Lettera Circolare del 30 dicembre 2006.
FAR CRESCERE LA COMUNITÀ CHE CI FA CRESCERE
30 dicembre 2006
Carissimi Confratelli,
Deo gratias!
Scrivo questa lettera ancora nel clima del Natale e dell’inizio dell’Anno 2007. C’è nel cuore la gioia per la grazia di un nuovo inizio e la speranza per le possibilità che la Divina Provvidenza ci riserva nell’anno nuovo.
Natale e Anno nuovo ci inducono a guardare sopra l'orizzonte del tempo per renderci conto di noi stessi, per prendere le distanze da impedimenti e manchevolezze sulla via del bene, per scorgere, oltre il flusso di ciò che accade, l’orientamento verso un progresso e la meta.
Quel “Bambino disceso dal cielo”, quella “stella che brilla a Oriente” fino a divenire “sole che sfolgora nel cielo di Pasqua” indicano, oltre l’orizzonte di vita di questo mondo, un Padre e una Patria da cui siamo nati e a cui tendere, finalmente. E’ la nostalgia di Dio e del suo abbraccio. Il cuore dice: andiamo!
1. FEDELTÀ CREATIVA NELLA VITA COMUNITARIA
La riflessione di questa Lettera si inserisce nel cammino della congregazione in questo sessennio. Una delle tre grandi direttrici per vivere la “fedeltà creativa alla nostra vocazione” indicateci dal Capitolo generale riguarda la vita comunitaria nella “famiglia orionina”.
Al tema della vita comunitaria è dedicato anche il Quaderno di formazione permanente per l’anno 2006-2007. Ha per titolo Una famiglia in Gesù Cristo, espressione presa dall’art. 59 delle nostre Costituzioni, e ci propone un itinerario di riflessione e revisione di vita per custodire e sviluppare il grande dono della comunità.
La vita comunitaria, lo sappiamo, è l’aspetto centrale e identificante la nostra vita di consacrati in quanto religiosi, tanto da poter affermare perentoriamente che “senza vita comunitaria non c’è vita religiosa”.[1] L’art. 52 delle Costituzioni ci ricorda che “Viviamo la nostra consacrazione a Dio come vincolo che ci unisce contemporaneamente ad una comunità fraterna”.
Don Orione espresse questa medesima convinzione con una efficace immagine: “Come saprete, voi, se siete fedeli alla vostra vocazione? Se una persona vuol misurarsi la temperatura, la febbre, si mette il termometro. Ci dovrà ben essere qualche termometro per saperci regolare, se siamo fedeli alla santa Regola, alla santa vocazione. Il termometro c’è: è la vita di comunità”.[2]
Questa immagine di Don Orione che paragona la vita di comunità al termometro della vita religiosa ci richiama una grande verità e ci stimola a dare attenzione e cura alla vita di comunità.
Il 12° Capitolo generale si è molto concentrato sullo stato della nostra vita fraterna in comunità perché, dai dati provenienti dalle diverse Province, erano evidenti non pochi segni di difficoltà della vita comunitaria. Questo termometro dello stato di salute della nostra vocazione indica una leggera febbre da raffreddore, oppure una forte influenza dovuta al clima dell’attuale stagione culturale e sociale oppure si tratta di una febbre che segnala un malessere più profondo o un deterioramento dell’organismo?
Ora, conoscendo abbastanza la Congregazione, mi pare di poter affermare che si tratta di una influenza seria e da non prendere alla leggera. Va superata quanto prima per non indebolire l’organismo.
Il Capitolo ha rilevato alcuni problemi che toccano la vita delle comunità creandovi malessere. Si tratta di problemi strutturali: comunità troppo esigue, frazionamento di piccole residenze di due religiosi o anche da soli, dispersione di luogo e di tempo nelle istituzioni e attività, ecc. Influiscono fattori personali: individualismo psicologico, difficoltà nelle relazioni personali, gestione individualistica dell’apostolato, le attività esterne mortificano le relazioni fraterne, ecc. E ci sono motivazioni spirituali: calo della relazione con Dio con conseguente calo delle relazioni fraterne, visione utilitaristica del vivere comune, crisi di caritas mistica e apostolica, ecc.
Questi tratti delle difficoltà presenti nelle comunità sono abbastanza comuni.
Per reagire al malessere comunitario, d’altra parte, abbiamo delle buone risorse. Ne segnalo alcune: un forte senso di famiglia, alimentato dalla condivisa paternità di Don Orione (“siamo figli di un santo”), dal carisma di fondazione, dal senso di appartenenza congregazionale; il costume di rapporti più partecipativi nelle comunità, nelle province, nella congregazione; una diffusa nostalgia per la vita fraterna, fondata su semplicità e autenticità di rapporti. “Malgrado tanti limiti, a livello affettivo e ideale riusciamo ancora a vivere quello spirito di famiglia – tanto stimato da noi e dalla gente – che a volte pare essere compromesso a livello pratico” (CG12 p.69).
Dobbiamo proprio metterci di buona volontà e fare scelte strutturali e personali per far crescere la comunità che ci fa crescere. Il Capitolo ci ha dato orientamenti e decisioni precise, incisive, sagge.
Prima di presentare queste scelte congregazionali per far crescere la vita comunitaria, mi pare utile offrire un quadro dei modelli di comunità che, di fatto, sono subentrati a quello unico e stabile del passato (andato in crisi),[3] per giungere a tracciare le linee della comunità “famiglia unita in Cristo” indicataci dalle Costituzioni e dal Capitolo generale.
2. INNANZITUTTO, IL MODELLO APOSTOLICO
Come modello della comunità religiosa, definita “la forma della vita apostolica”, va considerata la comunità apostolica, come presentata nei suoi tratti essenziali in Marco 3, 13-16. “Gesù salì sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni”.
Questo testo ci ricorda i tre tratti essenziali che configurano, all’interno e all’esterno, la vita religiosa: la chiamata personale, la vita di comunità e la missione apostolica. Le forme di attuazione possono essere molteplici, a seconda dei tempi e dei carismi particolari, ma deve esserci sempre la vitale integrazione e l’equilibrio tra “amore di Dio”, “vita di famiglia” e “passione apostolica”, per usare i termini del nostro Capitolo generale.[4] Queste dimensioni della nostra vita religiosa sono reciprocamente implicate e vanno equilibrate in modo fedele e creativo, spirituale e pratico.
“Congregavit nos in unum Christi amor” ci ricorda il bel documento “Vita fraterna in comunità”. “L'amore di Cristo ha riunito per diventare una sola cosa un grande numero di discepoli… Fra questi discepoli, quelli riuniti nelle comunità religiose, ‘donne e uomini di ogni nazione, razza, popolo e lingua’ (cfr. Ap 7,9), sono stati e sono tuttora un'espressione particolarmente eloquente di questo sublime e sconfinato Amore. Nate ‘non da volontà della carne o del sangue’, non da simpatie personali o da motivi umani, ma ‘da Dio’ (Gv 1,13), da una divina vocazione e da una divina attrazione, le comunità religiose sono un segno vivente del primato dell'Amore di Dio che opera le sue meraviglie, e dell'amore verso Dio e verso i fratelli, come è stato manifestato e praticato da Gesù Cristo” (n.1).
La comunità religiosa è frutto di vocazione e di relazione con Dio:[5] se si attenua la relazione con Dio si frantuma il “vinculum fraternitatis”,[6] perché le nostre comunità sono “nate non da volontà della carne o del sangue, non da simpatie personali o da motivi umani, ma ‘da Dio’ (Gv 1,13), da una divina vocazione e da una divina attrazione” e per una comune missione.
"Se i nostri religiosi avessero cuore di figli amanti Iddio – faceva osservare Don Orione -, tutto andrebbe a meraviglia: vi sarebbe pace, allegria, progresso materiale e morale, scientifico e spirituale; si godrebbe un vero Paradiso in terra. Ma se i religiosi sono privi dello spirito di pietà - quand'anche fuori di casa il loro nome corra sulle labbra di tutti e tutti ammirino l'abilità, l'ingegno e perfino lo zelo apostolico - quei di casa, che li hanno sempre sotto gli occhi, che mangiano il pane insieme, che hanno diritto di avere nei religiosi degli Angeli custodi, non sono affatto contenti di loro. Mirabilia fuori: miserabilia in casa!".[7]
Senza carità mistica (amore di Dio) e senza carità fraterna (amore dei fratelli) la comunità si introverte e deperisce.
3. COMUNITÀ DELL’OSSERVANZA
Prima del Concilio Vaticano II, il modello di comunità religiosa di vita attiva era praticamente unico, ben determinato nel Codice di diritto canonico che costituiva il contenuto di gran parte delle Costituzioni delle diverse congregazioni religiose. Questo modello solido, attuato più o meno bene, rispondeva a un contesto sociale ed ecclesiale piuttosto omogeneo e stabile. Introduceva a uno “stato di perfezione” perché quella forma di vita era considerata la più perfetta per giungere alla santità. Quanto più i religiosi ne osservavano le norme tanto più camminavano nella via della perfezione e la comunità cresceva e migliorava. L’osservanza delle norme e della disciplina religiosa era il criterio sicuro di ogni buon religioso.
Queste comunità garantivano molto bene l’unità, creavano un forte senso di appartenenza, erano bene strutturate e ogni membro aveva una funzione chiara e precisa dentro un ideale di fondo condiviso.
Questo modello di comunità ha funzionato a lungo, per circa tre secoli, ha prodotto santi, ha sviluppato evangelizzazione e carità. Come sempre, nelle realizzazioni umane, si manifestavano anche difetti piuttosto comuni: una minore attenzione alla persona, all’identità e autonomia dei membri; l’enfasi sul ruolo del superiore poteva generare autoritarismo e abusi; scarsa corresponsabilità e dialogo; passività, ripetitività, poca creatività; e altro ancora.
Sappiamo tutti che, negli ultimi decenni, questo modello dell’osservanza è andato progressivamente in crisi, a motivo dei cambiamenti teologici, strutturali e socioculturali avvenuti nella vita religiosa.
Il Vaticano II chiese di “interpretare” la vita religiosa con il “ritorno alle fonti della vita cristiana e allo spirito primitivo degli istituti” e di “tradurla” nelle nuove situazioni.[8] Non bastava più solo “osservare”. Molti religiosi, formati e vissuti nel modello dell’osservanza, si sono trovati in grave crisi senza la stabilità rassicurante di regole e norme dettagliate e, per di più, senza nuovi modelli di vita religiosa sperimentati e condivisi. Anzi, le nuove interpretazioni, a volte, presentavano vistose lacune e anche infedeltà. L’incontro con le generazioni giovani e la elaborazione di nuovi modelli di vita religiosa non è stato facile. Ci sono state molte crisi tra gli “anziani”, confusi di fronte al nuovo. Molti “giovani” non si sono inseriti dove la conservazione dell’antico è stata troppo rigida.
L’evoluzione avvenuta trova una sua sintesi in quanto dice Vita fraterna in comunità al n. 5d: oggi, “si è fatto vivo un acuto senso della comunità intesa come vita fraterna che si costruisce più sulla qualità dei rapporti interpersonali che sugli aspetti formali dell'osservanza regolare”.
4. COMUNITÀ DI SOLISTI (o di autorealizzazione)
E’ uno dei modelli di comunità che si incontra oggi più di frequente, in reazione alle comunità di osservanza, nelle quali gli aspetti personali erano sacrificati alle esigenze dell’uniformità.
In questo tipo di aggregazione il criterio prevalente è “la persona al centro”. Questo è un criterio importante e andava recuperato, ma, troppo enfatizzato, genera le comunità di solisti (e molto spesso di soli). Questo modello di comunità si struttura al servizio dell’autorealizzazione personale dei singoli religiosi. Il criterio comunitario è il seguente: la comunità deve permettere a ogni individuo di soddisfare le proprie esigenze. C’è il rischio di mettere troppo l’accento sull’individuo inteso autarchicamente, esattamente il contrario di quanto avveniva nelle comunità dell’osservanza.
Quando il criterio dell’autorealizzazione è assolutizzato, ci si incammina verso la perdita della relazione con Dio e dell’appartenenza alla comunità. I rapporti interpersonali si basano sempre più sulla esibizione del proprio “io”, su forme di competitività/aggressività, di disinteresse (“vivi e lascia vivere”), con atteggiamenti di difesa ad oltranza del proprio io (“sono fatto così”). Succede che alcuni religiosi diventano intoccabili, si chiudono ad ogni cambiamento di destinazione o di compito, rivendicano di poter realizzare le proprie scelte personali, diventano incapaci di adattamento l’uno all’altro, rendono la convivenza sempre più impossibile. Si moltiplicano i ricorsi al Provinciale per essere cambiati o per far cambiare altri confratelli di comunità.
Se si afferma l’individualismo dentro la comunità anche i rapporti della comunità con le altre comunità diventano minimi, ci si sente svincolati da affetti e da strutture di comunione (segretariati, riunioni, ecc.), da programmi di rinnovamento e di formazione proposti dalla Provincia (esercizi, sussidi, decisioni del Capitolo, ecc.).
Nelle comunità religiose in cui finisce per prevalere l’autorealizzazione con poche relazioni di vita fraterna anche la missione è vissuta in vista dei propri bisogni individuali, diventa a volte esibizionista, possessiva, autocentrica, immatura, e alla fine inutile apostolicamente. Uno pensa al proprio regno piuttosto che al regno di Dio.
E il superiore in queste comunità? Nelle comunità di solisti, il superiore perde praticamente il suo ruolo di animatore di dialogo, di discernimento, di decisione, di comunione. Si giunge così all’estremo opposto rispetto al modello dell’osservanza: all’autoritarismo subentra il democraticismo anarchico per l’assenza dell’autorità e del suo ruolo comunionale.
La comunità di autorealizzazione, o di solisti, di fatto sfocia nella dissoluzione della comunità.
Le nostre Costituzioni raccomandano l’equilibrio tra persona e comunità: “La comunità deve riscoprire la persona con i suoi doni e le sue funzioni, se vuole diventare comunione; e la persona ha bisogno di lasciarsi coinvolgere nella comunità per realizzare se stessa. Ognuno, sentendosi membro vivo della Congregazione, si riconosce corresponsabile delle sorti di essa e contribuisce al suo incremento” (art. 53).
5. COMUNITÀ IMPRESA
“Il servizio viene prima di tutto” è invece il baricentro della comunità impresa. E’ un modello di comunità, quasi mai programmato e voluto, ma nel quale si sono assestate non poche comunità di congregazioni di vita attiva che gestiscono opere e attività apostoliche impegnative. Tali comunità sono sottomesse al ritmo dell’attività, all’efficacia produttiva, al prestigio dell’opera.
Nei religiosi, la preoccupazione per gli aspetti gestionali e professionali prevalgono su quelli spirituali e apostolici. Dedicano a Dio e ai fratelli (e confratelli) solo i “cascami del tempo”, giustificati anche dal fatto che lavorano per Dio e per i fratelli. La relazione assorbente con l’opera supplisce almeno in parte alla mancanza di relazione con Dio e di relazioni fraterne tra religiosi. In queste comunità, il superiore è chiamato ad essere soprattutto un buon imprenditore e amministratore.
Come avviene lo slittamento verso le comunità impresa? Può essere perché, senza troppo discernimento, si identificano le attività con l’apostolato, la finalità specifica delle opere (educative, assistenziali, ecc.) con la finalità ultima che è la causa del Vangelo. Di per sé, non chi dice “fare e fare!” è un apostolo, ma chi è “spinto dalla carità di Cristo".[9] Il Capitolo generale 12° pone il criterio apostolico a base della validità delle opere: “le opere istituzionali possono essere strumenti di cultura e di evangelizzazione, se si passa dalle opere di carità alla carità delle opere.[10]
A lungo andare, i religiosi che operano in simili comunità finiscono per sentirsi dei semplici funzionari, e magari inadeguati, ed entrano in crisi vocazionale: “c’era bisogno che diventassi religioso o prete per fare quello che faccio?”. D’altra parte, succede che certi religiosi si ritrovano relegati ai margini della gestione effettiva dell’opera per motivo di età, mancanza di professionalità o semplicemente perché si richiede da loro un ruolo tipicamente pastorale. Nel passaggio da un ruolo di operatori a un ruolo di pastori delle opere alcuni religiosi vanno in crisi: “senza il mio lavoro, io non sono niente”.
Per noi orionini, il rischio di un attivismo non sempre apostolico è ancora più forte a motivo della nostra tradizione gloriosa di laboriosità e di “santa fatica”. Ma il problema non è del tutto nuovo. Don Orione intervenne su un direttore di comunità. “Per quella sincerità che deve unirci a Dio, non posso nasconderti tutta la pena che ho sofferto e che soffro nel costatare dolorosamente che codesta povera Casa è sempre come un mare in tempesta, e nel sentire che non c'è tra di voi, o figliuoli miei in Gesù Cristo, quella unione, quella vera concordia degli animi e carità fraterna di Gesù Cristo, che è il più dolce vincolo della vera vita secondo lo spirito di Gesù Cristo e della vera perfezione religiosa. E' vero che tu mi dai buone notizie dei prodotti di fagioli, di riso: mi parli di corsi d'acqua e di macchie (terreni), etc., ma che m'importa, o figliuolo mio, di tutto questo se tra di voi non c'è l'unione e la carità, e chi se n'è andato da una parte e chi vuole andarsene da un'altra?”.[11]
Il termometro della vita comunitaria – ricordiamocelo - indica se c’è la febbre dell’attivismo egocentrico e non apostolico.
6. COMUNITÀ SERRA
Anche questo modello di comunità è improntata a un valore fondamentale della vita religiosa: “La comunità innanzitutto”. È la risposta (non equilibrata) alla riscoperta del valore e del bisogno della comunità.
Le comunità serra si iperproteggono; organizzano la “loro” vita, preghiere, lavoro, attività in funzione di se stesse. Fuori degli “orari di servizio” non accettano invasioni o disturbi della loro quiete. Il superiore diventa l’aquila (o la chioccia) che vola sopra la sua nidiata e protegge il nido.
Queste comunità religiose tendono a dimenticare che sono “comunità per la missione”, radunate e inviate nel mondo. L’esigenza di una giusta intimità comunitaria è spinta al punto da portare all’isolamento dal mondo, all’imborghesimento della privacy. Simili comunità sono più frequenti tra le suore, ma non sono poche anche tra le congregazioni maschili.
Non basta passare dall’Io al Noi; occorre giungere al Noi apostolico. Don Orione: “La Congregazione e ciascuno di noi non deve vivere per sé, ma per la carità e per la Chiesa di Roma, che è il Corpo mistico del Signore e la Madre delle anime e dei Santi. Non dobbiamo vivere ciascuno per noi, ma ciascuno per tutti i fratelli, nella Carità del Signore. Ci siamo uniti in Cristo per vivere ciascuno per tutti e non ciascuno per sé. Noi non viviamo che per la Carità e per la Chiesa; solo così si è veri Figli della Divina Provvidenza”.[12]
Sappiamo quanto Don Orione pigiava sull’acceleratore della apostolicità. “La carità comanda di non appartarci in una comoda bastevolezza, ma di sentire e avere compassione fattiva per i dolori, i bisogni degli altri, dai quali non dobbiamo riguardarci separati mentre sono una sola cosa con noi, in Cristo”.[13]
7. COMUNITÀ SECOLARE
“La condivisione della vita della gente” è il valore determinante la vita di queste comunità. L’inserzione nel mondo (secolo) caratterizza la comunità secolare. È l’opposto della comunità serra.
Sono comunità che si propongono di vivere totalmente inserite in ambienti sociali popolari, secolari, di emarginazione. In queste comunità, se si affievoliscono la vita spirituale e la vita fraterna, anche lo stile di vita diventa sempre più laico in nome di una completa condivisione e contatto con la gente.
A questo tipo di comunità si può associare una forma particolare di comunità secolare, diffusa nelle congregazioni clericali. Avviene talvolta che religiosi e comunità preposti alle parrocchie siano così totalmente inseriti e identificati nell’ambiente da vivere con lo stile e le dinamiche del clero secolare. Per il fatto di essere in parrocchia viene “sospesa” la pratica di molte regole della vita religiosa: dalla dipendenza alla cassa comune, dalla vita comunitaria alla collaborazione ai programmi di congregazione. Similmente, a volte, anche i religiosi delle comunità di missione prendono impronta secolare, giustificati dal pionierismo e dai grandi bisogni della gente.[14]
Il valore dell’inserzione/condivisione è evidentemente buono. Ma se queste comunità perdono gli spazi, tempi e interesse per la vita fraterna, per la preghiera, per la riflessione personale e il dialogo, si frantuma l’identità e la coesione comunitaria e, con essa, la vita religiosa.[15]
Nessuno dubita certo dell’apostolicità e della prossimità al popolo vissuta e trasmessa da Don Orione, eppure nelle scelte pratiche reagiva a uno stile “secolare” e “individuale” di apostolato.
Una situazione in missione. "Vorrei non si tardasse ad iniziare a Devoli (Albania) una vera Casa religiosa, sia pure umile e povera... Lasciare i religiosi sempre isolati, uno qua e uno la, no, non è possibile. Che se non ci fosse fondata speranza di poter avere, entro un periodo di tempo non remoto, un rifugio missionario, dove far vita di comunità e rifarsi nello spirito, piuttosto direi di ritirarci".[16]
In Argentina, Don Orione dovette risolvere situazioni concrete, quali capitano anche oggi e a cui il Capitolo chiede di reagire. Egli scrive a Don Zanocchi di avere fermezza a riguardo di un confratello benemerito: "rientri nelle tende della Congregazione… In coscienza non posso più tollerare che un religioso stia fuori di comunità. Non posso ammettere scuse né protezionismi: tutti siete interessati alla vita religiosa".[17]
L’apostolato in parrocchia. "Se i religiosi non sono più che ben formati, (la vita parrocchiale) allontana e divaga dallo spirito di regolarità religiosa".[18] Non era e non è in questione l’apostolato nelle parrocchie: è in questione la vita comune e la modalità “religiosa” di gestirle.
8. COMUNITÀ FAMIGLIA
Tutti i modelli di comunità sopra descritti si fondano su qualche importante valore di base: la persona, la comunità, la missione, la condivisione con la gente, il servizio, e altri. Ma tra questi valori, tutti appartenenti alla natura della vita religiosa, occorre trovare una sintesi vitale; la fedeltà creativa alla vocazione religiosa si nutre e si rinnova nell’equilibrio di essi: tradizione/novità, persona/comunità, autorealizzazione/oblatività, azione/contemplazione, separazione/inserzione, evangelizzazione/servizio, ecc.
Come detto all’inizio, è il modello apostolico che ispira la vita della comunità. In esso, persona, comunità e missione sono integrati al servizio del Regno di Dio.
“Gesù salì sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3, 13-16). Occorre avere viva la coscienza della vocazione con cui Gesù ci ha coinvolti nella sua missione per capire e vivere la vita fraterna in comunità come sintesi dinamica e vitale della tensione tra spiritualità comunità e missione.
“Una famiglia unita in Cristo”, secondo l’espressione delle nostre Costituzioni, è il modello di comunità da assumere e a cui tendere sempre più oggi.
Don Orione, sappiamo, ha inculcato il modello famiglia, con gli atteggiamenti umani, spirituali e pratici propri della famiglia (famiglia naturale, famiglia di Nazaret...).
La comunità religiosa, come la famiglia naturale, è data da Dio: va accolta e vissuta con lo stesso senso di riconoscenza e di sacralità. "Congregavit nos in unum Christi amor": la comunità è dono dello Spirito. Oggi si parla di "senso di appartenenza". Quante tristi conseguenze spirituali e psicologiche si hanno in chi vive un atteggiamento di adesione alla comunità "sotto condizione" (propria) e non come "data" (grazia di Dio), stabile! Nella coscienza del religioso resterebbe un senso di precarietà, di provvisorietà, di scollamento affettivo. Sarebbe "servo e non figlio", per dirla con Don Orione, "utente e non membro". E di ciò, ne risentirerebbe, oltre che la comunità, anche il proprio "io" perché sarebbe privo di quella stabilità e totalità del rapporto vitale io-noi dato dalla comunità-famiglia. Come avviene per i bambini - ma anche per anziani, o uomini e donne maturi -, la mancanza di famiglia porta fragilità, nevrosi, comportamenti compensatori immaturi e tristi.
Don Orione ci ha lasciato lo spirito di famiglia come nota tipica della Congregazione e, grazie a Dio, continua ad essere vivo.[19] Lo spirito di famiglia ha mitigato in passato il rischio di formalismo nell’epoca delle comunità dell’osservanza. Oggi però, in un’epoca di individualismo, esso deve sostenere strutture di famiglia, relazioni di famiglia, dinamiche di famiglia. Diversamente, il nostro spirito di famiglia rischia di restare sentimentale e astratto, poco incisivo sul bene delle persone e dell’apostolato.
Il Capitolo generale ha puntato l’attenzione su queste dinamiche di comunità famiglia, rilanciando quanto dicono le Costituzioni fortemente ispirate alla teologia e alla pedagogia della vita religiosa del Vaticano II.
Il Capitolo non ci ha lasciato solo analisi, non ci ha riproposto solo valori, ma con le sue decisioni ha tracciato alcune linee di intervento per realizzare, nelle mutate condizioni d’oggi, una vita comunitaria che integri armonicamente vita spirituale, vita fraterna e vita apostolica. Il Capitolo generale non era in grado di proporre un discorso del tutto organico e completo, ma certamente ha posto alcuni riferimenti imprescindibili se si vogliono costituire comunità famiglia e non cadere inevitabilmente in forme di comunità di solisti (o di autoaffermazione), o comunità impresa, o serra o secolari, che enfatizzano o escludono qualcuno degli elementi essenziali ed inseparabili della vita comunitaria apostolica.
Ripropongo qui di seguito, con un po’ di ordine e qualche brevissimo commento, le decisioni del Capitolo.
9. LE DECISIONI DEL CAPITOLO PER FAR CRESCERE LA COMUNITÀ
1. COSTITUZIONE DELLE COMUNITÀ CON LA PROPRIA CASA
L’esistenza della comunità è la condizione di partenza per poter parlare di… comunità e poter vivere le Costituzioni che presuppongono l’esistenza della comunità.
C’è la comunità quando ci sono almeno tre religiosi e “ognuno abita nella casa della sua comunità impegnandosi a osservare la vita comune” (Cost 49). È una affermazione ovvia, ma nella realtà non sempre è così. Ne parla la decisione 12: “A volte i religiosi sono dispersi in diversi settori dell’opera e rischiano di perdere l’identità e la visibilità stessa della vita comunitaria. Volendo dare una sempre maggiore visibilità alla comunità, distinguendola dall’opera, si decide: si attui una più netta separazione tra casa della comunità e ambienti dell’opera-attività; in continuità con le indicazioni delle Costituzioni e degli ultimi due Capitoli generali ci sia non solo l’ambiente dei religiosi separato dagli altri ambienti dell’attività dei religiosi (opere), ma possibilmente anche la casa stessa”.
Conoscendo molte situazioni concrete del nostro apostolato, la decisione 21 spinge oltre nell’impegno di costituire la comunità: “Quando vi sono comunità o residenze con pochi religiosi non molto distanti tra di loro, il superiore provinciale, dopo opportuno discernimento, riunisca i religiosi in un’unica comunità più consistente che gestisce più opere nello stesso territorio”.
Queste sono decisioni di carattere strutturale per intervenire su un problema – la mancanza di comunità fisica - che è precedente a qualsiasi altro intervento per favorire la vita comunitaria. Il compimento di questa decisione riguarda principalmente il governo provinciale, ma tutti vi dobbiamo collaborare con convinzione. Devo dire che nei primi due anni e mezzo del sessennio è cresciuta la coscienza e anche l’intervento per invertire la tendenza al frazionamento di religiosi singoli e in due. Più risolutezza serve in quelle Province che stanno vivendo una forte riduzione del numero di religiosi.
2. CURARE LE RELAZIONI INTERNE
La decisione n. 10 raccomanda:
“A livello di vita comunitaria curiamo maggiormente:
* la comunicazione spirituale mediante la meditazione partecipata, la lectio divina, almeno una volta al mese;
* l’incontro comunitario quindicinale (Cost 221) attuato, non solo come informazione o conferenza, ma come scambio fraterno di idee, difficoltà, iniziative;
* il sostegno fraterno nei momenti di difficoltà anche con il contributo di esperti e strutture di appoggio;
* i momenti di festa e la condivisione dei momenti di dolore;
* la cura dei piccoli gesti fraterni: il saluto non formale, l’attenzione al bisogno altrui, l’offerta di aiuto, la condivisione spicciola di ciò che si ha nel cuore e che passa nella vita, ecc.”.
Conoscendo i ritmi attuali di tante nostre comunità e attività, viene chiesto di fissare la giornata comunitaria per curare le relazioni tra confratelli. Decisione n.11: “Il superiore locale è l’animatore e responsabile della giornata settimanale della comunità. Nell’organizzarla si privilegi sempre la spiritualità di comunione tra i membri della comunità, alternando la gratuità e la spontaneità del momento distensivo, con la condivisione del progetto personale e comunitario, lo scambio dell’esperienza di Dio, la revisione di vita comunitaria e personale, e gli impegni comunitari indicati nella Mozione 13 dell’11° Capitolo Generale, allo scopo di rafforzare la fraternità e lo spirito di famiglia”.
Ai tempi di Don Orione era impensabile una simile disposizione, non era necessaria. La vita comunitaria era più stabile, più concentrata sulla casa-opera. Ma oggi, con situazioni di attività in luoghi e tempi tanto diversi, la giornata di comunità è una scelta opportuna per salvaguardare un tempo per le riunioni comunitarie, il ritiro, lo svago insieme, ecc. Fu proposta nella nostra congregazione fin dall’Assemblea generale di Zdunska Wola (1995). E’ attuata in numerose altre congregazioni… e anche tra il clero diocesano.
Dalla visita canonica finora condotta risulta che sta entrando nel nostro costume sempre più fruttuosamente.
3. CURARE LE RELAZIONI ESTERNE CON L’AMBIENTE
Per evitare la sindrome dell’isolamento e dell’introversione sia personale che della comunità che dell’opera (effetto serra), il Capitolo indica alcune linee di relazioni benefiche per la vita della comunità.
4. NUOVA RELAZIONE COMUNITÀ – OPERE
Il 12° Capitolo generale ha delineato una evoluzione, in parte avvenuta e in parte da realizzare, nella relazione e nel ruolo della comunità rispetto alle opere. “Il rapporto essenziale tra comunità orionina e opere si è fatto sempre più critico, a discapito sia della qualità della vita comunitaria e sia della qualità apostolica dell’opera. Ciò a motivo della complessità di gestione delle opere e della difficoltà di gran parte dei religiosi a condurle adeguatamente (dec. 16).
A mio avviso, quanto è detto dal Capitolo su questo tema è la parte più originale e necessaria per la buona salute dei religiosi e delle attività apostoliche.
In sintesi, il Capitolo chiede una maggiore distinzione tra comunità e opera e, contemporaneamente, chiede una maggiore relazione di tutta la comunità con l’opera/e.
1. maggiore distinzione tra comunità e opera
2. maggiore relazione di tutta la comunità con l’opera/e
3. verso il nuovo ruolo della comunità
Nelle mutate condizioni nella gestione delle attività (caritative, educative, parrocchiali) per la complessità della gestione e per l’esiguità del numero dei religiosi, “i religiosi sono chiamati a realizzare il loro specifico compito di animatori pastorali dell’opera, curare la formazione dei laici, dedicarsi alle nuove urgenze caritative di frontiera” (dec. 1). E poi si specifica: “Comunitariamente svolgano innanzitutto in modo efficace il ruolo di responsabili e garanti della finalità religiosa-apostolica dell’opera. Attuato questo primo indispensabile compito, come singoli, i religiosi possono svolgere nell’opera quei ruoli e servizi particolari di cui sono capaci: direttore dell’opera, amministratore, infermiere, insegnante, ecc.” (dec.16).
Questo ruolo è richiesto sia per la qualità apostolica delle opere e sia per il bene della comunità.
5. FORMAZIONE DEI RELIGIOSI AL CAMBIAMENTO
Parlando di formazione, nel linguaggio corrente va scomparendo l’aggettivo permanente o iniziale che qualifica la formazione, perché viene dato come implicito che la formazione è per sua natura permanente, in quanto nel corso del tempo cambia la persona e cambia il contesto entro cui vive.
Come Congregazione stiamo vivendo un forte cambio che riguarda il nostro modo di essere, il ruolo e la relazione dei religiosi nella comunità e nelle opere. Se il cambio non è accompagnato dalla corrispondente formazione dei religiosi, rischiamo di subire i cambi, di sentirci spaesati o incapaci o delusi o traditi dalle nuove situazioni. Il Capitolo dà varie indicazioni sulla formazione.
6. PROGETTO COMUNITARIO
“Il progetto comunitario rappresenta una modalità per giungere alla spiritualità di comunione dove il fratello che vive accanto a noi è uno che mi appartiene” (dec. 9).[30]
Ho lasciato per ultima questa indicazione. In realtà è la più importante e decisiva. Di “progetto di vita della comunità” parlano anche le nostre Costituzioni al n. 59. Si può dire che, nelle attuali condizioni di vita, non si realizza il modello di comunità famiglia senza formulare e aggiornare periodicamente il proprio progetto comunitario.
Il progetto comunitario, infatti, rafforza la struttura interna della vita dei fratelli che rischia continuamente di venire de-strutturata non solo dall’individualismo, ma anche da attività, luoghi e tempi di vita diversi, ecc. Il progetto comunitario è matrice d’identità, è focolare di crescita personale, comunitaria e apostolica; è il luogo del discernimento e dello sviluppo fraterno del progetto di Dio.
Il progetto comunitario più che una fotografia ideale della comunità è il cammino della comunità “famiglia unita in Cristo”. Favorisce la fedeltà creativa nella mutevolezza e diversità di tempi e situazioni. Il progetto comunitario di vita nasce dal dialogo e porta frutti di comunione con Dio, con i confratelli, con la gente cui siamo inviati.
Non è qui il luogo per approfondire e spiegare l’identità e il metodo del progetto comunitario,[31] ma solo intendo riaffermarne l’importanza per tradurre in cammino le nostre attese sulla vita fraterna in comunità.
Cari Confratelli, “per presentare all'umanità di oggi il suo vero volto, la Chiesa ha urgente bisogno di comunità religiose fraterne, le quali con la loro stessa esistenza costituiscono un contributo alla nuova evangelizzazione, poiché mostrano in modo concreto i frutti del «comandamento nuovo»” (Vita consecrata 45).
Per amore di Dio, per amore fraterno e per amore alla Chiesa impegniamoci a far crescere la comunità che ci fa crescere. Avanti!
NOTIZIE DI FAMIGLIA
Innanzitutto, segnalo che nel sito Don Orione nel mondo (www.donorione.org) vengono inserite notizie dalla Curia e dal mondo orionino quasi ogni giorno. Ringrazio per questo i collaboratori dell’Ufficio Stampa: Don Silvestro Sowizdrzal , Don Aurelio Fusi, Gianluca Scarnicci e Giusy Saitta. Per chi usa internet è una buona possibilità di informazione, da condividere anche con chi non usa internet. Incoraggio a collaborare con l’Ufficio Stampa centrale (uso@pcn.net) inviando notizie.
A Montebello, 1-4 settembre 2006, si è tenuto l’incontro di formazione per i nuovi Consigli provinciali di Europa e Africa. Ha fatto il suo esordio anche il nuovo Consiglio della Delegazione Missionaria di lingua inglese “Madre della Chiesa”, che nei giorni 5-6 settembre ha avuto la sua prima assemblea.
Il Forum dei giovani si è riunito a Rio de Janeiro dal 25 al 30 ottobre. Mi pare sia riuscito bene per quanto riguarda il raggiungimento degli scopi immediati: il confronto tra giovani rappresentanti di molte delle nazioni in cui siamo presenti, la attualizzazione del Progetto di Pastorale giovanile e la elaborazione delle linee per il coordinamento del Movimento Giovanile Orionino.
Giovani orionini in movimento ce ne sono, e quanti! Ho visto tante belle realtà girando il mondo. Ci sono gruppi giovanili di diverso tipo, parrocchiali, di impegno caritativo, sociale, di volontariato, di preghiera... Molto spesso però sono gruppi isolati, legati a un momento di fervore, all’intraprendenza di un religioso, a un progetto immediato. Occorre meglio organizzare la pastorale giovanile e tessere la rete di collegamento per passare da gruppi a movimento, da iniziative isolate a progetto. Questo darà continuità, organicità ed efficacia formativa alla pastorale giovanile.
Dopo il Forum, 5 dei 6 membri del Consiglio generale ci siamo fermati nelle Province di America Latina per una ventina di giorni, per incontrare confratelli e partecipare ad eventi e riunioni dei Segretariati.
In ottobre, la salute di Madre Maria Irene, superiora generale delle PSMC, ha dato qualche preoccupazione proprio mentre era in Brasile, a causa della malaria contratta durante la sua visita in Africa. Poi si è ripresa abbastanza prontamente.
In Brasile, a Valença, dal 25 al 29 ottobre, si è tenuta la Assemblea generale di verifica del nostro Istituto Secolare Orionino. Abbiamo partecipato a qualche momento anch’io e l’assistente generale P. Enemesio Lazzaris. E’ stato un evento di fraternità e di gioia nel Signore, constatando il progresso e il consolidamento dell’Istituto e di questa forma di consacrazione.
Ho visitato per la prima volta il Kenya, dal 15 al 22 settembre, assieme a P. Philip Kehoe, superiore della nuova Delegazione Missionaria “Madre della Chiesa”. La nostra Congregazione è arrivata in Kenya 10 anni fa (ottobre 1996), a Langata, nella periferia della città di Nairobi. Le Piccole Suore Missionarie della Carità, comprese le Sacramentine, sono presenti da 25 anni. A Langata, la nostra comunità si occupa del seminario (P. Raymond Ahoua), della parrocchia di Kandisi (P. Paul Damin) e della promozione vocazionale (P. Peter Wambulwa). La visita canonica ha avuto il suo momento centrale e festoso nella celebrazione della Messa con la professione perpetua di Raphael Kailemiah, a Kaburugi. Qui c’è l’altra comunità con P. Malcolm Dyer e P. Marek Krakus impegnati in una popolosa e povera parrocchia rurale. Da un anno circa, c’è anche un piccolo Centro per bambini disabili. E’ iniziato sotto un grande albero, usufruendo della sala della parrocchia. Tutto è poverissimo, affidato alla Divina Provvidenza e al buon cuore di amici vicini e lontani. Ora si spera si rafforzare questo servizio tanto necessario e che suscita meraviglia e collaborazione tra la gente.
Dal 4 all’8 di ottobre, sono stato in Albania per un evento importante dello sviluppo di quella nostra missione. Il 7 ottobre, a Bardhaj, è stata inaugurata la nuova chiesa nella periferia povera di Scutari. I nostri confratelli sono giunti in questa nazione subito dopo la caduta del regime comunista e sono presenti anche a Shiroka (Don Giuseppe De Guglielmo e Don Rolando Reda) e a Elbasan (Don Emilio Valente, Don Corrado Armando e Don Giuseppe Testa). A Roma, il primo sacerdote albanese, Don Dorian Mjeshtri, sta frequentando studi superiori di teologia.
Nell’aprile scorso, era iniziato il primo nostro contatto con la Corea del Sud con l’arrivo di due nostri confratelli, P. Luciano Felloni e P. Bernardo Seo. Dopo nove mesi, raccolte le indicazioni su difficoltà e possibilità per un’apertura vera e propria in quella nazione, è stata decisa la conclusione della fase di esplorazione in Corea. L’apertura di una comunità stabile è rinviata a tempo più opportuno.
A fine novembre, abbiamo avuto esercizi spirituali dei due Consigli generali FDP e PSMC presso i Passionisti del Celio a Roma. Predicatore è stato P. Francesco Pavese, dei Missionari della Consolata, apprezzato sia per la profonda ed entusiasta conoscenza di Don Orione e sia per la prospettiva di spiritualità dell’autorità data alle sue meditazioni.
Il 2 dicembre, al termine degli esercizi spirituali, i due Consigli generali hanno continuato con l’incontro annuale di programmazione. Tra i temi all’ordine del giorno: il cammino congiunto nelle missioni, il rapporto FDP – PSMC a livello provinciale e locale, scelte per la pastorale giovanile dopo il Forum, organizzazione e celebrazione comune della Giornata missionaria orionina (11 marzo 2007), preparazione del Convegno di Pastorale educativo-scolastica (29.9 – 3.10 2008), criteri e condotta circa affettività e sessualità nei Piccoli Cottolengo e Case di carità, il convegno dei Formatori (Ariccia-Tortona, 3-16 marzo 2007).
Il 3 dicembre, l’incontro dei due Consigli si è aperto alla partecipazione dell’équipe direttiva del MLO e della responsabile generale dell’ISO. Temi trattati: organizzazione degli Studi orionini; rapporto tra pastorale giovanile e MLO; risonanze dell’Assemblea di verifica e nomina dei nuovi Consigli regionali dell’ISO; riconoscimento ecclesiale del MLO; incontro del Coordinamento centrale e elezione della nuova équipe; la statua di Don Orione per la Basilica di san Pietro (pronta per fine 2007).
Nel prossimo anno 2007 si realizzerà la visita canonica nelle Province di San Marziano (Tortona), San Benedetto (Genova), SS. Apostoli Pietro e Paolo (Roma), N.S. di Czestochowa (Warszawa), N. S. del Pilar (Madrid), N.D. d’Afrique (Bonoua), Mother of the Church e Case dipendenti dalla Direzione generale. La visita canonica ha un valore vocazionale e formativo molto importante per religiosi, comunità e opere. Oltre agli obiettivi generali e ordinari stabiliti dalle Costituzioni, validi per ogni visita canonica, essa ha obiettivi specifici che sono quelli stabiliti dal 12° Capitolo generale.
Guardando avanti, il nostro cammino di Congregazione ci chiede di alzare lo sguardo per valutare bene l’orientamento e compiere buoni passi verso il futuro. Uno dei momenti comunitari privilegiati è l’Assemblea di verifica di metà sessennio. Prima dell’Assemblea generale, a Madrid, dal 10 al 15 ottobre 2007, si terranno le Assemblee provinciali: “A tre anni dal Capitolo generale sarà convocata dal Direttore provinciale una assemblea della Provincia per verificare l'attuazione delle disposizioni del Capitolo generale” (Norma 170).
Festa del Papa: dal 2004, la Festa del Papa di Roma è diventata un grande evento, con il Papa e la diffusione televisiva. Dopo la consultazione dei tre Consigli provinciali italiani, è stato deciso di celebrarla, in modo solenne e congregazionale, e possibilmente nella Sala Paolo VI, a Roma ogni tre anni. Negli altri due anni, si celebrerà a livello locale. Una festa speciale ci sarà ugualmente a Roma, promossa e organizzata dalla Provincia SS. Pietro e Paolo (Roma). Un gruppetto promotore preparerà ogni anno la festa indicando un tema comune a tutte le Province.
Infine, il ricordo e la preghiera vanno per i nostri cari defunti di questi ultimi mesi.
Tra i confratelli ci sono Don Salvatore Palmas, Don Enea Onofri, Fr. Francesco Giai Baudissard, Don Fausto Santella e Don Pietro Cacciola.
Le Piccole Suore Missionarie della Carità: Sr. Maria Flavia, Sr. Maria Teresina del Bambin Gesù (Sacramentina), Sr. Maria Bernardeta, Sr. Maria Valeriana, Sr. Maria Teodora, Sr. Maria Amor Crucis e Sr. Maria Aloysia.
Due consacrate argentine dell’Istituto Secolare Orionino: Maria Raquel Ortuvia e Orestina Zotta (Argentina).
Alcuni parenti dei quali ho avuto notizia: il papà del Ch. Roberto Bongioni (premorto) e del P. Pablo Salvatierra Aguerri; la mamma del Ch. José Anisio Ferriera; il fratello di Don Jerzy Pawlowski, di Don Leonard Pawlak e di Don Giuliano Moretti (premorto); la sorella di Don Mario Bai e di Don Secondo Vighi.
Ricordiamoci anche dei tanti laici che hanno aiutato la missione della Piccola Opera, tra i quali Carmel Hardiman (Londra), Adele Maria Orlandi ved. Repetto (Genova) e Giorgio Pisotti (Genova).
Girando per le nostre comunità incontro numerosi confratelli limitati per l’anzianità o per la malattia: il Signore li conforti e possano trovare in noi Confratelli stima, affetto e aiuto.
A tutti, con affetto di fratello e padre, nel nome di Don Orione, auguro un felice e fruttuoso cammino di vita in questo anno 2007.
Don Flavio Peloso, FDP
(Superiore generale)
[1] Cfr. Documento del CG12, p. 70. “Senza essere il tutto della missione della comunità religiosa, la vita fraterna ne è un elemento essenziale” (VFC 55; Cfr CJC 665). La Chiesa ritiene essenziali alcuni elementi, senza i quali non si dà la vita religiosa: la chiamata di Dio e la consacrazione a lui mediante la professione dei consigli evangelici con voti pubblici; una forma stabile di vita comunitaria” (Elementi essenziali della vita religiosa, 1984, 4).
[2] Parola, 12 aprile 1918.
[3] J.M. Ilarduia, Il progetto comunitario, cammino d’incontro e comunione, EDB, Bologna, 2004, p.17-31.
[4] Ricordiamo che il tema-progetto dell’attuale tappa di vita della Congregazione (2004-2010) è “fedeltà creativa alla nostra vocazione, con Don Orione come modello e le Costituzioni come guida, nell’amore di Dio, nella famiglia orionina e nella passione apostolica”; Cfr Documento del 12° Capitolo generale.
[5] Si veda la Circolare “Io debole servitore di Dio. La relazione personale con Dio fonte di identità e fedeltà” in Atti e comunicazioni della Curia generale, 2006(60), n.219, pp. 3-20.
[6] “Tra le tre virtù teologali, tutte necessarie alla vita del cristiano e tanto più alla vita del religioso, la più necessaria ed indispensabile è la carità. Dico che è indispensabile specialmente per chi vive in comunità. L'Apostolo San Paolo la chiama "vinculum perfectionis". E' la virtù che ci assicura che stiamo camminando sul buon sentiero dei consigli evangelici. La carità è quella che tiene assieme, è il vincolo, il legame, quello che ci sostiene nella fatica per l'apostolato verso i fratelli più bisognosi. E' la carità che ci conforta nelle pene. E' la carità, l'amor di Dio che ci spinge a darci fraternamente la mano per camminare insieme”; Parola I, dove sono raccolte alcune Massime del 1916.
[7] Parola III, 33s.
[8] Perfectae caritatis 2: “L'aggiornamento della vita religiosa comporta il continuo ritorno alle fonti di ogni forma di vita cristiana e allo spirito primitivo degli istituti, e nello stesso tempo l'adattamento degli istituti stessi alle mutate condizioni dei tempi”.
[9] Don Orione: “Il Signore ci giudicherà secondo le opere, e secondo la carità delle opere, perché anche le opere senza la carità di Dio, che le valorizzi davanti a lui, a nulla valgono”; Scritti 39, 80.
[10] Questo criterio apostolico deve essere non solo nelle intenzioni dei religiosi ma nella impostazione e gestione delle opere per poter superare la frattura tra "spiritualità " e "servizio", tra "servizio" e "apostolato". Cfr R. Simionato, “Dalle opere di carità alla carità delle opere” in Atti e comunicazioni della Curia generale, 1996(50), 3, pp.229-250 e il Progetto orionino per le opere di carità, 2004; la mia circolare “Quali opere di carità?” In Atti e comunicazioni della Curia generale, 2005(59), n.217, pp. 111-128.
[11] La lettera completa in Lettere I, 129-136.
[12] Lettere I, 185.
[13] Scritti 80, 283.
[14] Le prime due decisioni del nostro Progetto missionario (Ariccia 2005) si occupano delle comunità nelle missioni: “1. Impegno a dare centralità alla comunità e alla vita fraterna come segno di evangelizzazione, come aiuto reciproco dei missionari, come attrattiva per le vocazioni. 2. Ogni comunità di missione abbia la propria casa distinta dalle sedi di opere e attività”; Atti e comunicazioni della Curia generale, 2005(59), n.218, p. 329.
[15] Vita fraterna in comunità, 55:“Più intenso è l'amore fraterno, maggiore è la credibilità del messaggio annunciato, maggiormente percepibile è il cuore del mistero della Chiesa… La vita fraterna è altrettanto importante quanto l'azione apostolica. Non si possono allora invocare le necessità del servizio apostolico, per ammettere o giustificare una carente vita comunitaria”.
[16] Lettera del 20.9.1937, Scritti 50, 36.
[17] Lettera del 19.7.1929, Scritti 1, 97.
[18] Lettera del 26.1.1934, Scritti 1, 160.
[19] Si veda il capitolo Spirito di famiglia in Sui passi di Don Orione, pp.79-88.
[20] Cfr CG12, pp.40, 42, 58, 66.
[21] “A volte i religiosi sono dispersi in diversi settori dell’opera e rischiano di perdere l’identità e la visibilità stessa della vita comunitaria. Volendo dare una sempre maggiore visibilità alla comunità, distinguendola dall’opera, si decide: a) si attui una più netta separazione tra casa della comunità e ambienti dell’opera-attività; b) in continuità con le indicazioni delle Costituzioni e degli ultimi due Capitoli generali ci sia non solo l’ambiente dei religiosi separato dagli altri ambienti dell’attività dei religiosi (opere), ma possibilmente anche la casa stessa” (dec. 12).
[22] Circa il consiglio d’opera: “In ogni casa il direttore costituisce il consiglio d’opera formato dal Consiglio della casa, da alcune suore se presenti, dai laici responsabili dell’opera, ed eventualmente da qualche laico del MLO” (dec. 19).
[23] Si veda la dec. 1.
[24] Si veda la dec. 32.
[25] Si veda la dec. 19.
[26] “Per un arricchimento carismatico e apostolico della comunità, alcuni laici, rappresentativi di importanti settori dell’opera, partecipano, in forma consultiva, alle riunioni del Consiglio di casa, quando vengono trattati i temi che si riferiscono alla gestione dell’opera” (Dec. 19).
[27] “I membri del Consiglio d’opera, con compiti ben precisi, definiti da un Regolamento, avranno ruolo stabile all’interno dell’opera e saranno anche garanzia della continuità del progetto” (Dec 19).
[28] “I Segretariati competenti o altri organismi adeguati, nonché le comunità locali, organizzano programmi e stages di formazione per i religiosi , per il personale dipendente e per i responsabili di settore in ordine al raggiungimento della finalità apostolica dell’opera” (Dec. 16, e cfr 1, 3, 18).
[29] Poi precisa: “Questi corsi, consistenti nei contenuti e nella durata, includono la dimensione spirituale, orionina e umana. Sono guidati da persone esperte nei vari settori che accompagnano i religiosi in un autentico processo di revisione di vita e in un profondo discernimento, per vivere integralmente la loro vocazione. Il superiore provinciale ne verifica l’attuazione”.
[30] Per l’attuazione: “il Direttore provinciale, o un suo Delegato, incontrerà le singole comunità motivandole e aiutandole a formulare il proprio progetto comunitario, secondo le indicazioni della Mozione 13 dell’ 11° CG e a verificarne i risultati e le difficoltà ogni anno”.
[31] Per conoscere le motivazioni e il sussidio per il progetto comunitario rimando al breve Quaderno pubblicato nel 2005 con il titolo Sussidi per il rinnovamento personale, comunitario e apostolico e al Quaderno di formazione permanente per l’anno 2006-2007 dal titolo Una famiglia unita in Gesù Cristo. Per l’approfondimento è ottimo il libro di J. M. Ilarduia, Il progetto comunitario, cammino d’incontro e comunione, EDB, Bologna, 2004. Segnalo anche P. G. Cabra, Per una vita fraterna. Breve guida pratica, Queriniana, Brescia, 1998.