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Messaggi Don Orione
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Pubblicato in: MESSAGGI DI DON ORIONE n. 104, anno 33, 2001, p. 5-24.

Cosa intendeva San Paolo con questa espressione? Quale lettura spirituale e apostolica ne fece Don Orione? L’Autore offre preziosi elementi per l’espressione che Don Orione scelse come rappresentativa del suo progetto carismatico.

“COME STRACCI”.

L’OBBEDIENZA SACRIFICALE NELLA SPIRITUALITÀ DI DON ORIONE

Maria Alicja Kedziora, psmc

 

Il termine straccio, appartiene al tipico vocabolario di Don Orione. Può essere considerato la sintesi plastica della sua spiritualità circa l’obbedienza. Non è solo un vocabolo strano: esso indica lo stile di vita proprio dei suoi discepoli; invita a abbandonarsi nelle mani di Dio, a lasciarsi guidare, portare e maneggiare dalle mani della Divina Provvidenza e dei superiori; a essere disponibili per qualsiasi servizio, anche il più umile, e saper assumere, se viene richiesto, grandi responsabilità senza perdere la piccolezza; a saper accettare in tutto le contrarietà della vita con lo spirito di fede e di amore.

Questo atteggiamento fu vissuto da Don Orione sin dai primi anni della sua vita. Nel 1904, sentendosi messo alla prova, conferma al suo Vescovo la fedeltà ed il consenso ad essere adoperato secondo la volontà di Dio: “Vi ripeto in ginocchio che, abbandonato nelle mani di Dio, non ebbi altra volontà e desiderio che di non venire meno alla santa vocazione e allo spirito dell’Istituto, che Voi avete benedetto e approvato... Voglio essere come una massa di sostanza senza resistenza, che la possiate mettere o voltare dove volete e in mano vostra come un bacchettino che lo possiate girare come Dio vi ispira e porlo dove vi pare e romperlo come vi pare...[1].

Dello straccio si potrebbe parlare da diverse angolature: nelle seguenti pagine si prenderà in considerazione la parola straccio soprattutto nella sua dimensione di obbedienza sull’esempio di Cristo che unito amorosamente con la volontà del Padre, si è consegnato liberamente per la salvezza dell’umanità.

Don Orione, “una vita fatta olocausto”. Tralasciando ogni riferimento biografico, ci basta qui richiamare come Don Orione stesso abbia svelato il segreto della sua vita quando, scrivendo ad una mamma che voleva affidargli il figlio, disse: “Le mie regole voi non le conoscete, ma voi conoscete la mia vita e il fine per cui lavoro: niente per me, tutto per Dio e la santa Chiesa romana, e qualunque sacrificio per farmi santo e salvare e consolare le anime dei miei fratelli. Un cuore senza confini perché dilatato dalla carità del mio Dio Gesù crocifisso: io sono niente, tutto è Gesù e la volontà dei superiori”[2].

           È risaputo, perché Don Orione ne ha parlato tante volte, che la simbologia dello straccio gli si fissò nell’animo dopo l’incontro con la Serva di Dio, Suor Benedetta Frey, una monaca cistercense di Viterbo, costretta a letto per 52 anni da una grave malattia.[3] “Ho conosciuto una santa monaca... andai a Viterbo un giorno e, siccome abitava lì, andai a lei a celebrare la Santa Messa... Quando stavo per venire via mi disse: ‘Quando lei fonderà un monastero di monache dirà loro così: ch’io lascio loro questo ricordo: Dirà loro che si lascino usare come stracci... dica loro - mi disse quella monaca - che procurino di essere veramente come stracci, e la benedizione di Dio sarà con loro”.[4]

Quando Don Orione, il 29 giugno 1915, diede inizio alla sua congregazione femminile, le Piccole Suore Missionarie della Carità, affidò fin dai primi giorni, la simbologia dello straccio come riassunto di alcune idee formative fondamentali: l’esercizio dello spirito di umiltà, del sacrificio e dell’obbedienza.

A colei, che poi diventerà la prima superiora, già nel 1914 scriveva: “Credo che nostro Signore farà di V. Signoria una santa religiosa... Lei cerchi di essere solo uno straccio nelle mani del Signore: uno straccione nelle mani di Gesù”[5].

Nel 1917 raccomandava alle suore del nuovo Istituto: “Chi intende restare qui deve menare una vita santa, una vita veramente religiosa, vita di umiltà, di carità, di povertà, di abnegazione, di obbedienza... Sì, obbedienza, affinché quelle anime, che Nostro Signore conduce qui, trovino delle vere sorelle, animate da buono spirito, dalla carità di Cristo come hanno diritto di trovare[6].

Il termine straccio, usato da Don Orione, è soprattutto simbolo dell’obbedienza docile, confidente, disponibile[7]. Tale termine non ha nulla di offensivo e di umiliante[8] ed infatti, il Fondatore lo usava anche come titolo e ideale nei propri confronti. Poi, il medesimo atteggiamento di vita, come stracci, quasi per naturale partecipazione, Don Orione lo proponeva a tutti i suoi seguaci. [9]

Ad una giovane di Venezia, che voleva consacrarsi a Dio, Don Orione rispose in modo esigente: “Se sapessi che avete stoffa per diventare una buona stracciona della Div. Prov.za, vi accetterei senz’altro, e magari vi manderei dopo 24 ore a spargere la carità di Nostro Signore Gesù Cristo...”[10].

Ad un giovane che desiderava seguirlo nella Piccola Opera della Divina Provvidenza: “Se ti piace essere uno straccio di Dio, uno straccio sotto i piedi di Dio, sotto i piedi immacolati della Madonna SS.: se ti piace essere uno straccio sotto i piedi benedetti della Santa Madre Chiesa e nelle mani dei tuoi Superiori: questo è il tuo posto. Noi siamo e vogliamo essere nulla più che poveri stracci: si tratta in una parola, e uscendo della metafora, del sacrificio totale di te stesso e nell’esterno e nella vita interiore, sacrificio e d’intelletto e di raziocinio e di tutto te stesso. Va avanti alla Madonna, mettiti come uno straccio, di più, come un figlio, ma bambino nelle Sue mani, e poi decidi come se fossi in punto di morte e avrai deciso bene”[11].

 

L’espressione “straccio sotto i piedi…nelle mani”, indica il “sacrificio totale di se stesso”, cioè l’obbedienza, l’assoluta e libera disponibilità nelle mani di Dio, il quale si serve delle tante mani umane per chiamare e guidare alla collaborazione il suo servo obbediente. Altri significati dello straccio, come povertà, umiltà, adattamento, ecc. sono importanti, ma derivati e complementari, rispetto a quello della obbedienza[12].

Ma per capire a pieno il ricco significato della simbologia dello straccio, occorre rifarsi, come fece Don Orione, al vissuto sacrificale dell’unico modello perfetto, quale è Gesù, Servo di Jahvé, Cristo Crocifisso. Solo in questa contemplazione si potrà capire il senso, il contenuto e lo stile dell’obbedienza, sempre e unicamente come partecipazione al sacrificio redentivo di Cristo.

 

Obbedienza, atteggiamento centrale di Cristo redentore

La vita cristiana implica una partecipazione al mistero di Cristo, un graduale cammino per poter realizzare pienamente quello che scriveva Paolo nella lettera ai Galati: “Vivo io, ma non son più io che vivo, è il Cristo che vive in me” (2,20). Don Orione, come ogni santo, è in qualche modo testimone verace di questa affermazione. È sempre il Cristo che Don Orione ha vissuto. La centralità di Cristo nella sua spiritualità è più che esplicita. Il primo fine delle Congregazioni è l’amore per Cristo, e in esso si radica l’amore per la Chiesa, per il Papa e per i poveri.

“Miei Figli, viviamo in Gesù! Perduti nel suo Cuore, affocati d’amore, piccoli, piccoli, piccoli: semplici, umili, dolci. Viviamo di Gesù! Come bambini tra le sue braccia e sul suo Cuore, santi e irreprensibili sotto il suo sguardo, inabissati nell’amore di Gesù e delle anime, in fedeltà e obbedienza senza limiti a Lui e alla sua Chiesa. Viviamo per Gesù! Tutti e tutto per Gesù; niente fuori di Gesù; niente che non sia Gesù, che non porti a Gesù, che non respiri a Gesù! In modo degno della vocazione che abbiamo ricevuta, modellati sulla sua Croce, al suo sacrificio, sulla sua obbedienza usque ad mortem in oblazione e totale olocausto di noi stessi, qual profumo d’odore soave. O Gesù, aprici il tuo Cuore: lasciaci entrare, o Gesù, che solo nel tuo Cuore potremo comprendere qualche cosa di quello che Tu sei, potremo sentire la tua carità e misericordia, comprendere e amare anche noi il sacrificio e quella santa obbedienza, per cui Ti sei sacrificato”[13].

In queste parole di Don Orione si percepisce un grande desiderio di totale imitazione e trasformazione in Cristo, cioè di “vivere Gesù”. La trasformazione in Cristo e l’unione con lui implicano la medesima vita di Gesù in noi: è il Cristo che vivrà ed amerà in noi. Si ha in tal modo una partecipazione nel suo medesimo amore, nella sua povertà, nel suo sacrificio totale, nella sua obbedienza usque ad mortem. Soltanto grazie all’unione d’amore con Cristo è possibile lasciarsi adoperare “come stracci” nelle mani della Divina Provvidenza. È indispensabile meditare il sacrificio totale di Gesù Cristo, il suo diventare “straccio”, come vissuto e descritto nelle pagine della Bibbia.

Gesù, in quanto Servo di Dio, è presentato quale prototipo del servizio (Mc 10,45), dell’abnegazione (Fil 2,5-11), della libera scelta in risposta alla volontà di Dio, della sofferenza volontaria e innocente per la salvezza del mondo (1 Pt 2,21-25). Il fatto che i primi cristani attribuissero a Gesù la profezia del Servo di Jahvé, “agnello senza voce” (Is 53,7; cf. At 8,32-33), spinge a riflettere più a lungo per scoprire il fondamento ultimo e il segreto dell’obbedienza sacrificale di Gesù.

Nel racconto riferito alla Passione di Cristo si ripete spesso il verbo paradidónai (consegnare), il quale si usa ordinariamente per disegnare un oggetto che passa da una mano ad altra, un oggetto meramente passivo, inanimato, che si può prendere e maneggiare[14]. In modo simile è stato trattato Gesù e ciò impressionò molto la prima comunità cristiana[15].

La vita di Gesù è permeata dall’atteggiamento amoroso di obbedienza filiale verso il Padre. Questa vita dedicata alla ricerca e al compimento della volontà di Dio si concentra tutta nella Passione, momento in cui “la disponibilità di Cristo raggiunge l’apice sulla croce” costituendo il nucleo essenziale dell’opera di redenzione. Questo estremo gesto di amore si rivela e viene celebrato nell’Eucarestia, che sempre è stata vissuta come il “memoriale del sacrificio del Calvario”.

Gesù Cristo oggi compie la sua kènosìs nascosto nell’Eucarestia. La sua presenza e il suo silenzio si possono considerare come prolungamento della fedeltà a Dio Padre e agli uomini.

 

Obbedienza come partecipazione al sacrificio redentivo di Cristo

Il senso cristiano dell’obbedienza scaturisce dal mistero dell’obbedienza di Cristo; è penetrazione ed accettazione del mistero di Cristo, il quale mediante l’obbedienza, ci ha salvati; è continuazione ed imitazione del suo gesto fondamentale: il “si” alla volontà del Padre. Don Orione voleva che si tendesse a quest’atteggiamento in modo radicale: “Obbedienza sull’esempio del divin Salvatore, che la praticò anche nelle cose più difficili, fino alla crocifissione[16].

La fiamma interiore di Don Orione, espressa nell’obbedienza, abbracciava due oggetti della carità cristiana: Dio e le anime, come evidenzia uno dei suoi più famosi scritti: “Amare in tutti Cristo; servire a Cristo nei poveri; rinnovare in noi Cristo e tutto restaurare in Cristo; salvare sempre, salvare tutti, salvare a costo di ogni sacrificio con passione redentrice e con olocausto redentore[17]. L’obbedienza di Don Orione si comprende solo a partire da questa fiamma interiore, da questa scelta che viene collocata in un contesto più ampio e che nel suo senso più profondo perché tende ad Instaurare tutto in Cristo.

L’ascolto e il compimento del volere di Dio diventano forma eccellente per rendergli culto nell’umiltà e nella libertà del proprio cuore. Dare culto, in prospettiva cristiana e religiosa, significa, soprattutto, accedere alla comunione di intenti con Dio in Cristo, glorificare il Padre compiendo l’opera preparata nel disegno divino come ha fatto Gesù: “Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare” (Gv 17,4).

L’espressione “come io vi ho amato” contiene in sé tutta la radicalità del vissuto di Gesù che culmina nel consegnarsi liberamente per amore al Padre e per la salvezza delle anime[18].

Grazie a questa unione con Gesù, l’Apostolo viene reso capace di intendere il nucleo del piano divino della salvezza: “ Egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà... il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose” (Ef 1, 9-10). Il riferimento all’espressione paolina Instaurare omnia in Christo è molto illuminante per capire il senso dell’obbedienza sacrificale (straccio) nella spiritualità di Don Orione.[19]

La visione apostolico-salvifica di Don Orione, ampia e magnanime, è accompagnata da una profonda umiltà: sentirsi strumento nelle mani di Dio. Divo Barsotti afferma: “L’umiltà di don Orione diviene la condizione di non poter scegliere meno di quello che ha scelto Dio. Non è presunzione. È che, liberandosi da ogni orgoglio, liberandosi da ogni amor proprio, egli identificava la sua volontà con la volontà stessa di Dio che vuole questa salvezza universale”[20]. Don Orione era consapevole del fatto che, prima di tutto, lui stesso e i membri della sua Congregazione devono essere rinnovati e conformati a Cristo Crocifisso: “L’Instaurare omnia in Christo, che fu il grido dell’apostolo S. Paolo - ed è il programma della nostra Congregazione -, dobbiamo cominciare da noi ad applicarlo; prima rinnovare noi in Cristo, per poi rinnovare gli altri: Non rinnoveremo gli altri in Cristo, se prima in Cristo non avremo rinnovato noi stessi nel suo santo amore, e con la sua grazia, che certo non mancherà”[21].

Questa scelta implica un prezzo molto alto: la consegna incondizionata di sé stesso per amore, l’abnegazione che è “l’altro volto dell’amore”. L’abnegazione non è una virtù, bensì una disposizione dell’animo umano contrario all’egoismo o all’amor proprio disordinato. Si tratta di rinnegare se stessi quando l’egoismo impedisce di amare pienamente. Nella misura in cui la persona è conquistata interiormente dall’amore di Dio, vince le resistenze e riesce a uniformarsi ogni volta più con la volontà salvifica di Dio.

“La nostra obbedienza sia fervorosa, non languida; sia, il nostro, un olocausto grato a Dio, bello, perfetto, santo: disposti piuttosto a morire che a disobbedire. I Figli della Divina Provvidenza devono anelare e ardere d’esser vittima con Cristo Signore: d’essere sacrificio e, direi, ostia monda fino alla morte: e ciò che quotidianamente ci deve immolare, più che ferro dell’obbedienza di Isacco, sia la Croce santa di Cristo”.[22]

 

Obbedienza come amore al prossimo.

Di pari passo con l’obbedienza come culto di Dio va l’atteggiamento di servizio al prossimo, quale espressione dell’amore del Figlio di Dio, il quale “non venne per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). Un grande esempio della semplicità e dell’umiltà di Gesù è la lavanda dei piedi (Gv 13,14-15). Gesù è diventato il Servo rinnegando se stesso, umiliandosi, e diventando ubbidiente fino alla morte in croce. Lo fece volontariamente per noi a causa del suo amore (Gal 2,20). Pertanto Paolo vuol considerare la propria vita e la sua chiamata di apostolo come quella di “uno schiavo di Cristo Gesù” (Rm 1,1). Esorta i cristiani ad essere schiavi l’uno dell’altro (Gal 5,1.13-15). Ecco il paradosso: siete stati liberati, dunque diventate schiavi per amore. La nostra libertà non è una libertà liberata dal servizio e dall’amore, ma è una libertà responsabile che ottiene la sua perfezione nell’imitazione di Cristo[23].

E’ all’imitazione di Cristo che Don Orione modella lo stile di vita proprio e dei discepoli: “servire negli uomini il Figlio dell’uomo”[24]. La carità è il filo conduttore dell’esistenza di Don Orione. Da Gesù crocifisso egli ascoltò il grido “Sitio! Terribile grido di arsura, che non è della carne, ma è grido di sete di anime”; di conseguenza, “la perfetta letizia non può essere che nella perfetta dedizione di sé a Dio e agli uomini, a tutti gli uomini”.[25]

L’orizzonte dell’Instaurare omnia in Christo illumina costantemente la vita di Don Orione urgendolo ad essere “servo dei servi”, “lo stolto della carità” per condurre le anime a Cristo, alla Chiesa e al Papa: “Lo splendore e l’ardore divino non m’incenerisce, ma mi tempra, mi purifica e sublima e mi dilata il cuore, così che vorrei stringere nelle mie piccole braccia umane tutte le creature per portarle a Dio. E vorrei farmi cibo spirituale per i miei fratelli che hanno fame e sete di verità e di Dio; vorrei vestire di Dio gli ignudi, dare la luce di Dio ai ciechi e ai bramosi di maggior luce, aprire i cuori alle innumerevoli miserie umane e farmi servo dei servi distribuendo la mia vita ai più indigenti e derelitti, vorrei diventare lo stolto di Cristo e vivere e morire della stoltezza della carità per i miei fratelli!”[26]

Il senso della consacrazione religiosa e del contenuto dell’obbedienza consiste proprio in questo: donazione di sé e di tutta la vita per amore, come partecipazione specifica e concreta alla missione di Cristo. Il consacrato si converte in uno strumento nelle mani di Dio mediante l’obbedienza[27]. Essendo un inviato per la missione salvifica, tutto il suo potere e la sua efficacia gli vengono da Colui che lo invia. Sono propri dell‘inviato la docilità, la maneggiabilità e la disponibilità totale della persona,[28] con i suoi talenti, la sua libertà, con il suo tempo e la sua capacità di amare. Tanto meglio compie la propria missione quanto meno porrà resistenza all’azione della grazia, rendendosi agibile e flessibile strumento nelle mani di Dio.

 

LO STILE DELL’OBBEDIENZA

Dopo aver cercato qualcosa del senso e il contenuto dell’obbedienza sacrificale nel contesto della parola straccio, ricerchiamo quali ne siano lo stile e gli atteggiamenti caratteristici propri.

Filiale

“Avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!” Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio e coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8,14-17).

I figli adottivi del Padre, figli nel Figlio, non si concentrano tanto sul sacrificio della volontà e sul rinnegamento di se stessi, ma tendono a scoprire la grandezza e la bellezza della volontà del Padre, a riconoscerla come buona; aderiscono con tutto il proprio essere ad essa tanto da cercare che la propria volontà si identifichi sempre più con la Sua[29].

Don Orione, con il suo insegnamento, ha fortemente accentuato l’importanza di questa verità e con l’esempio del filiale abbandono a Dio formava i suoi seguaci. Spesso ripeteva: “I Figli della Divina Provvidenza devono essere figli dell’obbedienza: o non sono veri figli della Divina Provvidenza”[30]. Dopo che a Dio, lo spirito filiale è rivolto alla Chiesa, al Papa, ai vescovi: “...e nessuno mai ci vinca nell’obbedienza filiale, nell’ossequio e nell’amore al Papa e ai Vescovi, che lo Spirito Santo ha posto a governare la Chiesa di Dio.”[31]

Raccontando dei suoi voti emessi davanti a Pio X, Don Orione scrive: “Ma, più ancora, ho desiderato rinnovarli là, i santi voti, perché intendevo così liberissimamente darmi tutto, e come legato mani e piedi, mente e cuore e volontà, da vero e dolce prigioniero d’amore, nelle mani della Santa Chiesa; intendevo starmene, vivo e morto, legato ai piedi della Chiesa, ai voleri e desideri della Chiesa: e, come di me, per divina grazia, così ho inteso sia di voi tutti, o miei cari figli nel Signore, e dell’Istituto della Divina Provvidenza: o che esso non sia!”[32].

Don Orione era convinto che il suo amore filiale era causa della benedizione divina: “Questo è il segreto per cui Dio benedice i miei poveri passi e il modesto mio lavoro a pro degli orfani e della gioventù derelitta: perché mi sono sempre messo ai piedi dei Vescovi, che lo Spirito santo ha posto a governare la sua Chiesa, e per la grazia e misericordia di Dio, nulla ho fatto se non stando sempre spiritualmente in ginocchio da figlio piccolo, ubbidiente e fedele ai piedi dei Vescovi, del Santo Padre e della santa Chiesa di Gesù Cristo”.[33]

Con questo linguaggio mai Don Orione indica o approva una pura soggezione[34]oppure un’obbedienza per timore e pertanto servile. Nel discorso pronunciato 12 agosto 1939 critica esplicitamente l’atteggiamento del religioso-“servo” mentre loda il comportamento del religioso - “figlio”: “Vi sono due tipi diversi di religiosi: vi è il religioso-servo e vi è il religioso-figlio... Il religioso-servo ubbidisce solo con timore e per timore... lavora con indifferenza e malavoglia... tiene sempre il cuore chiuso... Il religioso-figlio niente ha di più caro, dopo Dio, che la sua Congregazione! E’ contento di servire, con amore, in qualsiasi ufficio... è come libro aperto ai superiori, in cui si può leggere quando si vuole... Che nessuno di voi sia “servo” o parassita, ma tutti “figli”, veri Figli della Divina Provvidenza”.[35]

L’obbedienza filiale al Padre si incarna sacramentalmente nell’obbedienza alla “Santa Madre Chiesa”: “I Figli della Divina provvidenza vogliono essere tutta cosa del Papa, dei Vescovi e della Chiesa: stracci, servitori e figli obbedientissimi”.[36]

“Prima di tutto, siamo e vogliamo essere figli, soldati, stracci della Santa Chiesa...”.[37]

“Viviamo da umili da pii, da buoni Religiosi e la Divina Provvidenza si servirà di noi, suoi stracci e suoi figli per la gloria di Dio...”.[38]

Il religioso-figlio trasforma l’ordine in volontà personale, perché sa, nella fede, che l’obbedienza per lui è un mezzo per la comunione con il Padre. Solo letta in questo modo l’obbedienza può essere veramente la fonte della libertà dei figli di Dio[39].

 

Piccoli, umili, poveri

L’obbedienza di figlio esige un’adesione totale e un umile abbandono al volere del Padre che sa meglio di noi di che cosa abbiamo bisogno. Non tutti però, sono capaci di comprendere il pensiero e le vie del Signore. È una grazia data dal Padre ai piccoli, ai poveri in spirito (Mt 5,3), e valorizzata molto da Gesù (Mt 11,25). Dio predilige quelli che sono poveri e umili come Maria di Nazaret.

Gesù è venuto come bambino, si è assoggettato completamente alle cure degli adulti e volle vivere in una spoliazione estrema (Fil 2,6-11). Così ha dimostrato il suo amore, spinto fino alla follia. Gesù, povero e spogliato di tutto, ci precede nel nostro cammino di rinuncia e di spoliazione vera e autentica.

La povertà, l’umiltà, e la semplicità erano molto care a Don Orione, il quale diceva che bisogna “incarnare” in noi la vita dei più poveri ad imitazione di Gesù Cristo[40]. La povertà, la semplicità[41] e la vita sacrificata accrescono la fortezza nel donarsi a Dio e al prossimo: “Se la Congregazione non sarà educata a questo spirito di pieno sacrificio e di piena morte di se stessi per la vita delle anime e per la causa della Chiesa santa di Dio, la nostra Congregazione rimarrà sempre bambina, e non raggiungerà il suo scopo.[42]. Il nostro amore per i poveri deve essere umile poiché in essi noi ricambiamo Dio stesso che “da ricco che era si è fatto povero, affinché noi diventassimo ricchi” (2 Cor 8,9)[43].

“Nostra divisa sia l’umiltà e la carità: è la divisa di Gesù Cristo, della Santissima Vergine e della Santa Chiesa: sia la nostra divisa....Noi siamo nulla, siamo nulla; ma la cognizione del nostro nulla e la cognizione di Dio, la fede e la fiducia piena in Dio, ci daranno una vita superiore, un aiuto, un coraggio, una grazia da diventare, nella mano di Dio e della Chiesa, dei santi e degli apostoli”.[44]

La crescita della fede avviene per mezzo dello spogliamento di sé, del sentirsi “nulla”, senza l’illusoria immagine di se stessi, senza i sistemi delle sicurezze umane. Il fatto di sentirsi giusti e forti crea una distanza con i destinatari del servizio, cioè i poveri e i peccatori.

“Quanto più ci abbassiamo, tanto più ci accostiamo alla verità -, perché la umiltà sapete in che cosa consiste...? Consiste nel non attribuire a noi stessi quello che appartiene al solo Dio o agli altri; di modo che umiltà non è altro che giustizia e verità... Essere umile è credere alla verità, credere alla nostra imperfezione, credere alla potenza della grazia di che ci perfeziona. Riconoscendo il nostro nulla diamo gloria a Dio”.[45]

La persona quando si sente debole si rende conto di non potersi fidare di sé e delle proprie forze. É allora che le è data l’opportunità di orientarsi verso Dio e appoggiarsi su di lui. L’uomo cosciente del suo stato di peccatore comprende meglio degli altri, si china con rispetto su ogni persona, l’abbraccia e la porta a Cristo. Essere straccio vuol dire avere proprio quest’atteggiamento di umiltà, sentirsi bisognosi di grazia, di perdono, dell’aiuto di qualcuno; insomma, è uno stile di vita dimesso, povero da non far sfigurare e non far restare a disagio i poveri.[46] Questa forma di vita è un “tendere alla santità per la via più stretta”,[47] che si percorre nella libertà e responsabilità dei figli di Dio.


Intraprendente, attiva, intelligente

La sequela di Gesù esige una continua vigilanza e la capacità di comprendere il volere di Dio per eseguirlo nella libertà e con saggezza come dice S. Paolo: “Non siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere la volontà di Dio” (Ef 5,15-17). L’obbedienza indirizza la persona verso la disponibilità ed apertura ai bisogni dei tempi. L’obbedienza esige persone mature, coraggiose e intraprendenti che, attraverso il discernimento, sappiano dare risposte significative come desiderava Don Orione: “Non voglio dei presuntuosi, ma non voglio neanche dei conigli..., non voglio neanche gente fiacca; piccola di testa e di cuore, priva di ogni sana, moderna, necessaria e buona iniziativa, priva del necessario coraggio! Ci vuole un illuminato spirito di intrapresa, se no certe opere non si fanno; la vostra diventa una stasi, non è più vita d’apostolato, ma è lenta morte o fossilizzazione!”.[48]

Nell’attività di Don Orione è molto chiara la relazione profonda tra la sua vita spirituale e l’attività caritativa.[49] La carità lo spingeva ad andare oltre l’agire tradizionale dei suoi tempi. L’apertura di mente e di cuore, l’ascolto della coscienza illuminata dall’amore stavano alla base delle sue scelte coraggiose: contatti con persone diversissime e talvolta sospette;[50] la fittissima corrispondenza, la rete di amicizie, i colloqui richiesti e offerti senza risparmio di tempo e di fatica, gli incontri con persone ufficialmente sgradite; recupero di lontani, il dialogo con eretici, apostati, massoni, atei... È tutta una storia di bene, di carità che comprende ogni male, che non si scoraggia anche nei momenti di critica e d’incomprensione anche da parte della gerarchia della Chiesa.[51]

La carità di Don Orione era molto creativa, l’obbedienza era molto attiva e intraprendente. E’ emblematico, al riguardo, l’atteggiamento assunto da Don Orione in merito alle vicende “tormentate” sviluppatesi attorno a Padre Pio da Pietrelcina. [52] Intervenne presso le massime Autorità della Chiesa perché fosse riconosciuta l’onestà e la santità di Padre Pio; sostenne quanti difendevano il Cappuccino ma ne fermò il progetto del libro ricattatorio e scandaloso. Don Orione “si fece in quattro” per conciliare amore alla verità e amore alla Chiesa in una situazione che pareva inestricabile e, come si confida ad un alto ecclesiastico dopo aver detto francamente la sua parola, “in qualunque modo, mi tengo a disposizione in Domino, come uno straccio”.[53]

Guardando a questa e a tante altre vicende di cui Don Orione fu protagonista, viene da chiedersi: la sua franchezza anche di fronte alle autorità della Chiesa, il suo agire “santamente libero”, la sua intraprendenza ed “evangelizzazione fuori sacrestia”, come si possono conciliare con l’obbedienza-dipendenza, col suo essere straccio nelle mani della Divina Provvidenza e della Chiesa? L’obbedienza cieca[54] è ancora una virtù?

Una spiegazione banale di questa espressione ha contribuito non poco a caricaturizzarla e a considerarla disumana e assurda. Si afferma che l’obbedienza cieca è irrazionale, che spinge l’uomo a procedere in modo automatico e non libero. Una cosa che si può dire è, che l’obbedienza cieca non è, in effetti, cieca, perché essa non chiude gli occhi a tutte le ragioni, ma solo a quelle che possono ostacolare il compimento della volontà di Dio. E questo suppone precedentemente un esame della ragione, se sono valide le motivazioni e cosa è meglio fare alla luce della fede.[55] Questa è la ragione soprannaturale dell’obbedienza. Perciò in essa non c’è irrazionalità, ma piuttosto una gerarchia delle ragioni. La ragione soprannaturale occupa sempre il primo posto.

L’obbedienza “non è diminuzione o perdita della ragione e della libertà, ma l’uso più nobile e più saggio della libertà stessa, una vera liberazione di se stesso dal giogo del mondo e una padronanza delle proprie passioni. L’obbedienza è libero sacrificio e dono di sé ad una causa santa, alla causa della gloria di Dio: quindi, è espressione intelligente e libera della propria personalità”[56].


Lieta

Saper vivere con senso profondo il valore redentivo dell’obbedienza provoca una gioia interiore e una consolazione spirituale. È nel Nuovo Testamento che troviamo la dichiarazione della gioia nella sofferenza, o nella debolezza vista in termini di potenza di Dio “portata alla perfezione nella debolezza” (Mt 5,12; 2Cor 12,9). Così Paolo può dire: “Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione” (2 Cor 7,4) e ancora più esplicito: “E anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento, e ne godo con tutti voi. Allo stesso modo anche tutti voi godetene e rallegratevi con me” (Fil 2,17-18); “Siate sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1 Tes 5,16-19).

In simile modo Don Orione incoraggia: “E dico - con animo ilare - perché l’obbedienza ci deve rallegrare sempre, qualunque sacrificio essa importi: se l’obbedienza non ci rallegra, ma ci rattrista siamo ben lontani dalla perfezione”[57].

Poiché Dio ci ha dato la grazia di rivivere il sacrificio di Gesù Cristo e insieme con lui, abbiamo sempre motivo di gioire e ringraziare: “E sempre lieti in Domino, con gioia grande, diffondendo bontà e serenità su tutti i nostri passi e nel cuore di tutte le persone che incontriamo; sempre contenti...in ogni tribolazione, in ogni dolore, letizia grande, carità sempre e carità grande, sino al sacrificio; in ogni cosa, solo e sempre Cristo. Gesù Cristo e la Sua Chiesa, in olocausto di amore, in odore dolcissimo di soavità”[58]

È ben conosciuto il saluto “Deo gratias!”, usato abitualmente da Don Orione e nelle sue case, come sentimento di serenità e confidenza in Dio.[59] La gioia dell’appartenenza a Dio è incomparabile frutto dello Spirito Santo (Gal 5,22) dato da assaporare a chi si dona al Regno senza riserve. Giovanni Paolo II incoraggia: “Animati da questa gioia, che Cristo vi conserverà anche in mezzo alle prove, sappiate guardare con fiducia all’avvenire. Nella misura in cui si irradierà dalle vostre comunità, questa gioia sarà per tutti la prova che, lo stato di vita da voi scelto vi aiuta, attraverso la triplice rinuncia della vostra professione religiosa, a realizzare la massima espansione della vostra vita nel Cristo”[60].


Conclusione

In questo studio ho cercato una migliore conoscenza di un aspetto specifico dell’ispirazione originaria di Don Orione, cioè del lasciarsi maneggiare come stracci nelle mani di Dio. E’ stata una gioia scoprire la bellezza dell’ispirazione carismatica di Don Orione. Sono convinta che nell’obbedienza come stracci ci sia un’indicazione decisiva per realizzare meglio il disegno di Dio dell’Instaurare omnia in Christo.

La mia intenzione, fin dall’inizio dello studio, non era quella di entrare nei particolari dell’obbedienza e dei rapporti fra i membri della comunità. Penso che ciò sia una conseguenza della prima opzione fondamentale, cioè “vivere Cristo” autenticamente. Questo sta alla base del “libero dono”, della “consegna” amorosa nelle mani di Dio e dei superiori. Lo straccio si può comprendere solamente alla luce del “vivere Cristo”, e solo in tale modo esso può servire alla realizzazione del disegno di Dio. Una vita veramente cristiforme è una vita umile e docile che diventa come una massa di sostanza senza resistenza che si può modellare e usare così, come uno straccio, o come un vasaio plasma l’argilla.

 


L’Autrice è una Piccola Suora Missionaria della Carità polacca. L’articolo è un estratto della sua tesi di licenza in Teologia con specializzazione in Spiritualità presentata presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma nel 2000.

[1] G. Papasogli,Vita di Don Orione, Gribaudi, Milano 1994, p. 157.

[2] Gli scritti di don Orione, 102, 32 (d’ora in poi Scr.), Archivio della Direzione Generale, via Etruria, 6 - Roma.

[3] Suor Benedetta Frey, nata a Roma nel 1836, era entrata nel monastero delle Suore Cistercensi a Viterbo. Una grave malattia la costrinse a letto per 52 anni. In uno stato di paralisi non poteva neanche poggiare il capo sui guanciali a causa di acuti dolori, né poteva tenerlo eretto, perché gli ricadeva inerte sul petto con pericolo di soffocamento, perciò le si doveva sostenere la fronte con cordicelle e bende. Il male fisico era completato da quello morale. Fu arricchita da Dio con i doni della preveggenza, della guarigione, del discernimento degli spiriti. Lasciò il suo letto di dolori il 10 maggio 1913. Cf. F. Agostini, Croce lunga e provvidenza. La Serva di Dio Donna Benedetta Frey. Monaca professa dell’Ordine cistercense (1836-1913), Tip. Abbazia di Casamari (FR),Viterbo 1973.

[4] A. Lanza, Il beato Luigi Orione e Le Piccole Suore Missionarie della Carità, (1900-1940), Pro manoscritto, (Roma 1996), 32-33.

[5] Ibid., 42; Scr. 65, 114

[6] Ibid., 74; Par. I, 113

[7] La parola straccio viene riferita da Don Orione all’obbedienza nella sua dimensione più radicale, “ac cadaver”, come diceva S. Ignazio Loyola. Il 12 settembre 1919 durante gli esercizi spirituali alle suore, nella conferenza sull’obbedienza Don Orione allude al grande Fondatore con le parole: “Sant’Ignazio dice che si deve restare nelle mani del Superiore come un cadavere... vuole che i religiosi siano così, come i corpi morti, che si lasciano maneggiare come pare e piace e di cui si può fare ciò che si vuole” e, immediatamente fa riferimento all’incontro con monaca cistercense e alla parola straccio. Subito dopo continua: “La nostra obbedienza sia: pronta, intera, allegra... Il Signore non ama le cose date o fatte per forza... La vostra obbedienza sia allegra, non solo esternamente ma internamente... Obbedienza interna ed esterna, di cuore, di mente, di giudizio”; Parola I, 70.

[8] Cfr. G. Olivieri, Spiritualità della Suora Orionina nel contesto della parola “straccio”, (Tipografia San Giuseppe, Tortona 1977), 33. L’Autore si è limitato a raccogliere, cucire insieme e a trascrivere vari brani degli scritti e delle lettere di Don Orione affiancandoli con le sue annotazioni-riflessioni. Lui stesso si rende conto che il suo lavoro è molto frammentario e non dice ancora tutta la portata e la realtà del carisma orionino.

[9] La spiritualità dello straccio per Don Orione è una vita ascetica non per il solo ramo femminile, bensì per l’intera Congregazione. “La nostra è la Congregazione degli straccioni” scrisse a Don Cristoforo Sala il 21 giugno 1920 (Scr.103,136), cfr. A. Lanza, Una famiglia a lungo desiderata. La fondazione delle Piccole Suore Missionarie della carità, in Messaggi 89, (1995), 51.

[10] Ibid., 82; Scr. 65, p. 200 s.

[11] Scr. 42, 57-58.

[12] Cfr. F. Peloso, Una spiritualità dalle maniche rimboccate, in Messaggi 77 (1991), 46. Lo straccio è un simbolo che bisogna imparare a leggere. Ch. A. Bernard dimostra però, una grande utilità dei simboli nel campo della spiritualità: Teologia spirituale Ed. Paoline, Roma 1983, 193. Vedi anche il contributo dello stesso autore: Simboli spirituali in NDS, 1462-1479.

[13] L II, 154.

[14] Su questa parola e la sua applicazione riflette I. De La Potterie nell’articolo: La obediencia de Jesucristo: Fundamento y modelo de la obediencia cristiana, in Centrum Ignatium Spiritualitatis (CIS), vol. X, 31 (1979), 14 ss. e anche E. R. Martinez, Luca - Atti. Un viaggio spirituale, Ed. Pontificia Università Gregoriana, Roma 1999, p. 39ss.

[15] Il verbo si trova anche in alcuni passi che annunziano l’avvicinarsi della Passione: Mc 9,31, 10,33, 14,10, 14,41, 15,1, 15,15. Giovanni, in un’espressione unica, mai usata prima nel suo Vangelo, per descrivere la morte di Gesù, dice che chinato il capo, parédòken tò pneùma, “consegnò lo spirito” (19,30). Gesù aveva detto prima: “io sono il buon pastore...e la mia anima (vita) depongo/do (tìthèmi, dìdòmi) per le pecore..., per questo il Padre mi ama..., nessuno me la toglie, ma io la depongo (tìthèmi) da me stesso” (Gv 10,14-18)[15]. Questi dettagli servono a mostrare come il tema dell’adempimento della volontà di Dio trova la sua profonda espressione nel comportamento del Servo di Jahvé, il quale si rese disponibile fino ad essere immolato, ciò dimostra esplicitamente il vissuto radicale di Gesù Cristo. Secondo E. R. Martinez, o.c., si deve notare che Luca usa la parola “paradidònai” sia per la consegna dei cristiani (At 22,4; Lc 21,12.16) sia di Gesù (Lc 9,44). Questa parola deriva dal verbo “didònai” che significa “dare”. Il composto significa “consegnare”, e ha il senso tecnico di “consegnare qualcuno alle autorità”. Può avere il senso di “lasciare qualcuno indifeso e senza aiuto nelle mani dei suoi nemici” ed anche il senso di “tradire” che si usa spesso per Giuda.

[16]Da lettera del 6 gennaio 1935; L II,156ss.; SDO 4,39. Si veda il capitolo “Obbedienza di figli” in Sui passi di Don Orione. Progetto di formazione al carisma orionino, Ed. Dehoniane, Bologna 1976.

[17]Don Orione. Nel nome della Divina Provvidenza. Le più belle pagine, Ed. Piemme, Casale M. 1975 (I triangoli), pp. 183-184.

[18] Anche quando Don Orione parla usa la metafora dello straccio credo che voglia indicare essenzialmente proprio l’amare Dio rinunziando alla propria stima per mettersi, in unione con Cristo, a servizio di chi ne ha bisogno, facendo cioè “sacrificio totale di se stesso”.

[19] PC 14a; ET 27.

[20] Messaggi 75 (1990), 15-16 e D. Barsotti, Don Orione.Maestro di vita spirituale, Ed. Piemme, Casale M. 1999, p. 14.

[21] L II, 56.

[22] L II, 166.

[23] Cfr. E. Martinez, La vita cristiana e la spiritualità secondo San Paolo, Ed. Pontificia Università Gregoriana, Roma 2000, pp. 108-109.

[24]Nel nome..., 141.

[25] Nel nome .. , 134-137.

[26] Scr 100,187; Nel nome.., 109; Messaggi 65 (1987), 7.

[27] C. Palmés, Del discernimiento a la obediencia ignaciana, ( Ed Centrum Ignatianum Spiritualitatis, Roma 1988), 133-134.

[28] Infatti, si vede in Don Orione la piena consapevolezza della partecipazione attiva in questo compiersi del volere di Dio accompagnata con i sentimenti del “servo inutile” che solamente fa quello che deve fare in coscienza e senza presunzione: “Noi siamo stracci nelle mani del Signore, della Divina Provvidenza... noi siamo stracci nelle mani della Chiesa, al cui servizio noi unicamente siamo, con devozione piena e perpetua...Ve l’ho detto tante volte che noi siamo stracci di Dio e della Madonna, e la grazia e la fortuna è tutta nostra, se Essi si servono delle nostre miserie per fare qualche cosa di bene nella santa Chiesa” DOLM I, 123-124 (Don Orione nella luce di Maria, Postulazione dei Figli della Divina Provvidenza, vol. I, Roma 1969).

[29] Cfr. Il commento di E. Fogliasso all’espressione “dedicatio voluntatis” del n. 14 della PC, in Il Decreto “Perfectae caritatis” sul rinnovamento della vita religiosa in rispondenza alle odierne circostanze, Leumann, 1967, 454.

[30] L II, 166, e aggiungeva: “...come bisogna sforzarsi di pregare, così bisogna sforzarsi di acquistare lo spirito di obbedienza, elemento essenziale della vita religiosa, la quale vuol essere vita di perfezione, o non è più vita religiosa, né di vera virtù”, 167.

[31] Ibid, 165.

[32] L I, 88.

[33] L I, 549.

[34] “Al Papa, più che essere soggetti e obbedienti come a Superiore supremo, amo che si sia stretti ed uniti inscindibilmente come a Padre, e che la nostra obbedienza non sia soggezione, ma amore di figli”, L II, 282.

[35] Parola IX, 58-63; Sui passi..., 281-283.

[36] L II, 386.

[37] L II, 8.

[38] L II, 237.

[39] Cfr. S. Lyonnet, “Autorità e obbedienza alla luce della Sacra Scrittura”, in Autorità e obbedienza nella vita religiosa, Ed. Istituto Claretianum, Milano 1978, p. 58.

[40] Dalla predica del 6 agosto 1939: “Sposare la povertà vuol dire far della vita un olocausto per i poveri, per gli umili, per i lebbrosi...vuol dire incarnare in noi la vita dei più poveri, dei più abbandonati; dei più reietti, dei più afflitti...è amare la povertà, ritratto di Cristo nei nostri fratelli, e amarla tanto... e viverla tanto, come lo sposo ama la sposa”; SDO 5, 79-80.

[41] SDO 4, 66.

[42] L I, 169; cf. Sui passi..., 105-112.

[43] Cfr. Messaggi 73, 61.

[44] L II, 235-237. E aggiunge alla conclusione di questo scritto con decise linee programmatiche: “Noi cerchiamo di stare con Dio e con la Chiesa umilissimi sempre: riposiamo nelle braccia della Divina Provvidenza, come il bambino sul seno di sua madre”, 239.

[45] Dalla lettera alle Suore del 1 dicembre 1925, DOPS, 204-205. Continuando la lettera Don Orione ricorre all’esempio di Maria: “Non c’è carità senza umiltà, ... chiediamo alla Vergine SS. la grazia della santa umiltà. La Madonna fu scelta da Dio ed elevata alla più grande dignità d’essere la Madre di Dio, perché fu trovata umile. E Dante dice della Vergine celeste: “umile ed alta più che creatura”. Ma fu alta, perché era umile”.

[46] Cf. G. Oliveri, o.c., p. 25.

[47] LG 13.

[48] L II, 74. In un altro momento scriveva che la vera obbedienza “consiste nel mostrarci più che arrendevoli anche nelle cose molto difficili e contrarie al nostro amor proprio, e nel compiere coraggiosamente ancorché ci costi pena e sacrificio, pur potendo esporre, con semplicità, le nostre difficoltà”, L II, 166.

[49] Cfr. Sui passi.., p. 186.

[50] Cfr. Messaggi 65, p. 20.

[51] Cfr. Messaggi 79, p. 107ss.

[52] Il quadro della situazione viene ricostruito con precisione, grazie a molte notizie inedite messe alla luce nel libro di F. PELOSO, Don Orione e Padre Pio da Pietrelcina. Nel decennio della Tormenta: 1923-1933, Jaca Book, Milano 1999.

[53] Cfr. L I, 99 e II, 271.

[54] Don Orione scriveva: “L’obbedienza è cieca quando si eseguisce ciò che è comandato senza fermarsi a discutere e a giudicare il comando, ma si pensa che è Iddio che comanda e si obbedisce senza altro riguardo”, SDO 4, 68.

[55] C. Palmes, Del discernimiento a la obediencia ignaciana, o.c., pp. 162-163.

[56] A. Oddone, “L’ubbedienza cieca dei gesuiti”, in La Civiltà Cattolica 2 (1942), p. 89.

[57] SDO 4, pp. 41-42.

[58] L II, 501.

[59] Don Orione, per la Quaresima del 1926, lasciò alle suore alcuni consigli, e fra di loro questa massima: “Benedire Dio sempre, e sempre Deo gratias!”, DOPS, 207.

[60] ET, 55.

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