VIVEVA LA SPERANZA DI UNA SOCIETÀ RICONQUISTATA A CRISTO (Carlo Arturo Jemolo)

Don Orione visto da un uomo di cultura, giurista e storico.
Nato da poverissima famiglia, si formò un’eccellente istruzione classica con perfetta conoscenza della Divina Commedia, e non restandogli ignoto neppure Carducci. E tuttavia, leggendo queste pagine, spesso ci parrebbe di leggere un contemporaneo di Jacopone da Todi, un uomo vissuto oltre seicento anni fa. Viceversa, sappiamo che fu un ottimo organizzatore in Italia e dell’America del Sud, e che ebbe sempre coscienza di quello che fosse lo stato d’animo della più gran parte degli italiani.
Gli scritti raccolti sono per la più gran parte degli ultimi anni della sua vita, in maggioranza del 1935-36, e ci dicono pure che il suo fervore religioso non attenuò il ricordo carissimo della madre, umile donna ma lavoratrice indefessa; ricordando la propria opera di cercar di raccogliere, far studiare ed avviare al servizio della Chiesa, di preferenza al sacerdozio, dei giovani che non avevano potuto compiere gli studi nei seminari, ricorda quando andava con la madre a spigolare, a raccogliere cioè i chicchi di grano lasciati cadere.
Il carattere mondiale della sua opera non gli fa dimenticare neppure la sua italianità: vuole che in ciascuno dei suoi istituti ci sia un esemplare della Divina Commedia. Scrive: “Amiamo la nostra Italia di un amore operoso; amiamola per farla sempre più degna della sua fede delle sue tradizioni; amiamola come italiani e come cattolici; adoperiamoci a far rifiorire le virtù pubbliche col rendere sempre più pure, cristiane e laboriose, le nostre famiglie… - Allora saremo un gran popolo, una nazione grande, una grande forza nel cammino della civiltà” .
C’è anche una pagina del 1919 che a prima vista pare contrastare con il resto del libro: è un appello ai proletari della risaia e leggiamo: “il vostro lavoro dev’essere adatto e limitato alle vostre forze e al vostro sesso… Noi cattolici, come tali e come cittadini, ingaggeremo quest’anno la battaglia per le otto ore di lavoro in risaia. Non lasciatevi sfruttare… Non lasciatevi intimidire dalle minacce dei padroni… e, occorrendo, legalmente, sì, ma insorgete…” . Ma continua: “Lavoratori e lavoratrici delle risaie… non fidatevi di chi non ha religione; chi non ha religione non ha coscienza; non ve ne fidate mai…” .
Egli pensa sempre ai poveri, la sua Chiesa è la Chiesa dei poveri, la sua Congregazione dev’essere tutta rivolta al popolo. Ma le pagine più belle sono rivolte alla Vergine e si sente proprio che sgorgano dal cuore. A Lei si rivolge dicendoLe che Ella ha voluto la Piccola Opera della Divina Provvidenza, “chiamandoci misericordiosamente all’Altissimo privilegio di servir Cristo nei poveri; ci hai voluto servi, fratelli e padri dei poveri, viventi di fede grande e totalmente abbandonati alla Divina Provvidenza” .
La sua ortodossia è assoluta; non tocca mai problemi teologici; ma nel Papa riconosce non solo il fondamento della nostra religione, ma anche la “pietra inconcussa della società umana” . E scrive: “il mio più dolce e più grande amore è il Papa, cioè Cristo: il Papa, per me e per voi, è Gesù Cristo stesso” . “Il nostro Credo è il Papa, la nostra morale è il Papa; il nostro amore, il nostro cuore, la ragione della nostra vita è il Papa. Per noi il Papa è Gesù Cristo: amare il Papa e amare Gesù è la stessa cosa; ascoltare e seguire il Papa è ascoltare e seguire Gesù Cristo; servire il Papa è servire Gesù Cristo; dare la vita per il Papa è dare la vita per Gesù Cristo!… ” . “Non conosciamo né vogliamo altro Pastore; non conosciamo né vogliamo altro Padre, né altro Cristo pubblico e visibile in terra” .
Ma non sono pochi brani a dirci tutta la bellezza di questi cantici così profondamente scaturiti dal cuore di un uomo che, pur ben conoscendo la società in cui viveva, si sentiva trasportato fuori di essa e viveva in una estatica contemplazione della vita eterna e nella speranza di una società riconquistata a Cristo.