Capitolo II: Attività morale.
VITA DI DON CARLO STERPI
di Don Domenico Sparpaglione
INDICE
Capitolo I: Sintesi cronologica
Capitolo III: Fraternità con don Orione
Capitolo V: L’appuntamento con la Madre del Cielo
CAPITOLO SECONDO
Educatore dalla tempra adamantina
Il formidabile lavoratore che era don Sterpi potrebbe far pensare a una sua figura fisica dalla taglia atletica, tanto più se lo consideriamo nella luce di un don Orione al cui passo sarebbe stato difficile per chiunque resistere, ma al quale don Sterpi sapeva sempre adattarsi con l’aureo principio del festina lente e con l’osservanza dell’ordine che tutto facilita.
Invece don Sterpi era di complessione minuta. Da giovane appariva ancora più mingherlino; poi gli anni appesantirono la sua figura fragile dal volto esile, dalla fronte spaziosa precocemente calva, ma dolce e accogliente nel sorriso semplice e amabile di due grandi occhi un po’ sporgenti. A trent’anni appariva già un anziano per quel suo capo sempre chino e piegato a destra. Aveva nell’aspetto e nel portamento qualche somiglianza con la figura di Sant’Alfonso. Ma che energia in quella minuscola corporatura: bisognava vedere don Sterpi quando veniva in cortile per animare la ricreazione dei giovani collegiali, con quanta foga e velocità giocava a “tingolo” e a “caccia l’orso”.
La sua forza autentica era la ferrea volontà, la santa ostinazione sui principi del bene, la dirittura morale che accompagnava ogni passo della sua esistenza e regolava il suo comportamento.
Aveva un coraggio a prova di bomba. Col tempo questa sua fermezza di carattere non si affievolì, anzi poté per le circostanze particolari sorprendere chi ancora non lo conosceva.
Nel periodo più tragico della recente guerra, quando una lotta a sangue era scatenata tra fascisti e partigiani e ognuno correva il pericolo di apparire traditore agli occhi dell’avversario perché il nome di italiano abusato e manomesso dai tristi non aveva più un suo significato semplice e chiaro, don Sterpi viaggiando su di un camioncino per provvedere il pane agli orfani, ai chierici, ai ricoverati, fu fermato da una pattuglia di armati che con modi brutali lo fecero scendere per un’ispezione e poi gli imposero la requisizione dell’automezzo. Finché s’era trattato di subire le ispezioni e di rispondere alle domande che gli venivano rivolte come se egli fosse un ladro colto sul fatto, egli accettò dignitosamente tutte le umiliazioni, ma quando coloro pretesero di sequestrargli il camioncino con quel poco che aveva raccolto dalla provvidenza dei benefattori per i poveri bisognosi, spalancò le braccia in forma di croce, come per proteggere tutto quel mondo di miserie e di carità che egli impersonava, e fulminando quei giovanotti con uno sguardo terribile disse: “Puntate pure le vostre armi su di me, ma non avrete nulla da me. Solo la violenza potrà farvi prevalere”.
L’energia di quel vecchio sacerdote la cui voce non aveva nessuna vibrazione di paura, ma scolpiva l’idea, richiamò qualcuno a un senso di maggiore rettitudine e di onestà. Il camioncino che egli non volle abbandonare fu sequestrato temporaneamente, mentre l’autista e un accompagnatore dovettero rassegnarsi a raggiungere la meta con mezzi di fortuna. Per tre giorni non si seppe nulla di don Sterpi che finalmente ricomparve per riprendere il suo posto di sentinella nell’Istituto della Provvidenza.
L’alto concetto che egli aveva dell’autorità, la persuasione d’esserne investito a servizio del prossimo e dei diretti dipendenti lo trasformavano, risolvendo nella forza del carattere l’abituale sentimento di umiltà che faceva di lui l’uomo pronto a cedere il passo davanti a tutti, quasi schivo di far pesare su altri una qualunque superiorità.
Bastava vederlo fuori dell’ambito della sua autorità. Quando per obbedire a don Orione si concedette un po’ di riposo a Cuneo e ne prese occasione per far visita ai chierici di Bra, ci apparve come dominato dalla preoccupazione di non ledere l’autorità del superiore locale; ed era tanto amabile il suo sorriso e riservato il suo tratto che si capiva come egli riprendeva per sé l’ultimo posto non essendo “in carica”.
Ma quando entrava in funzione di superiore allora don Sterpi si galvanizzava del senso della propria responsabilità e diventava naturale il prestigio che emanava da tutto il suo comportamento. L’immagine evangelica della chioccia che protegge e difende con veemenza i pulcini s’adattava mirabilmente alla sua tempra di superiore. Allora sarebbe stato più arduo avviare con lui una conversazione, sebbene, in realtà, don Sterpi nulla facesse per creare del distacco fra sé e gli altri.
Guai però se c’era un motivo che giustificasse un doveroso riserbo o una tacita ammonizione. In questi casi chi si sentiva la coscienza un po’ turbata preferiva girare alla larga e se era costretto a stare alla sua presenza provava che cosa significhi sospensione d’animo. Non si scherzava con don Sterpi. Egli avvertiva la superiorità come un dovere, perciò non era disposto a nessun compromesso con l’errore, non tollerando disordini di sorta; ma dava ai suoi dipendenti la netta e confortevole sensazione dell’affetto: Padre più che superiore e superiore in quanto era il primo a sacrificarsi per la comunità.
Per tanti anni vissuto a contatto dei giovani di collegio, sapeva attirarsene la confidenza.
Straordinario ascendente
Conosceva i segreti e le delicatezze per toccare l’animo dei ragazzi e farlo vibrare. Preparava le feste religiose prima di tutto nei cuori. Alla vigilia istillava la gioia della santa Comunione da ricevere, e quando tutti si erano messi a posto con Dio mediante la Confessione a cui li veniva disponendo con opportune esortazioni nelle poche parole della “buona notte”, sapientemente forniva i particolari della messa in scena esteriore; e lanciando la mirabolante prospettiva d’una passeggiata straordinaria, d’una partita al pallone, d’un gruppo fotografico, destava effervescenza di entusiasmo. Si andava a riposo con la mente facile ai sogni dorati della giovinezza sana.
Nei giovani coltivava la devozione alla Madonna per mezzo della Congregazione Mariana e a uno a uno degli associati egli di sua mano consegnava il libriccino delle pratiche di pietà. La Novena dell’Immacolata e del Natale, il Mese Mariano e quello del Sacro Cuore erano avvenimenti che polarizzavano l’interesse dei giovani, perché don Sterpi con quel suo raccoglimento, con quella sua voce chiara, convinta, pervasa di tanta fede, suscitava veramente attorno a sé il fervore religioso.
Con niente sapeva rendersi interessante, proprio come una buona mamma fa con i suoi piccini, Di tanto in tanto un regalo collettivo presentato a tavola, una distribuzione provvidenziale delle mandorle di Noto, una scampagnata alla vigna in tempo di vendemmia, la gita a qualche santuario, rompevano la monotonia della vita di collegio e le conferivano una nota di simpatica famigliarità. Nell’imminenza delle vacanze erano un supplemento di consolazione nel cuore di ognuno le esortazioni che prima della partenza egli faceva a tavola mostrando di conoscere i paesi, le vie e i mezzi di comunicazione. E avanti di lasciare il collegio, sia pure temporaneamente, voleva tutti a gruppetti o soli nella sua direzione dove distribuiva l’immaginetta e la lettera per i parenti.
Di queste piccole cose unificate dalla pietà e dall’amore si componeva la sua grande arte di educatore che mirava a formare l’uomo, il cristiano, senza retorica e senza fronzoli.
Tutto il suo sistema pedagogico era fondato nel senso della paternità che dava risultati eccellenti di educazione civile e morale e costituiva il migliore terreno ai germogli di vocazione religiosa. Infatti dagli istituti da lui diretti diverse ne fiorirono, anche dove il tipo di studio meno si sarebbe prestato.
Egli giungeva sempre a proposito ad accendere o alimentare la fiamma, con parola improntata a discrezione, che riusciva assai convincente al cuore dei giovani.
Dove aveva appreso l’arte pedagogica? Non troppo sui libri, ma molto ai piedi di Gesù Sacramentato. Essa era frutto del lungo tirocinio d’una pietà ignita e soda che gli consentiva di possedere d’istinto quello che altri faticosamente conquistano con lo studio. La fede è luce dello spirito e in essa principalmente si risolve il problema educativo. È sorprendente quando si scorre un trattato di pedagogia, frutto di lunghe esperienze e di moderni metodi passati al vaglio dei più esimi educatori, ritrovare in esso la conferma del sistema applicato da don Sterpi.
Non sempre don Sterpi aveva alle sue dipendenze il fior fiore dei collaboratori. Assistenti e prefetti qualche volta lasciavano a desiderare e come formazione e come preparazione. Don Orione, specie negli inizi, non poteva garantirsi un personale perfetto, spesso nella sua bussola cascavano dei soldi matti invece dei buoni. Difettando la preparazione tecnica non erano infrequenti i casi di disordine e di insubordinazione.
I momenti critici per assistenti inetti erano quelli dello studio quando tutte le classi erano riunite.. Il marasma toccava l’acme se un’improvvisa interruzione della corrente piombava lo studio nelle tenebre. Quello che succedeva anche con assistenti più in gamba è facile immaginarlo. Si levava concorde un urlo di gioia selvaggia e con rapidità sconcertante una gragnuola di proiettili di carta s’incontrava da tutte le direzioni verso la cattedra dove il malcapitato rimaneva inerte in attesa della cessazione del fuoco; o se gridava (infelice) la sua voce si disperdeva nel furioso tambureggiamento operato sui banchi. E meno male che nessuno dei più turbolenti ebbe mai l’idea di dare al comune gaudio altri obiettivi come per esempio i vetri o le lampadine. Cosicché esaurito il programma tutto lo sconquasso si riduceva a un carico di carta straccia attorno alla cattedra. È questione alle volte di iniziativa: e se un malvagio ha la triste idea sono guai.
Pure in quel frastuono rimaneva una certa sospensione d’animo e tutti stavano sul chi va là per non essere colti in fallo: la sicura immancabile apparizione di don Sterpi era avvertita nel subcosciente con l’ineluttabilità di un destino che doveva compiersi a breve scadenza. E bastava che uno solo intravedesse la sua figura che, ombra nell’ombra, passava nei riquadri delle finestre lungo il corridoio, o sentisse il cauto cigolio della maniglia in fondo allo studio, perché subito il silenzio anche nel buio fosse ristabilito, giganteggiando alla mente alla mente di ognuno l’immagine del direttore con tutto il fascino e la suggestione della sua autorità.
Il ritorno della luce presentava don Sterpi in perlustrazione tra i banchi, dove mai studenti erano apparsi così concentrati nella lettura e così astratti dai fenomeni ambientali. Don Sterpi senza dire parola rivarcava la soglia e spariva verso la direzione. Per quella sera nessun voglioso si sarebbe più attentato a creare baccano. Come si può offendere un padre al quale si vuol bene?
Ma restava nella coscienza dei giovani un’ansia indefinibile che si placava solo il sabato e la domenica sera quando don Sterpi veniva a dar lettura dei voti settimanali di pietà, di studio, di condotta. La pagella personale comportava al Paterno parecchie voci e ciascuna delle quali corrispondeva la votazione che dal massimo “dieci” scendeva al minimo “sette”.
Il registro fatidico dei voti funzionava da tempo immemorabile ed era di peso e dimensioni formidabili come la spada della giustizia; ma don Sterpi, che arrivava appena con l’estremità delle dita a reggerselo sotto il braccio, da perfetto pedagogista non tradiva mai nessuno sforzo apparente e lentamente, dignitosamente, traversava lo studio e saliva in cattedra. I buoni esultavano: era quella una delle ore più belle della loro vita di collegio; i meno buoni provavano il batticuore.
La voce di don Sterpi non aveva inflessioni particolari. Era chiara, timbrata, sonora. Quel distrattone che avesse a proprio carico troppi “nove” riceveva alla fine un commentino di due o tre parole; lo sciagurato che toccava degli “otto” o, Dio liberi, un “sette” si sentiva schiacciato da una pausa interminabile seguita dal rituale “passerai da me” che aveva per l’infelice come un’eco di tromba da Giudizio Universale.
La verità è che la lettura dei voti fatta da don Sterpi non aveva nulla di statico, di meccanico, ma rinnovava ogni volta il suo fascino salutare ed era, credo, uno degli elementi di maggiore efficacia nella formazione dei giovani.
Il premio esteriore consisteva in un diploma settimanale che si spediva a casa come attestato di lode e che serviva a suscitare in tutti una santa emulazione; ma il sorriso di approvazione di don Sterpi valeva ancora di più.
Don Sterpi non faceva l’assistente. Sarebbe stato troppo facile perdere l’autorità impegnandola a sproposito. I suoi interventi erano tempestivi e istruttivi. Prima del passeggio si presentava alla fila dei giovani pronta a partire per un’occhiata alla loro tenuta e se scorgeva le mani sporche, le unghie listate di nero, le scarpe non perfettamente lucide faceva un cenno col dito e rimandava in camerata per il completamento della pulizia; ma neppure una volta l’abbiamo sentito riprendere pubblicamente l’assistente trascurato.
Quel che doveva rimproverargli glielo significava a parte e se l’autorità dell’assistente inesperto era già scarsa egli non faceva nessun passo falso per estinguerla, ma le dava vigore investendola del proprio prestigio.
Lezioncine indimenticabili
In definitiva ciò che conquistava l’animo dei giovani era la sua bontà: non le istruzioni che egli limitava alle brevi esortazioni della “buona sera” e della lettura dei voti; ché nella sua umiltà e avvedutezza lasciava quasi sempre ad altri (e non solo a don Orione) il compito della spiegazione del Vangelo e del catechismo; ma il tratto riverente, la pietà, l’esempio della sua vita illibata erano le armi della sua conquista nel cuore dei giovani. Mai schiavo del metodo, che per quanto buono non è sempre applicabile ai singoli casi, egli, adattandosi alle maniere che le circostanze suggerivano, coglieva tutte le buone occasioni per esercitare la sua missione di educatore.
Il maestro Sandro Devecchi, suo allievo al Paterno, racconta che una volta si buscò un “otto” in pietà, perché invece di stare in ginocchio per tutto il tempo della Messa, cercava un po’ di appoggio contro il banco. Don Sterpi prese atto della scarsa votazione, ma non disse nulla. Poco tempo dopo andò a Cerreto Grue per una funzione religiosa ed ebbe modo di conoscere del giovane il nonno paterno che per assistere alla Messa percorreva a piedi d’estate e d’inverno, parecchi chilometri di una strada proibitiva. Tenne ancora per sé l’informazione.
Ma il giovane, che doveva essere una buona lana in fatto di ostinazione, incappò in una nuova serie di contravvenzioni alla disciplina, che poi furono regolarmente travasate nel gran registro dei voti settimanali; e questa volta don Sterpi lo mandò a chiamare nel suo stanzino che serviva da direzione: un tavolino con su le carte del giorno sorvegliate da una devota statuetta della Madonna Immacolata; in un angolo la piccola stufa accesa nelle ore più rigide; due sedie per gli ospiti, appeso alla parete un gran quadro di Gaspare Goggi disegnato a penna, il crocifisso, pochi libri ben ordinati.
Il ragazzo entrò a cuor sospeso. Sapeva benissimo che in certe occasioni gli occhi e le parole del direttore erano gravidi di severità e già ne avvertiva un riflesso anticipato. Don Sterpi era serio, ma d’una serietà pacata che a un occhio esperto tradiva una sovrabbondanza di affetto contenuto sotto un velo di austerità.
“Senti, figliuolo, - gli disse dopo un momento di silenzio – perché non impari da tuo nonno ad amare la chiesa ed a fare qualche piccolo sacrificio. Sono stato al tuo paese, sai, e ho constatato che lui ne fa tanti sacrifici per arrivare a sentire la Messa. Dunque coraggio!”. Dopo altre esortazioni sul tono persuasivo della bontà lo accommiatò. Il ragazzo si sentiva un altro. Aveva compreso i suoi torti e solo per non dispiacere a don Sterpi che mostrava tanta stima di lui era ben deciso a non commettere più nessuna mancanza contro la disciplina del collegio.
Divenuto maestro e a sua volta educatore, non dimenticò mai quella mirabile lezione pratica di pedagogia.
Perché usare il cannone contro un muro di sabbia? “Quando un’occhiata basta – ogni parola guasta” (anonimo). Con altri tipi indolenti, orgogliosi, testardi, don Sterpi aveva in riserbo i grossi calibri dello sdegno e delle intemerate ad hoc. L’importante è comprendere l’animo e le disposizioni dei giovani. E a tanto si arriva se l’educazione fiorisce rigogliosa sul sedimento indispensabile della virtù e dell’affetto.
Da avveduto educatore don Sterpi non esagerava in parole. Nessuna posa in lui, nessuna frase studiata, perché era l’uomo semplice in quo non est dolus. E la retorica, anche quella che si chiama diplomazia, denota sempre più o meno una carenza di semplicità evangelica.
Il maestro legatore Guido Serventi che in una città come Venezia sa imporre il valore della propria arte appresa dai Salesiani e poi esercitata da giovanissimo a Tortona alle dipendenze di don Sterpi allora direttore del Paterno e della unita tipografia, ebbe a sperimentare l’efficacia educativa del metodo da lui usato.
Con ragionevole spirito di comprensione don Sterpi gli accordava alla sera un po’ di libera uscita, ma era intransigente sull’ora del ritorno. Alle 10 la porta d’ingresso si chiudeva per tutti. In realtà Guido si comportava da piccolo galantuomo (alto m.1,54) e non diede mai motivo a nessuno di rimprovero. Una sera però, causa l’allettante spettacolo cinematografico, ritardò di pochi minuti e, giunto di corsa, trovò la porta sbarrata. Come cavarsela?
Per farla franca girò l’ostacolo e tentò l’accesso dalla parte dell’orto, ma il muretto di cinta era troppo alto. Così perdette altro tempo e aggravò la sua situazione invece di risolverla. Bisognava decidersi. Di fatto ritornò alla porta principale di Via Emilia, lui che da artista dilettante sapeva così bene rappresentare sulla scena l’imbarazzo dei momenti critici, prima timidamente, poi con la risolutezza dell’eroe che assume in pieno la propria responsabilità, premette il bottone del campanello. Boia d’un mond, come trillava quell’ordigno infernale! Pareva che volesse scuotere dal sonno tutta via Emilia.
Guido si augurava più soltanto una cosa: che quel suono incontrasse qualche anima buona di famiglio sperduto nei corridoi ispirandolo di aprire senza far chiasso.
La luce si accese e si vedeva filtrare; la chiave girò due, tre volte nella toppa e la porta si aprì: uno spiraglio sufficiente perché l’ospite notturno potesse entrare. Di fianco alla porta, don Sterpi.
Una semplice occhiata, un leggero inchino, ma neanche una parola. Guido avrebbe voluto scomparire sotto il pavimento. Filò senza far rumore per ritrovare l’ombra amica dello scalone che metteva alla camerata e scomparve come una lepre che l’ha scampata bella. Ma dalla disavventura imparò a osservare l’orario per tutta la vita.
Scherzi a parte, un rimprovero così discreto e amorevole, fatto di silenzio perché parli la coscienza e arrivi da sola alla verità, fu per Guido una rivelazione. Don Sterpi s’impresse nella sua mente come una delle figure morali più grandi da lui incontrate.
La sua dilezione per i giovani non conosceva preferenze. Ognuno si sentiva il prediletto di don Sterpi perché trovava in lui, in ogni momento, facile accoglienza.
I sistemi di riscaldamento al Paterno erano piuttosto rudimentali. Soltanto nello studio veniva messa una stufa a segatura che funzionava a intermittenza. Beati quelli che si trovavano nelle adiacenze. Gli altri li ricordo col bavero della giacca e del pastrano alzati a coprire la testa per sfruttare tutto il calore naturale nelle lunghe ore invernali. In cortile ci si riscaldava scivolando sul ghiaccio. I più timidi e infreddoliti battevano i piedi sotto il portico.
Erano quelli i momenti in cui la stanzetta di don Sterpi diventava il tepidarium dei ragazzi meno spericolati. Egli se li teneva lì attorno alla sua stufetta per un buon quarto d’ora e poi li rimandava per ricevere un altro turno.
Di ciascuno conosceva le debolezze e le esigenze, quindi li faceva curare. Dava istruzioni sul modo di lavarsi e asciugarsi per evitare i geloni, sulla prontezza nella levata e sulla decisione necessaria a combattere il freddo, insegnando a vincere subito quelle difficoltà che potrebbero costituire una remora nella formazione del carattere e rovinare moralmente un’esistenza.
Di questi piccoli accorgimenti suggeriti dal buon senso pratico, armonizzati fra loro dalla profonda pietà, utile a tutto, dettati sempre dal più puro affetto in Cristo verso i giovani, si compone la sua grande arte di educatore.
“Mamma” dei chierici
La missione più vera di don Sterpi era quella di svolgere tra i chierici, poiché per essa possedeva i requisiti migliori: lo spirito di pietà, la conoscenza del cuore dei giovani, l’integrità di una vita sacerdotale che era tutto uno splendore di illibatezza.
Egli la inizia fin dal Seminario dove lo vedemmo preposto all’assistenza dei chierici più piccoli. Sarebbe certo continuata fino alle cariche di maggiore responsabilità, se la Provvidenza, che lo veniva preparando per una missione altrettanto delicata ma più vasta, non lo avesse posto ai fianchi di don Orione.
Don Orione, che per speciali contingenze incaricò l’amico e condiscepolo della direzione dei giovani collegiali, in realtà sapeva che don Sterpi era un distinto educatore in senso religioso e affidandogli la custodia dei primi suoi chierici nella casetta di Sanremo gli scriveva: “Te e Alvigini siete i due più fatti per formare i chierici” (1900).
Già dagli inizi la disciplina religiosa era paterna, ma di una serena austerità. La levata era alle quattro del mattino, d’estate come d’inverno, e le occupazioni spirituali si alternavano con quelle materiali, senza la minima concessione agli svaghi.
Si racconta a proposito che don Sterpi, sopraffatto da tanto lavoro, chiese a un medico lo specifico contro il sonno, non bastando quelle tazze di caffè che era solito sorbire a tenerlo desto; e il dottore lo rassicurò che lo specifico esisteva e costava poco. “Oh, benissimo, mi indichi la ricetta che ne ho proprio bisogno”.
Il medico sorridendo spiegò che lo specifico consisteva… nel dormire.
A Sanremo e a Mornico don Sterpi assolse al suo compito tra altre mansioni e preoccupazioni; poi sempre come direttore della casa e Vicario di don Orione, continuò a svolgere tra tutti i chierici, non solo tra quelli che stavano alle sue dirette dipendenze, la sua delicata missione formativa, pur non comparendo mai come “il padre spirituale”, poiché le sue funzioni più appariscenti erano quelle di natura amministrativa ed economica. Non ci riferiamo tanto alla sua azione disciplinare quanto all’azione intima che si svolge a contatto con le anime e nel segreto delle coscienze, cui egli mai venne meno anche se non tutti potevano in egual misura beneficiarne.
Ma quando nel 1927 don Orione organizzò su vasta scala la questua delle vocazioni, interessando i parroci di quasi tutte le diocesi d’Italia, e in pochi mesi ebbe raccolto a Tortona e a Voghera parecchie centinaia di giovani speranze, allora don Sterpi fu tolto da Venezia e trasferito a Tortona, centro della Congregazione, perché riprendesse direttamente il suo lavoro di natura spirituale e morale tra di loro, mentre si dedicava anche con quotidiana affettuosa fatica alla erezione del Santuario della Madonna a San Bernardino.
Del resto proprio lì tra le impalcature e i muri maestri e le volte ardite che venivano su imponenti e grandiose, don Sterpi si trovava sotto mano molti “chierici operai” e poteva ancor meglio crescerli allo spirito orionino di sacrificio, di pietà, di lavoro, di carità, di santa letizia, nelle occasionali e sistematiche rinunce al viver comodo. E sua cura particolare fu l’istituzione dei “Carissimi”, le vocazioni tardive, da cui trasse un buon nerbo di religiosi capaci di dare un apporto validissimo alla Congregazione nel suo speciale indirizzo assistenziale.
E non è da credere che egli trascurasse la loro formazione culturale e teologica. Li voleva istruiti quel tanto almeno che era indispensabile all’esercizio del Sacro Ministero e se li prediligeva, perché bisognosi di particolare incoraggiamento, esigeva da essi un’applicazione costante.
Né si fermava ai chierici la sua azione paterna, ma si estendeva ai sacerdoti. Usava con tutti un tratto famigliare e preferiva la reciproca comprensione alla squallida burocrazia. Mostrando piena fiducia in ognuno, era generoso nel soddisfare alle richieste, quando queste avevano un minimo di ragionevolezza o impegnassero il suo spirito di carità.
Se di conferenze vere e proprie poche egli ne tenne, anche durante le assenze di don Orione dall’Italia, una lezione continua, ammirabile, edificante fu per tutti l’esempio della sua vita in ordine specialmente all’umiltà, alla pietà, all’osservanza religiosa, alla povertà che egli praticava senza mortificare coloro che non sapessero giungere a un alto grado di virtù, anzi provvedendoli in vesti, in vitto e assistenze materiali di ciò che egli mai usò e si concedette.
Per questo don Orione, preoccupato di dare alla Congregazione un continuatore che ne salvaguardasse lo spirito, nel 1934 scriveva dall’America: “Dopo che a Dio, alla Santa Madonna e alla Santa Chiesa, vi affido a don Sterpi, e so di mettervi in buone mani: abbiate fiducia in lui che ben se la merita. Già altra volta vi ho scritto che se Iddio mi dicesse: ti voglio dare un continuatore che sia secondo il tuo cuore, Gli risponderei: lasciate, o Signore, perché già me lo avete dato in don Sterpi”.
Zelatore di Vocazioni
Come si manifesta ‘azione spirituale di don Sterpi? Sostanzialmente in un’effusione di dolcezza senza sentimentalismi, di carità e di amore effettivo, secondo quei mezzi che l’esperienza, la bontà, la fede gli offrivano in abbondanza.
Questa azione di carità soprannaturale cominciava sul fanciullo che manifestasse qualche segno di vocazione. Don Sterpi, con la delicatezza con cui si tratta un cristallo che teme l’appanno, coltivava quei buoni germi senza interferenze indebite.
Abbiamo già rilevato che da ogni collegio da lui diretto seppe ricavare come da un mistico giardino dei fiori di vocazioni religiose e sacerdotali. Quasi mai con la parola, sempre però appropriata e adatta, ma con tutto quell’insieme di sagaci attrazioni che sarebbe difficile ricostruire, perché risultavano non da fatti esteriori ma di una comunicazione dell’anima, ed erano per così dire il buon terreno da lui preparato sul quale operava poi l’ispirazione della Grazia.
A un ragazzo del Paterno, che era assiduo al servizio della Messa, e nella sua semplicità ignorava anche l’ombra del male, pur non essendo un modello di docilità assoluta e di eroica disciplina, egli disse, dopo avergli interrotto la ricreazione per convocarlo nella sua direzione, così di punto in bianco e come continuando un discorso mai iniziato su quell’argomento: “ Tu diventerai un nostro bravo sacerdote”. E lo rimandò a giocare. Il giovane, che poteva avere undici anni, lì per lì ci rimase sorpreso, ma avvertì chele parole scarne e semplici di don Sterpi interpretavano un’intenzione segreta del suo cuore. Com’è naturale ne parlò subito con un compagno di scuola, il quale non disse nulla che potesse turbare il piccolo dramma che forse per la prima volta si agitava nell’anima del ragazzo a proposito di vocazione, ma suggerì di agire liberamente.
Il giovane non dimenticò la parola del suo direttore e quattro mesi dopo entrava di sua volontà tra i probandi della Piccola Opera convinto che quella era la strada migliore da seguire. E i fatti gli diedero ampiamente ragione.
Coltivare le vocazioni nei cuori giovanili: ma anche difenderle. E qui ritorna l’immagine della chioccia che respinge audace gli assalti del falco.
Lo stesso giovane qualche anno dopo, terminato il Ginnasio, fu dai parenti prelevato in modo spiccio e sbrigativo dal Paterno, perché lo si voleva indurre a lasciare l’Opera di don Orione per entrare in un Seminario dove sarebbe stato accolto gratuitamente. Per quindici giorni dovette sperimentare una vera tortura morale lottando contro persone che in fondo pensavano di fare il suo interesse e che egli non intendeva irritare.
Il giorno in cui l’avevano “rapito” non c’erano in casa né don Orione né don Sterpi, né altri sacerdoti. Don Sterpi fu informato dell’accaduto al suo ritorno da un compagno del chierico. E il chierico che non sognava altro che il Paterno, col pretesto di ritirare una coperta, poté accedervi e confidarsi con don Sterpi il quale gli consegnò un bigliettino per una zia che era la parte dura da smantellare, perché, poveretta, pensava che una volta accasati i numerosi suoi figli non sarebbe stata disprezzabile la vita in una canonica insieme al caro nipote. Tutto lì il segreto della “persecuzione”.
Il biglietto raccomandava alla buona signora di non forzare la vocazione del giovane perché grande sarebbe stata la sua responsabilità davanti a Dio.
L’ottima zia che, quanto a pratica religiosa era un modello, ci rimase male e partì alla volta del Paterno per dire la sua a don Sterpi; ma non lo trovò e riversò il suo sfogo sul sostituto don Zanocchi, timbrando la filippica con una frase (in dialetto) degna di essere tramandata: “E poi io voglio che mio nipote mangi dei buoni capponi e qui da don Orione di capponi non se ne mangiano, se vuol saperlo”!. Altro che se lo sapeva don Zanocchi!
Non c’è bisogno di aggiungere che anche la volitiva zia alla fine si arrese ai disegni della Provvidenza così bene intravisti da don Sterpi.
Assistere i suoi chierici materialmente. Quel suo stanzino era d’inverno una succursale dell’infermeria per i convalescenti. Diceva scherzando di un chierico bisognoso di continue cure che “se lo teneva lui nello scatolino” perché non avesse a sciuparsi. Vero don Piccinini?
Don Orione voleva per certi suoi motivi che un chierico trascorresse in famiglia il periodo delle vacanze natalizie; ma quello era invece restio e accampava dei pretesti, fra i quali la mancanza di una veste presentabile. Don Sterpi, messo al corrente, se la fece consegnare e s’incaricò personalmente di darla a lavare, poi se la tenne ad asciugare nella direzione e quando fu pronta, un’ora prima della partenza, tutto lieto la presentò all’interessato, che dovette adattarsi a così mirabile sollecitudine intesa a secondare la volontà di don Orione.
Ma il vero affetto è quello che coltiva nei chierici la vita spirituale e don Sterpi su questo punto era vigilantissimo perché l’ambiente in cui essi vivevano spirasse l’atmosfera della pietà nell’osservanza religiosa, nelle frequenti irrorazioni della Grazia attraverso le conferenze settimanali e gli Esercizi Spirituali, nell’incremento delle devozioni basilari a Gesù Eucaristico e alla Santa Madonna; adoperandosi egli senza posa a infondere in essi lo spirito di sacrificio, l’amore alla Congregazione, lo zelo per le opere di carità verso i bisognosi; e tutto ciò conseguendo con una comunicativa fatta di semplicità e valorizzata dal buon esempio; di modo che tutti sentivano di avere in lui il termometro costante del loro progresso spirituale e insieme un incitamento a vivere con gioia la vocazione religiosa.
Da buon giardiniere che ama il proprio lavoro sapeva crescere quei teneri virgulti con mano saggia e prudente. Quanta fiduciosa simpatia attiravano le sue parole accompagnate da un leggero curvarsi della persona verso chi lo avvicinava! I probandi facevano grappolo giocondo attorno a lui proprio come tanti figliuolini attorno a un buon padre. E il suo aspetto, negli ultimi anni, richiamava l’immagine di un venerando nonnino, anche se nessuno avrebbe mai osato qualificare don Sterpi per “vecchio”.
Succisa virescit
Ma la pianta andava anche scossa, perché c’era, come in tutti gli ambienti, chi abusava della sua bontà e non si arrendeva alla sua azione formatrice. E dove egli, con quel suo carattere semplice e schietto, non sarebbe forse giunto subito a scoprire delle intenzioni doppie, interveniva con quell'occhio di aquila che scrutava da lontano le coscienze, don Orione, vergando lettere di fuoco che imponevano una condotta cauta e vigilante, non solo, ma risoluta contro ogni possibile deviazione dello spirito religioso.
Non che don Sterpi usasse tolleranza con gli indegni; ma poteva accadere che si tentasse di sorprendere la sua buona fede.
Don Orione era rimasto assai impressionato per un sogno e lo interpretava come un segno delle defezioni da parte di alcuni e un obbligo di vigilanza. Scriveva infatti a don Sterpi: “Adesso capisco bene l’avviso della Madonna nel viaggio a Cassano in settembre: il quadro del Buon Consiglio, e la cornice che si faceva martello e picchiava spietatamente i monticelli di pietra bianca che erano ai piedi del quadro” (3-XII-1911). Alcuni fatti dolorosi gli diedero ragione.
Un altro sogno più terribile impressionò don Orione che lo comunicò subito a don Sterpi, perché intervenisse con estrema decisione a sfrondare la pianta della Congregazione dalle foglie secche e velenose. È del 1935, mentre egli era a Buenos Aires: "Stanotte mi sono addormentato verso le 4,30. Due sogni... Il secondo molto terribile. Mi svegliai verso le 6,5 e ne rimasi come pietrificato. Somiglia a quello di tanti anni fa quando vidi staccarsi un'asta dalla cornice... Mi pareva di essere sulla porta che dà nel giardino (a Tortona). Era di giorno… Distese per terra (ai lati del giardino) piante potate, sradicate… buche e terra mossa… devastazione. In mezzo il giardino era verde, ma non c’erano piante di considerazione… Nel sogno ebbi chiaro nello spirito che si trattava della Congregazione… D’un tratto si sollevò un vento dalla parte del portone rustico… Vento vivo che si vedeva… come le trombe nere di pioggia lontana.
Quel vento prendeva da terra delle travi squadrate formate da piante nostre e le buttava verso il canto dove si entra dalle suore. E là scomparivano... Corsi in cappella e mi distesi lungo a terra a implorare perdono e misericordia da Gesù. E mi sono svegliato impressionatissimo. Qui non ho detto nulla… Ordinate incessanti preghiere per la mia conversione e per la conversione di tutti” (9-XI-1935).
Tornando sull’argomento spiegava: “Il sogno richiamava me personalmente ad una vita più secondo la vocazione e le grazie elargitemi… ad una sincera conversione e penitenza, minacciando castighi e devastazioni della stessa congregazione. Pregate… che questo lo faccia prontamente e umilmente aiutato dalla grazia del Signore e della Madonna. Vi ripeto d’ordinare preghiere e atti di mortificazione” (4-XII-1935).
In altra lettera dell’anno successivo ordinava che fossero dimessi i chierici senza buono spirito, precisando quali virtù erano richieste come segno di buono spirito: umiltà, fede, abnegazione, ubbidienza, povertà, disciplina, illibatezza, amore alla Chiesa e alla Congregazione. “Allontanate i mormoratori, i non pii, né carne e né pesce, volubili, indecisi, fuggi fatica, attaccati al proprio giudizio… Leggete l’Enciclica del Santo Padre. Alcuni di quelli che vi hanno dato tanto dolore tirarono avanti galvanizzandoli a furia di iniezioni e questo per anni e anni… Una Congregazione nascente deve avere basi granitiche… Crivellare e scegliere, dopo tante dolorose esperienze. Tortona dovrebbe essere il modello… Secondo quel sogno non c’è luce, ma fumo e vento nero… piante sradicate, piallate dal turbine. La cappella dove io sono corso a pregare era oscurissima, senza lampada e senza Dio… E se oso ricordarlo non è per rinnovarvi il dolore ma per prepararvi, direi, ad altre diserzioni. Le piante che restarono non erano le più grosse e solo qualcuna un po’ grossa; erano alte e belle e verso la parte del cortile di San Michele. Il turbine nero e distruggitore era dalla parte destra verso la stalla dell’albergo… Da quella parte non c’era più nessuna siepe. Sarà necessario che si facciano bene e sempre l’esercizio della buona morte e gli altri esercizi religiosi” (12-VI-1936).
Pochi giorni dopo don Orione ribadisce il suo criterio di selezione inesorabile, per assicurare alla Congregazione e alla Chiesa un personale degno dei tempi tristissimi che viviamo.
Don Sterpi condivide le sue ansietà, ma fa le sue obiezioni. Il dialogo a distanza si sviluppa e si svolge tra la responsabilità di don Orione desideroso di aumentare il numero dei buoni operati, ma timoroso che tra di essi si infiltrino gli sfruttatori; e la preoccupazione di don Sterpi di non spegnere il lucignolo che ancora arde debolmente.
In don Orione l’idea è chiara, definita; ma tocca a don Sterpi applicarla a ogni singolo caso: è un angoscioso dramma per la sua coscienza di sacerdote e per il suo cuore di padre, come, naturalmente, lo è per don Orione.
Ma sentiamo don Orione: “Siate inflessibile, in Domino. Meglio averne molti di meno che qualcuno di più, ma non di spirito religioso” (27-VI-1936). Don Sterpi gli ha risposto immediatamente informandolo delle decisioni già prese sugli elementi malfidi o incerti ed esprimendo il suo vivo dolore per tali perdite. E don Orione, che sempre ha usato e raccomandato carità coi dimessi, a sua volta risponde: “ Preghiamo per chi se ne va e seguiamoli con dolore e carità fraterna”. E siccome è in atto la Visita Apostolica, soggiunge: "Questa Visita Apostolica è anche una speciale grazia di Dio per discrostare, per sfaldare la Piccola Opera e liberarla da parecchi elementi che sono venuti meno allo spirito della vocazione e ci impediscono di camminar spediti pel cammino del Signore. Sono come pesi al piede… È una potatura: Ringraziamo Dio che pota la pianta per salvarla. Succisa virescit”.
Bastano questi pochi tratti delle lettere di don Orione, e le risposte di don Sterpi intuibili attraverso le parole del Fondatore, per comprendere come entrambi amavano le giovani speranze della Chiesa e della Congregazione e questo faceva sanguinare il loro cuore se dovevano adoperare le maniere ferme e risolute contro chi mostrava di tradire la propria vocazione.
Ma quelli che se ne andavano, attratti dal mondo, trovavano pur sempre l’aiuto indispensabile per una nuova sistemazione, al punto da tollerarsi la loro presenza temporanea in Case della Congregazione. Carità veramente fiorita.
Finché visse il Fondatore, don Sterpi era un po’ il paravento dei chierici, in quanto compiva più le funzioni di padre amorevole che di giudice severo. Investito del peso della suprema responsabilità applicò le massime ricevute come sacro patrimonio di governo e divenne inflessibile, senza cessare di essere padre.
Una volta si presentò a Villa Moffa dove erano più di trecento chierici in parte piovuti lì senza vocazione e tenne un discorso infuocato dichiarandosi pronto a pagare il viaggio immediatamente a quelli che non se la sentivano di continuare a essere integralmente figli della Piccola Opera. Lì per lì solo qualcuno si decise a chiedere le dimissioni. Entro pochi mesi quasi metà se ne andarono e fu un vantaggio per gli altri, oggi pervenuti alla meta del sacerdozio.
Quello che don Sterpi fece per i suoi religiosi, come per i ricoverati sotto le tende della Provvidenza, durante la guerra, che poneva tutti in prima linea sul fronte della battaglia, sarà oggetto di speciale trattazione; ma va detto subito che egli non lasciò mai mancare nulla del necessario, cercando prima il Regno di Dio, ma lavorando senza interruzione e fini all’esaurimento per sopperire alle difficoltà materiali dell’ora tragica, con un coraggio, una fede, una costanza tali da non far sentire la mancanza di don Orione e da stupire coloro che pensavano don Sterpi solo come un fedele interprete e l’ombra del Fondatore, ignorando le sue qualità positive di uomo dall’iniziativa pronta e sagace.
Per un cuore come quello di don Sterpi nessuna definizione potrebbe essere valida se non esprimesse una maternità che trascende quella del sangue e si trasfigura nella carità verso il corpo mistico di Gesù, le anime.
L’aver insistito sulla severità di certe forme non è forse un’apologia indiretta della spiritualità del suo amore verso i chierici? Ma qui il biografo dovrebbe cogliere sulle labbra di ognuno dei beneficiari di questo amore quel mondo di bontà che è scritta a caratteri d’oro nel gran libro della vita e brilla nella intimità dei ricordi personali.