LAICI - Abbiate il coraggio del bene!

L’autore, attento lettore e protagonista della cultura cattolica, coglie alcune risonanze di attualità della famosa esortazione di Don Orione ai laici per animarli all’impegno nella vita famigliare e sociale. * Il prof. Giuseppe Dalla Torre, Rettore della Libera Università Maria SS. Assunta, in Roma, è ordinario di Diritto, già all'Università di Bologna e ora alla LUMSA e all'Università Lateranense; presidente del Tribunale del Vaticano, fu segretario della Commissione per la revisione del Concordato. È presidente dell’Associazione Giuristi Cattolici. Pagine utili: Don Orione e la vocazione laicale (G. Marchi) Movimento Laicale Orionino

Il ricordo di Don Orione e della Madonna di Monte Mario è forte nella mia famiglia. Mio padre era assessore al Comune di Roma quando ci fu una grossa battaglia in Consiglio Comunale a causa della sistemazione di quella splendida statua della Madonna, alta 11 metri, opera di Arrigo Minerbi, che domina Roma dal Centro Don Orione di Monte Mario.[1] Mio padre riuscì a superare tutte le resistenze. Io non conoscevo ancora la Congregazione orionina e ho sentito parlare per la prima volta di Don Orione proprio in quell’occasione, perché papà per affrontare la questione con cognizione di causa ebbe vari incontri con Don Gaetano Piccinini.[2] Questo ricordo personale è un ulteriore motivo del piacere che provo nel trattare con voi il tema del “coraggio del bene”.[3]


Il "paradigma" della santità

“Ai Religiosi e Religiose della Piccola Opera, agli Amici, ai Benefattori e Benefattrici, ai cari Ex Alunni e Alunni nostri, a tutti i nostri Poveri, agli orfanelli, ai sani e ai malati, ai giovani e ai vecchi, che vivono nelle Case della Congregazione, sotto le ali della Divina Provvidenza”. Verso la fine della lettera, Don Orione si rivolge direttamente ai suoi Ex Allievi, dicendo loro: «Ed ora a voi, cari Ex Alunni, a voi, o giovani, che tuttora state crescendo alla Religione, alla Famiglia, alla Patria nei nostri Istituti, e siete tanta parte della nostra vita e del nostro cuore: Buona Pasqua! […]
Il Signore vegli sempre su voi, o indimenticabili miei Figliuoli in Cristo. Quelli di voi, che sono padri, crescano nel timore di Dio i figli. Tutti, poi, siate amanti delle vostre Famiglie; mantenetevi morali e buoni; vivete da veri cristiani; pregate, frequentate i Sacramenti, santificate la festa; non arrossite mai del Vangelo, né della Chiesa: “senza forza d’animo non v’è virtù”, ha scritto il Pellico.
Abbiate il coraggio del bene e dell’educazione cattolica e italiana ricevuta. Diffondete lo spirito della bontà; perdonate sempre; amate tutti; siate umili, laboriosi, franchi e leali in tutto: di fede, di virtù, di onestà ha estremo bisogno il mondo».[4]
Il coraggio del bene evoca immediatamente il modello del santo. E ciò non solo perché per diventare santi occorre avere il coraggio del bene, ma anche nel senso che il coraggio del bene è sempre caratteristica della santità.

Ma chi è il santo?

Certamente il santo non è l'eroe dell'antichità classica, quello che i poemi omerici hanno scolpito nella cultura occidentale. Gli eroi, infatti, sono superuomini; essi hanno superato la loro umanità, sono andati oltre i limiti che la natura umana pone a ogni mortale. Gli eroi si allontanano dal modello umano e nel pensiero classico vengono avvicinati alle divinità: sono "semidei". Gli eroi sono potenti, al culmine della giovinezza, di una bellezza sfolgorante, nel pieno delle proprie forze sovrumane, spesso invincibili. Nella cultura classica divinità ed eroi costituiscono la sfera del sacro.
Ben altra cosa sono i santi. Il cristianesimo non tende a fare superuomini, ma vuole che l'uomo viva in verità e in pienezza la propria umanità. Come ha insegnato il Concilio Vaticano II nella costituzione pastorale Gaudium et spes, "Cristo, che è il nuovo Adamo, […] svela anche pienamente l'uomo all'uomo" (n. 22), cioè fa conoscere pienamente la realtà e la dignità della creatura umana e, grazie al suo intervento redentivo, rende l'uomo capace di ricevere la restaurazione della propria natura, nella sua originaria completezza e dignità. Il mistero dell'incarnazione diviene segno evidentissimo di questa esaltazione della natura umana, nella sua originaria perfezione, giacché Cristo è stato perfettamente uomo.
L'autentica santità di conseguenza, nella misura in cui è caratterizzata da un itinerario spirituale di conformazione del credente a Cristo, non tende a superare l'umanità, ma piuttosto ad assumerla in pienezza. Come incisivamente dice San Paolo, quelli che Dio "da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia primogenito tra molti fratelli" (Rm. 8, 28-30).
Il modello di colui che ha il coraggio del bene, non è un superuomo, ma è quello di noi che riesce in maniera migliore, rispetto agli altri, a vivere la sua condizione umana, anche se debole, anche se malato, anche se anziano, anche se brutto, anche se non particolarmente dotato dal punto di vista dell’intelligenza. I Santi sono di tutti i tipi. Pensiamo, ad esempio, al Curato d’Ars e ai suoi limiti e problemi per diventare prete.
Quando penso a questa contrapposizione tra il modello dell’eroe, come ce ne sono nella società, e il santo, come antimodello secondo il mondo, penso sempre a un bellissimo dipinto di Greccio, vicino Rieti, dove Francesco fece il primo presepio. Ebbene, in questo dipinto si raffigura San Francesco sofferente, che si asciuga gli occhi perché tormentato dalla malattia che segnò gli ultimi suoi anni di vita; una testa grande, un corpo che si direbbe quasi rachitico; non è certamente la figura dell’eroe: secondo me è una delle immagini più vere, diversa da quelle bellissime di Giotto nelle quali il pittore però realizza se stesso.
E ho trovato qualcosa di analogo, mi sia permesso ricordarlo, proprio in Don Orione. Nel libro di Don Giuseppe De Luca, Elogio di Don Orione, c’è una pagina ove si dice di Don Orione: «Questo povero italiano, grezzo, tozzo, rozzo, è stato, in Italia, una delle spere più affocate e splendenti del divino. Anche solo a parlarci traluceva da lui una miracolosa vita. Un amore dentro, lo avvampava, che non doveva dargli sosta un attimo, se talvolta gli dava il tremito insostenibile dell’estasi, la leggerezza d’un tutto-anima, d’un tutto-Dio. I suoi silenzi, i suoi sogni, le sue ore non spiate da nessuno, i suoi solo a solo con Dio, nessuno potrà mai raccontare: questa innamoratezza che, – dicevamo – ne fa un fratello di Francesco di Assisi, come lui piagato addentro e cantante, come lui sempre lieto, sempre vivo, sempre travolto nel suo amore come un fuscello, sempre travolgente col suo amore come un vento, un fuoco, una fiumana…».[5]
Insomma, l’idea è questa: il coraggio del bene è la virtù tipica dei santi e il santo non è un eroe, ma il santo è un antieroe perché non bisogna essere necessariamente sani, forti, belli, giovani per essere santi. Attraverso l'esercizio della virtù il santo tende all'autentica libertà, che è emancipazione dai condizionamenti delle debolezze e dei vizi umani, e quindi a realizzare compiutamente la propria umanità.
La santità non attiene alla sfera del "sacro", perché il sacro si oppone per natura sua a ciò che è limitato e umano. La santità attiene, invece, alla sfera del "santo". Come giustamente ha notato mons. Ravasi ne Il racconto del cielo (Milano, 1997) «la santità non si isola ma, pur conservando la propria identità, coesiste col profano, lo feconda senza assorbirlo. Il santo anima l'esistenza e le realtà mondane senza annientarle ma lasciando loro consistenza».
Dunque la santità è il "paradigma" che definisce il tema del coraggio del bene, nella misura in cui questo impone non fuga o separatezza dalla realtà, bensì immersione fecondante nel concreto della dimensione quotidiana di vita.

Tornare alla scuola del Vaticano II

Il coraggio del bene e, dunque, la santità alla quale tutti i cristiani sono chiamati, ripropongono l'insegnamento del Concilio Vaticano II su quella che è stata detta l’"animazione cristiana dell'ordine temporale": una espressione per la verità non rintracciabile nei documenti conciliari, ma che bene compendia l'insegnamento del Concilio sulla modificazione delle strutture dell'ordine temporale a seguito della missione salvifica della Chiesa.
Invero sul punto il Vaticano II ha ripreso un tema che può vantare un'antica e autorevolissima tradizione nella storia della Chiesa. Basti pensare a quel gioiello della letteratura cristiana antica che è la Lettera a Diogneto, nella quale si dice tra l'altro che «i cristiani svolgono nel mondo la stessa funzione dell'anima nel corpo; anche i cristiani sono sparsi per le città del mondo. L'anima abita nel corpo, ma non è del corpo; anche i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo» (VI, 1-3).
Ora l'animazione cristiana del mondo, cui la Chiesa ancora una volta col Vaticano II ha chiamato i fedeli (e in particolare i fedeli laici), presuppone una visione non negativa né pessimistica delle realtà temporali. In effetti il mondo, creazione divina, è bello e buono in sé. Non a caso il Vaticano II parla di una giusta "autonomia" delle realtà temporali (Gaudium et spes, 76).
È l'uomo, con la concupiscenza che gli deriva dalla colpa d'origine, ad alterare la relazione d'ordine che nell'originario progetto di Dio lo vede inserito signore del creato. E ciò, sia nel senso che contravviene alle regole poste dalla sapienza divina (da quelle naturali, procurando disastri ecologici, a quelle sociali, creando strutture ingiuste, disuguaglianze, povertà; a quelle morali, degradando la dignità umana); sia nel senso che è tentato di guardare alle realtà create come fine ultimo, chiudendosi così al rapporto con gli altri (il prossimo) e con Dio.
Dunque: animazione cristiana del mondo sta a significare che il fedele, grazie alle certezze che gli derivano dalla conoscenza della storia umana, dalla consapevolezza che dopo la caduta d'origine l'uomo non è più buono in sé (secondo l'utopistico convincimento di vecchi e nuovi illuminismi), e al tempo stesso dalla coscienza che le realtà mondane rispondono a un preciso disegno divino, può e deve adoperarsi perché nella gestione di queste realtà tale disegno venga rispettato, attuato, restaurato. Egli sa che, se col peccato l'uomo diviene incapace di attuare il progetto di Dio, rimane tuttavia capace – grazie all'intervento redentivo di Cristo – di ricevere la restaurazione della propria natura.
In questa prospettiva un ruolo fondamentale è quello che spetta ai fedeli laici, come il Vaticano II ha insegnato in particolare nel decreto sull'apostolato laicale Apostolicam actuositatem e come Giovanni Paolo II ha ribadito, dopo il Sinodo dei Vescovi sul laicato, nell'esortazione apostolica Christifideles laici. Perché i fedeli laici, a differenza dei ministri sacri e dei religiosi, per condizione e per vocazione vivono nelle realtà temporali (il matrimonio e la famiglia, il mondo del lavoro, la politica, l'economia, la scuola e le istituzioni formative ecc.); tali realtà essi sono chiamati a santificare santificando sé stessi.
Riconoscere autonomia al temporale non significa, dunque, strappare più o meno ampi spazi di libertà rispetto al "potere ecclesiastico", all’autorità nella Chiesa, alla gerarchia. Significa, invece, ammettere che le realtà temporali sono rette da princìpi e regole proprie, distinte da quelle che riguardano l'ordine spirituale; princìpi e regole che debbono essere rispettate, che debbono trovare concreta attuazione nella vita di ciascuno e delle comunità, che debbono orientare i comportamenti quotidiani, se si vuole che il creato si sviluppi armonicamente secondo la struttura che è sua propria.
Il fedele cristiano, del resto, ammaestrato dal libro della Genesi, ha pure la consapevolezza che egli non è soltanto oggetto di creazione: partecipa in qualche modo della creazione divina del mondo, la quale così non si è conclusa una volta per tutte ma in qualche misura perdura nella storia, fino alla fine dei tempi. Ciò è evidentissimo nel lavoro, quale esso sia, materiale o intellettuale, giacché attraverso di esso l'uomo è messo in grado di proseguire e in un certo senso "completare", giorno dopo giorno, l'opera del Creatore. Dalla Scrittura è dato apprendere che il lavoro precede la caduta d'origine; esso, quindi, prima ancora di essere condanna e pena, costituisce la condizione naturale dell'uomo.
L'animazione cristiana dell'ordine temporale, allora, significa anche partecipazione dell'uomo alla creazione, come bene ha messo in evidenza Giovanni Paolo II nella sua enciclica Laborem exercens del 1981. Ma animazione cristiana del mondo significa ancora di più, perché il cristiano, gestendo le cose temporali secondo il progetto di Dio, può santificare queste realtà.
In particolare per quanto attiene al lavoro, si tratta di una dimensione dell'uomo che in virtù dei sacramenti e della vita interiore di preghiera e di sacrificio, può essere santificata, e una volta santificata, santifica chi lavora e questi può santificare gli altri in virtù della dimensione apostolica intrinseca al lavoro santificato. In tal mondo il cristiano collabora col Signore Gesù nel compito di attirare l'universo verso il Padre, nella prospettiva escatologica del compimento del grande progetto salvifico di Dio, in ragione del quale – per dirla con San Paolo – "tutto il mondo creato geme e soffre i dolori del parto" (Rm. 8, 22).

Il "coraggio del bene": quali possibili impegni concreti?

Il coraggio del bene, dunque, è la sostanza dell’animazione cristiana dell'ordine temporale[6]. Questa, infatti, nella misura in cui è diretta a far crescere l'uomo, ogni uomo, e la società nelle sue diverse articolazioni secondo il progetto di Dio, cioè secondo il vero ed il buono, non può che essere qualificata dalla ricerca del bene: il bene di ogni persona, il bene di ogni comunità umana. E questo impegno a volere il bene richiede coraggio, cioè richiede la forza di superare difficoltà nascenti dai limiti e dai condizionamenti individuali (egoismo, passività, disinteresse ecc.), così come ostacoli che si pongono dall'esterno (strutture di potere consolidate, mentalità, situazioni materiali, ecc.).
Ma in concreto, qual è il terreno sul quale, nell'odierna realtà della nostra società, il "coraggio del bene" è chiamato oggi a esplicitarsi? Quali sono le frontiere verso le quali si deve esercitare?
È difficile rispondere a siffatta domanda, perché il mare dei bisogni è immenso, sempre crescente, e d'altra parte il regno del male è potente e non di rado dominante. Tuttavia possono essere colte, qui ed ora, alcune priorità di impegno.
Il primo impegno è quello nel campo sociale, nel senso più ampio. In casa di Don Orione è evidente che io non debba entrare in specificazioni di ciò che si debba intendere per sociale: la cura dell’altro, del più debole, di coloro che hanno una cittadinanza debole; gli anziani, gli orfani, i malati, i disoccupati.[7] In fondo, l’impegno del sociale è correlato al modello del Signore che, come ci attestano gli Atti degli Apostoli "passò facendo del bene" (10, 38), cioè rimettendo i peccati, ma anche ridonando la vista ai ciechi, sanando gli storpi, consolando gli afflitti, cioè facendo del bene all'uomo nella sua integralità.
La società moderna, la società dell'immagine, che è "costretta" a presentare la vita solo negli aspetti gradevoli della bellezza e della prestanza fisica, della felicità riposta nei beni materiali, della vita agiata, come ha fatto scomparire alla vista la morte (ma essa è rimasta, con il suo ineliminabile "pungiglione", per usare la nota espressione paolina), così ha fatto scomparire, agli occhi e al sentire dei più, la povertà. Ma la povertà è rimasta, con il suo fardello di sofferenti; del resto il Signore lo ha assicurato: "i poveri li avete sempre con voi" (Mt 26, 11).
Forse nella nostra società opulenta sono venute meno, o comunque si sono ridotte, le forme tradizionali di povertà. Ma quante nuove povertà! Di quante "cittadinanze deboli" – come oggi usa dire – prendiamo quotidianamente conoscenza! È inutile fare qui un elenco, che non sarebbe mai esaustivo. Del resto ciascuno, per esperienza personale, è in grado di conoscere e di fatto conosce nuove forme di povertà, materiale o morale.
Piuttosto è necessario richiamare l'attenzione sul fatto che per cogliere tutte le nuove (e sempre nascenti) forme di povertà è necessario fare quotidianamente uno sforzo di fantasia, per individuare compiutamente e prontamente ogni nuovo bisogno, ogni nuova situazione di emarginazione che nasce nel divenire della società. Questo hanno fatto sempre i santi; questo ha distinto in modo particolare l'esperienza di Don Orione![8] E per far questo è necessario pregare il Signore che faccia cadere dagli occhi quei veli che non ci permettono di cogliere le nuove povertà. Sarebbe tragico se, guardando al passato, dovessimo ricordare di essere passati accanto all'uomo malmenato e ferito dai ladroni, senza esserci piegati per aiutarlo; ma sarebbe ancora più tragico se dovessimo scoprire in ritardo, quando non è più possibile fare nulla, di essere passati accanto al malcapitato neppure senza accorgerci delle sue ferite e senza udire il suo lamento!
La "caduta dei veli", per la quale si deve costantemente pregare il Signore, deve permettere di cogliere le nuove povertà anche in settori diversi da quelli tradizionali, sostanzialmente consistenti nella povertà economica e nella malattia. Esistono oggi, nella nostra società progredita e ricca, gravi forme di nuove povertà in settori un tempo non considerati; forme di povertà che risultano assai diffuse, anche fra chi non manca di mezzi economici o gode di buona salute. Si pensi, ad esempio, alla mancanza di senso politico, ossia di senso di appartenenza a una comunità umana organizzata, dalla quale riceviamo tutti enormi vantaggi in tanti campi, ma rispetto alla quale siamo insensibili quanto a doveri di solidarietà. Molti dei mali che ci affliggono nascono, a ben vedere, da una mentalità che pensa solo ai diritti e non ai doveri (e i doveri sono la forma minima della solidarietà!). Si pensi, ancora, alla mancanza di cultura che, nonostante la nostra società evoluta, caratterizza ampi strati della popolazione; di una cultura intesa non solo in senso stretto, come acquisizione di conoscenze umanistiche e scientifiche, ma anche in senso lato come i grandi modelli di comportamento, i comuni sentire, le idealità e i valori condivisi, che possono elevare il singolo e le comunità, ovvero possono degradarli. Da questo punto di vista la cultura è essenziale all'uomo così come alla società, allo stesso modo per cui il cibo è essenziale per il sostentamento fisico. La cultura, e la capacità di acculturarsi, costituiscono uno dei fattori che entrano a integrare la "dignità" propria dell'uomo e a distinguere questo da ogni altro essere vivente. Non a caso Paolo VI indicava la carità della cultura come la forma più elevata di carità.

Oggi l'impegno nel sociale è fortemente sentito nella Chiesa e la Chiesa, con le sue associazioni e istituzioni, è molto impegnata nei luoghi dolenti della società. Ma c'è il pericolo che tale sensibilità e tale impegno si decantino in una dimensione "orizzontale"; che si perda la consapevolezza delle ragioni autentiche e profonde dell'impegno cristiano nel sociale. Questo pericolo nasce dallo "spirito del tempo", dalla cultura e dalla mentalità della società contemporanea, secolarizzata e scristianizzata, per la quale la Chiesa è apprezzata e seguita come "agenzia umanitaria", ma poi abbandonata e talvolta derisa quando parla del centro della speranza di cui è portatrice: Cristo morto e risorto.[9]
L'impegno dei cristiani nel sociale, invero, ha una dimensione che trascende il mero umanitarismo e che si radica nella "cristoconformazione"; ma i cristiani vivono nel mondo, respirano l'aria comune, non possono non essere toccati dallo "spirito del tempo". Il rischio, dunque, è che anche in essi, inconsciamente, si allentino le ragioni forti, essenziali, dell'impegno sociale (della cristiana carità), per appiattirsi in un mero umanitarismo senza animazione trascendente.

Conclusioni

Secondo un orientamento di pensiero, coraggio è termine di derivazione latina, nel senso che verrebbe dall'espressione corde agere, cioè agire col cuore. Non è dato di sapere con certezza quale sia davvero l'etimologia del termine. E tuttavia è bello pensare che la parola coraggio sia nata così, per indicare un agire dell'uomo in cui le ragioni del cuore vadano oltre le ragioni della mente, in cui la generosità sopravanzi gli equilibri della ragione, in cui l'istanza interiore alla solidarietà faccia superare i limiti del dovuto.
Il coraggio del bene, dunque, significa la capacità di non farsi frenare da pur apprezzabili considerazioni di convenienza, di opportunità, di ragione giuridica, nel volere ciò che aiuta l'altro, il prossimo, a essere più autenticamente uomo, a vivere più autenticamente la propria umanità, a esplicitare quella dignità che è attributo di ogni persona umana. Una dignità che dalla pienezza della realizzazione umana assurge fino alle vette della santità.
Il coraggio del bene è anche essenza dell'esperienza cristiana. Come incisivamente ha scritto Mario Pomilio nel suo Il quinto Evangelio, "Cristo ci ha lanciati in un'avventura". E ciò perché «Cristo non ha più mani, ha soltanto le nostre mani per fare oggi le sue opere. Cristo non ha più piedi, ha soltanto i nostri piedi per andare oggi agli uomini. Cristo non ha più voce, ha soltanto la nostra voce per parlare oggi di sé. Cristo non ha più forze, ha soltanto le nostre forze per guidare gli uomini a sé. Cristo non ha più Vangeli che essi leggano ancora. Ma ciò che facciamo in parole e opere è l’Evangelio che si sta scrivendo».
Le dimensioni dell'impegno sono grandi e gravose: ma quando mai è stata facile la sequela di Cristo? Esse possono insinuare un senso di disagio, possono indurre al dubbio e alla tentazione della fuga dal mondo, possono far cadere nella chiusura in una fede esclusivamente intimistica. Quel disagio, quel disorientamento, quel dubbio che assalivano i due sulla strada di Emmaus: «Sei tu dunque l'unico pellegrino in Gerusalemme, da non sapere gli avvenimenti che vi sono accaduti in questi giorni?» (Lc 24, 18).
Il coraggio del bene è anche il coraggio di strappare dagli occhi i veli, che non ci fanno riconoscere il pellegrino sulla strada di Emmaus, grazie al quale e per il quale riusciamo a superare le "ragioni della ragione" e far vincere le "ragioni del cuore".
È ciò che hanno sperimentato i santi; è quanto ha esemplar­mente vissuto Don Orione.


-------------------------------------------------------------------------------- [1] La statua della Madonna Salus Populi Romani fu eseguita dallo scultore ebreo Arrigo Minerbi, che trovò rifugio presso l’Istituto San Filippo Neri durante le persecuzioni razziali. Nacque dall’impegno degli Amici di Don Orione che, con il patrocinio di Mons. G.B. Montini, promossero un “voto” della città di Roma di erigere il monumento alla Madonna per ottenere la fine della guerra senza danni per la città. La statua fu collocata il 5 aprile 1953 sulla cima di Monte Mario, non senza contrasti: il liberale Cattani, assessore all’Urbanistica, protestò con le dimissioni. Oggi, superata ogni polemica, dal punto più alto della Città, in un verde festoso di pini secolari, Maria Salus Populi Romani sorride e veglia su Roma. Circa il voto e le vicende della statua, si veda Gaetano Piccinini, Roma tenne il respiro, Ed. Orionea, Palermo 1956. Giuliano Malizia, Le statue di Roma. Storia, aneddoti, curiosità, Newton Compton Editori, Roma 1996, pp. 55-57. Ad Arrigo Minerbi è dedicato un capitolo in Antonio Gaspari, Nascosti in convento. Incredibili storie di ebrei salvati dalla deportazione. Italia 1943-45, Prefazione di Liana Millu, Ancora, Milano 1998.
[2] Don Gaetano Piccinini (1904-1972), orfano raccolto da Don Orione nel terremoto della Marsica del 1915, fu preside del Collegio San Giorgio a Novi Ligure e del San Filippo Neri in Roma; direttore provinciale, aperse più di una decina di case nel centro-sud d’Italia; fu consigliere generale e animatore infaticabile degli Amici di Don Orione, e, infine, fondò la Don Orione Home di Boston, dove fece innalzare, a Orient Hills, un’identica copia della Madonna di Minerbi, col titolo di “Queen of the Univers”. Domenico Sparpaglione, Don Gaetano Piccinini fuoco divampante carità, “Messaggi di Don Orione” 8(1977) n. 38.
[3] Relazione tenuta al Convegno di Sanremo “Don Orione e la vocazione laicale 2”, 6 maggio 2000.
[4] Don Luigi Orione, Lettere, Volume II, Piccola Opera della Divina Provvidenza, Roma 1969, p. 343.
[5] Giuseppe De Luca, Elogio di Don Orione con altri scritti e commenti su di lui. Introduzione e cura di Giovanni Marchi. Presentazione e Appendice di Loris Capovilla, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1999, p. 76.
[6] Un commento magistrale sul tema del “coraggio del bene” fu dato dall’allora sostituto della Segreteria di Stato, Mons. Giovanni Battista Montini, poi Paolo VI, in un discorso tenuto il 12 marzo 1944, a Roma, agli Amici di Don Orione raccolti nella chiesa di Santa Caterina per l’adempimento del voto a Maria “Salus Populi Romani” che poi portò all’innalzamento della grande statua della Madonna su Monte Mario. Disse tra l’altro: «Bisogna avere, come ebbe Don Orione, il senso invadente dell’azione provvidenziale di Dio. Dio non rinuncia mai all’azione. Don Orione lo sapeva ed è questo il segreto del suo ottimismo, della sua audacia, della sua ingenua temerarietà, con la quale andava incontro all’imprevisto con una sicurezza che agli ignari sembrava follia. Il coraggio di fare il bene si fonda sulla certezza dell’aiuto divino. Don Orione sapeva che, dove arde la Fede, il successo non può mancare. Per questo nelle prove a volte tremende, che afflissero la sua nobile anima, non vacillò mai. E dagli stessi colpi della disavventura, come dall’urto del martello sul ferro, scaturì più viva la luce che illuminò la sua vita dedicata al bene e all’amore del prossimo», La c’è la Provvidenza! Nove discorsi del Card. Montini agli amici di Don Orione, Ed. Don Orione, Milano 1964, p. 9.
[7] È stato scritto abbastanza sull’impegno sociale di Don Orione, come ad esempio nelle biografie di Douglas Hyde e di Giorgio Papasogli. Fin dagl’inizi del Novecento, Don Orione s’impegnò a promuovere le Unioni popolari, che dipendevano dal Vescovo della propria diocesi, a suscitarne ovunque si fermasse nei suoi viaggi dal Piemonte alla Sicilia e a incoraggiare i sacerdoti affinché le istituissero nelle proprie parrocchie, aiutandosi a vicenda. Si appassionò in particolare al problema delle mondine, le lavoratrici più sfruttate e più a rischio di malattie, che perdevano spesso non solo la salute ma perfino la vita, scrivendo per loro un proclama su La Val Staffora del 18 maggio 1919, che così cominciava: «Proletariato della risaia, in piedi! Un orizzonte nuovo si schiude, una coscienza sociale nuova si va elaborando alla luce di quella civiltà cristiana, progressiva sempre, che è fiore di Vangelo. […] Noi cattolici, e come tali e come cittadini, ingaggeremo quest’anno la battaglia per le otto ore in risaia. Non lasciatevi sfruttare dal caporalato; non lasciatevi intimidire dalle minacce dei padroni; non prestatevi a certe manovre, che riescono sempre a danno vostro. E occorrendo, legalmente sì, ma insorgete». Cfr. Giorgio Papasogli, Vita di Don Orione, Gribaudi, Milano 1994, pp. 294-295; Don Luigi Orione, Nel nome della Divina Provvidenza. Le più belle pagine, Ed. Piemme, Casale Monferrato 1997, pp. 32-34.
[8] Il Beato Don Orione, in una lettera a Don Carlo Pensa del 3 agosto 1920, a proposito dell’educazione dei giovani, si esprimeva così: «I tempi corrono velocemente e sono alquanto cambiati, e noi in tutto ciò che non tocca la dottrina, la vita cristiana e della Chiesa, dobbiamo andare e camminare alla testa dei tempi e dei popoli, e non alla coda, e non farci trascinare. Per poter tirare e portare la gioventù alla Chiesa e a Cristo bisogna camminare alla testa. Allora toglieremo l’abisso che si va facendo tra il popolo e Dio, tra il popolo e la Chiesa». Cfr. Lettere, cit., vol. I, p. 251.
[9] Significativo di questo sentire e agire sociale fondato sulla contemplazione della storia aperta ai superiori progetti e interventi risolutori della Divina Provvidenza è un brano di Don Orione scritto in occasione della Pasqua del 1936. Prendendo lo spunto dal grandioso omaggio di fede a Cristo cui partecipò nel Congresso Eucaristico di Buenos Aires, Don Orione scrive profeticamente: «Ecco Gesù che avanza al grido angoscioso dei popoli. Cristo viene portando sul suo cuore la Chiesa e nelle sue mani le lacrime dei poveri, la causa degli afflitti, degli oppressi, delle vedove, degli orfani, degli umili, dei reietti. E dietro a Cristo si aprono nuovi cieli: è come l’aurora del trionfo di Dio, sono genti nuove, nuove conquiste, è tutto un trionfo non più visto di grande, di universale carità; poiché l’ultimo a vincere è Lui, Cristo, e Cristo vince nella carità e nella misericordia». Cfr. Lettere, cit., vol. II, pp. 337-338.