Emigrati) Sig. Settimio Sorani.
Solo alcuni cenni riferiti ad altre città d’Italia. Nel Diario del Piccolo Cottolengo di Milano leggiamo:
«2 Giugno 1942. Aumenta il numero di persone ebree, che chiedono d'essere ricoverate.
15 Gennaio 1944. Il Piccolo Cottolengo è divenuto rifugio anche di ricercati dalla polizia germanica e dalle SS. La nostra porta, come voleva Don Orione, deve restare sempre aperta ad ogni perseguitato.
7 Aprile 1944. Il caro Arrigo Minerbi ‑ l'autore del nostro Don Orione morente ‑ è ormai tranquillo in una nostra casa romana, ove Don Sterpi lo ha fatto arrivare sicuro”.[4]
Nell’Archivio dell’Opera Don Orione si trova una lettera della signora Raffaella Lantini, moglie del Ministro delle Corporazioni al tempo del Fascismo, Ferruccio Lantini, in data Santo Stefano 1943: “Caro Don Piccinini, entro subito nell’argomento. Voi già avete parlato con la Sig.ra Ottolenghi. Sapete dunque di che si tratta. Soltanto che la cosa è di ora in ora sempre più urgente. Questi sventurati sono cari amici nostri. Ci piange il cuore di vederli in quelle condizioni. Siamo certi che voi farete tutto il possibile”.[5]
A Genova fu Don Enrico Sciaccaluga, in contatto con la Curia arcivescovile, in cui erano attivi mons. Siri e mons. Repetto, ad accogliere e indirizzare diversi ebrei in nostri istituti dove riuscirono a sfuggire alle persecuzioni. Le nostre sedi del Piccolo Cottolengo di Genova Paverano, Castagna e Camaldoli vedevano avvicendarsi ebrei accolti nella discrezione e inseriti in vario modo. Un gruppo di ebrei incarcerati furono affidati per un certo periodo, in domicilio protetto, alla nostra casa di Camaldoli, alla responsabilità di Don Ferruccio Netto.
Recentemente, siamo venuti a sapere di un ignoto Ferruccio Fisco che ha scritto al Presidente della Comunità ebraica di Genova, il 12 marzo 1999, per “ricordare alcuni momenti della mia adolescenza, ritengo tra il 1943 e il 1944, anni oscuri della occupazione nazista, quando ero ospite dell'Istituto Paverano di Don Orione a Genova.
Io sono quell'ex-ragazzino, all'epoca quattordicenne, che accompagnava quelle persone di stirpe ebraica a nascondersi presso vari Istituti Religiosi della città per sfuggire alle persecuzioni hitleriane. Queste persone mi venivano consegnate dall'umile prete Don Repetto e da Mons. Siri, ausiliare del Cardinale Boetto.
Data l'età non ho mai pensato ai pericoli che avrei potuto correre: erano persone a me sconosciute. Per me era un doveroso servizio da eseguire. Ho voluto esternare questi momenti dolorosi anche per poter dire - seppure da modesto esecutore - "La storia siamo tutti noi".
Vi saluto cordialmente. Ferruccio Fisco Via F. Dassori,147- Genova”.
A Torino, Don Giuseppe Pollarolo fu collaboratore dell’arcivescovo” Maurilio Fossati e del suo segretario don Vincenzo Barale per far fronte alla tragedia degli ebrei. Don Pollarolo testimoniò che “Mons. Barale mi ha più volte chiamato a collaborare con lui per la sistemazione di Ebrei, singoli e famiglie, in pericolo di persecuzione. A suo nome ho sistemato Ebrei presso il Convento delle Suore Carmelitane in Val S. Martino a Torino, dove in quel tempo ero anch’io ospite. Ho avviato e, qualche volta ho trasportato in macchina Ebrei in altre Case, fuori Torino, dell’Opera Don Orione”. [6] Per queste attività, don Pollarolo fu perquisito e arrestato il 26 giugno 1944.
Nelle iniziative di Mons. Barale fu coinvolto anche l’Istituto orionino di Alessandria, di Piazza San Rocco e Don Giambattista Lucarini. Ma ebrei erano nascosti anche a Tortona, a Lu Monferrato, confusi tra i chierici a Buccinigo (Como), a Villa Moffa (Cuneo).
All’indomani della guerra, il 15 maggio 1945, l’ingegner Eugenio Zorzi, a nome della Comunità Israelitica di Torino, scriveva: “Sento il dovere di presentare a S. Eminenza l’espressione della nostra riconoscenza e gratitudine per l’assistenza continua, illuminata e generosa prestata nei tristi giorni della persecuzione ai membri della nostra Comunità con nobile spirito di fratellanza e con esemplare comprensione”.[7]
Sono necessariamente solo dei cenni.
Ci sarebbe da riflettere sulle motivazioni che hanno animato un tale impegno rischioso, nascosto e sacrificato.
La prima motivazione può essere riconducibile al senso umanitario risvegliato nel momento in cui si vedono persone in pericolo di vita, bisognose di aiuto, di rifugio, di affetto. Tali erano gli Ebrei quando si scatenò la tempesta omicida contro di loro.
Certamente influì poi la visione e la pratica della carità cristiana inculcata da Don Orione che ripeteva, tanto per ricordare una frase molto nota, “la carità di Gesù Cristo non serra porte; alla porta del Piccolo Cottolengo non si domanda a chi viene donde venga, se abbia una fede o se abbia un nome, ma solo se abbia un dolore! Siamo tutti figli di Dio, tutti fratelli”.[8]
Don Orione applicò questa apertura anche agli Ebrei quando, nel 1939, egli seppe del pericolo che essi correvano dopo l’invasione della Polonia: “Si sa che là ci sono parecchi milioni di Ebrei – scrisse in quei giorni -: preghiamo anche per gli Ebrei: tutti siamo fratelli!».[9] Affidando a un confratello, in Argentina, l’accoglienza di un amico ebreo, gli scrive: “Caro Don Zanocchi, Ve lo raccomando quanto so e posso, e Vi dico che avrò come fatto a me quanto potrete fare per questo mio carissimo Amico”.[10]
Il nostro Fondatore morì all’inizio del 1940, ma fu spiritualmente istintivo per gli Orionini rivolgere, nel momento del bisogno, la loro accoglienza e le loro cure anche agli Ebrei minacciati di morte.
C’è infine una terza motivazione carismatica, molto specifica e stimolante, che mise in moto gli Orionini: l’aiuto agli Ebrei era voluto dal Papa Pio XII e lo attuavano i Vescovi.
Ecclesiastici come Montini e Tardini in Vaticano, il Card. Schuster a Milano, Fossati a Torino, Boetto e Lercaro a Genova hanno scritto nobili pagine di storia, a fatica tratte dall’oblio in cui la necessaria discrezione le aveva custodite.
Gli Orionini che professano un IV voto di “speciale fedeltà al Papa” e sono animati da un “sensus Ecclesiae” che li spinge a realizzare “non solo i comandi ma anche i desideri dei Pastori della Chiesa”, si attivarono come meglio poterono in soccorso degli Ebrei condividendo pienamente le indicazioni di Pio XII e le richieste di collaborazione dei Vescovi nelle città ove operavano. Cioè, per loro, oltre che un fatto umanitario e di carità evangelica, l’aiuto agli Ebrei fu un’espressione di vita ecclesiale.
Sono passati 60 anni da quella “orrenda tragedia” e da quei gesti di salvezza. “Mantenere viva la memoria di quanto è accaduto è un'esigenza non solo storica, ma morale – ha affermato Papa Giovanni Paolo II -. Non bisogna dimenticare! Non c'è futuro senza memoria. Non c'è pace senza memoria!".[11]
I nostri ricordi e le nostre testimonianze, oggi, devono “indurre l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo”, come ha detto Benedetto XVI visitando Auschwitz nel 2006,[12] e, dall’altra, confortati dalle luci dei giusti e dei buoni, possano educarci al “faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono che conduce i popoli, le culture e le religioni del mondo all’auspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità”.[13]
[1] Giovanni Marchi - Flavio Peloso, Orionini in aiuto agli Ebrei negli anni dello sterminio, “Messaggi di Don Orione, n. 112, anno 35 3/2003, p.75-106.
[2] Gaetano Piccinini, Roma tenne il respiro, Ars Graphica Orionea, Roma, 1954, pp. 368.
[3] Roma tenne il respiro, p. 34.
[4] Il superiore generale Don Carlo Sterpi aveva accolto Arrigo Minerbi nella sua propria casa a Gavazzana (Alessandria).
[5] Fu poi l’avv. Giuseppe Ottolenghi, Presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, nel Decennale della Liberazione, a consegnare a Don Piccinini il primo riconoscimento dov’è scritto: “MCMXLV-MCMLV. Gli Ebrei d’Italia riconoscenti a Don Gaetano Piccinini”.
[6] G. Garneri, Tra rischi e pericoli, cit., p. 129.
[7] G. Tuninetti, Clero, guerra e resistenza nella diocesi di Torino (1940-1945), cit., p. 42.
[8] Scritti 114, 285.
[9] Scritti 78, p.130-131.
[10] Scritti 67, 62.
[11] Tertio millennio adveniente, 37.
[12] Benedetto XVI, visita ad Auschwitz, maggio del 2006.
[13] Benedetto XVI, Udienza generale del 28.1.2009.