Capitolo V: L'appuntamento con la Madre del Cielo.
VITA DI DON CARLO STERPI
di Don Domenico Sparpaglione
INDICE
Capitolo I: Sintesi cronologica
Capitolo III: Fraternità con don Orione
Capitolo V: L’appuntamento con la Madre del Cielo
Successore di don Orione
Don Sterpi la sera del 12 marzo 1940 andò a riposare tranquillo forse per la prima volta dalla partenza di don Orione, gravemente infermo, per Sanremo
Il Canonico Perduca era tornato dalla città dei fiori recando buone notizie e una lettera del “direttore” che dimostrava come questi si sentisse sollevato e ben disposto a riprendere, almeno in parte, la sua attività, avendo in programma per il giorno dopo una visita di ossequio al Vescovo di Ventimiglia e per la domenica successiva una puntata a Genova. Riferiva il buon Canonico che don Orione era persino in vena di scherzare.
Verso le quattro del mattino 13 marzo una macchina si fermava davanti al Paterno e ne scendeva don Enrico Bariani che, fattosi aprire, saliva concitato alla stanza del Canonico al quale comunicava la ferale notizia dell’improvvisa morte di don Orione sopraggiunta in seguito a un nuovo attacco di angina pectoris alle 10,40 della sera precedente. Egli, presente ai suoi ultimi istanti, aveva cercato di mettersi in comunicazione telefonica con Tortona o con Novi, ma non c’era riuscito. Si era quindi deciso a partire in macchina nel cuore della notte.
Bisognava oa avvertire don Sterpi. Il Canonico si portò davanti all’uscio della di lui cameretta seguito da don Bariani e bussò chiedendo di essere introdotto per una comunicazione urgente. Don Sterpi si affrettò ad aprire e quando vide quei volti pensierosi, quegli sguardi dolenti di mestizia, intuì la verità. L’impressione fu tremenda tanto più che le notizie di poche ore prima avevano aperto il suo cuore a speranza.
Cominciava per il povero don Sterpi un lungo periodo di tensione nervosa e di preoccupazione che solo nel perfetto spirito di abbandono alla divina volontà trovava conforto.
Intanto sulla stessa macchina di don Bariani egli partiva immediatamente per Sanremo. Se la morte di don Orione era uno schianto per ognuno di noi, immaginiamo che cosa dovette produrre nell’animo di colui che era stato il suo compagno di tante fatiche, di tanti dolori e di tante gioie spirituali.
Poche ore dopo lo rivedemmo a Sanremo nella stanzetta dove don Orione giaceva, vestito dei paramenti sacerdotali, sommerso di garofani, in un silenzioso affluire di conoscenti e di devoti, convinti che un santo di più era salito al Cielo.
Don Sterpi era un po’ congestionato in volto, ma la sua calma infondeva a tutti coraggio e svelava di quale tempra fosse la sua fede. Problema assillante era la modalità dei funerali. A Genova volevano vedere la salma di don Orione. A Milano i benefattori influenti e le Autorità civili ed ecclesiastiche la reclamavano al Piccolo Cottolengo.
Il Vescovo di Tortona, subito accorso, come mons. Albera e mons. Cribellati partiti dalla Calabria, rimuoveva di propria iniziativa alcune difficoltà, perché la sepoltura definitiva del Fondatore della Piccola Opera fosse a Tortona nel Santuario della Guardia. E c’era a sollevare don Sterpi dal grave peso del momento, l’Abate Emanuele Caronti, Visitatore Apostolico, che in quei frangenti fu di grande conforto.
Don Orione compì un viaggio trionfale da Sanremo a Genova e a Milano, per riposare infine nella cripta del Santuario.
Don Sterpi, quasi inosservato nei lunghi interminabili cortei, dietro la bara, aveva in quella settimana costretto il suo fisico a uno sforzo tremendo. Quando tutto fu terminato ed egli poté appoggiare il suo capo stanco sulla tomba del “fratello”, riassorbì nella preghiera e nel segreto colloquio ogni forza già profusa e sentì che don Orione era ancora presente.
Nessuno poteva dubitare della sua successione al gravoso compito di dirigere la Congregazione e don Orione stesso, in una lettera già da noi ricordata, lo aveva indicato come il suo continuatore voluto dalla Provvidenza. Tuttavia si dovette procedere a una nomina regolare secondo i sacri Canoni e fu indetto il primo Capitolo Generale della Congregazione che si svolse nell’estate del 1940 a Montebello e fu presieduto dall’Abate Caronti nella sua qualità di Visitatore Apostolico.
Don Sterpi venne eletto all’unanimità. Veramente, se a conferma dell’affetto e della stima che lo circondava si potesse rivelare un particolare dell’elezione, ci fu un momento di sorpresa fra i Capitolari quando gli scrutinatori lessero un nome diverso dal suo, oltre quello da lui ovviamente indicato e senza volerlo tutti si guardarono sorpresi dinanzi a una vera e propria stranezza, riuscendo inconcepibile che ci fosse anche un solo voto al Capitolo non orientato su don Sterpi.
Ma subito il mistero fu svelato e si seppe che uno dei presenti, semplice e ingenuo quanto virtuoso, aveva equivocato sulla modalità della elezione. E quell’ombra di dubbio per il voto mancato si dissipò.
Il Capitolo aveva anche il fine di rinvigorire l’ordinamento della Congregazione col governo ripartito fra i Provinciali e questo fu di grande sollievo per don Sterpi che poteva contare su validi collaboratori.
Il suo sistema di vita dovette per forza di cose modificarsi. Egli che, vivente don Orione, non era uscito dall’Italia se non per accompagnare l’Abate Caronti nella visita alle nostre Case di Polonia, adesso si sarebbe dovuto sottoporre a continui viaggi per le visite canoniche e almeno una volta avrebbe dovuto varcare l’Oceano. Tutto questo a una certa età e con le abitudini contratte alla ritiratezza e al nascondimento poteva anche preoccupare; ma sarebbe stata una difficoltà presto risolta in tempi ordinari. Invece la guerra, scoppiata nel settembre 1939 in Polonia, si estendeva rapidamente al mondo intero e i viaggi oltre Oceano furono bloccati. Maggiore trepidazione per il suo cuore di padre. La linea gotica sarà poi una barriera invalicabile tra l’Italia del Nord e quella del Centro Sud e per diciotto mesi non sarà possibile nessuna comunicazione.
Se don Sterpi doveva praticamente limitare il suo controllo alle Case della nostra Provincia di San Marziano e di San Benedetto in parte, pesavano sul suo cuore di padre le incertezze e le ansietà per le altre province di San Pietro e Paolo, di Santo Stanislao, di Fatima (Brasile) e della Madonna della Guardia (Argentina).
Del resto l’intensa preoccupazione di provvedere alle Case dell’Italia era tale da non consentirgli un istante di riposo per le enormi difficoltà creatigli dalla guerra.
La Provvidenza gli ha posto al fianco l’avvedutissimo Abate Caronti che, mentre conduce a termine la sua Visita Apostolica in congregazione, solleva don Sterpi da tante responsabilità. E poi c’è don Orione che continua a dirigere. “È lui che fa tutto come prima: noi dobbiamo solo ubbidirgli” – diceva come scusandosi don Sterpi quando qualcuno esprimeva la sua ottima impressione per il buon andamento delle cose. Nella sua simpatica modestia era ben lontano dall’attribuire a sé il merito di saper camminare nel solco aperto da don Orione.
Dure esperienze di guerra
Egli è interiormente tranquillo per il completo abbandono alla volontà di Dio; ma chi puù dire l’ansia di quel suo cuore tanto sensibile di fronte alle tragedie che si abbattono nel mondo e si ripercuotono sulla congregazione? In quei terribili anni di guerra le sue risorse fisiche sono spremute fino all’eroismo di un’anima indomita votata alla causa dei tribolati. Lo circonda l’ammirazione dei confratelli e della vasta cerchia degli Amici e Benefattori che, perduto don Orione, lo ritrovano vivo, infaticabile nel suo successore.
Il rogito depositato nella sua tomba fissa in stile solenne queste sue attività. “Nel solco del Fondatore – esso dice – e in fedeltà vigilante al di lui spirito, si dedicò all’ampliamento delle opere di carità per i più poveri e di formazione per i religiosi: moltiplicò in Italia e all’Estero i Piccoli Cottolengo di don Orione e gli orfanotrofi: curò come la pupilla degli occhi i probandi e i chierici mediante continui materni contatti ed attuò anche – come l’istituto teologico – così, provvidenzialmente, una speciale istituzione per il perfezionamento dei sacerdoti novelli.
Lavorava frattanto per il riconoscimento pontificio della Congregazione ed ebbe la gioia di vedere coronati da successo i voti comuni consegnando nel gennaio 1944 ai Figli della Divina Provvidenza le costituzioni munite del sigillo del “Decretum laudis”. Anziché risparmiarsi nei momenti più duri della seconda guerra mondiale intensificò la sua attività, incurante di bombardamenti, di mitragliamenti e insidie, solo trepidando per i suoi poveri, gli orfani, le schiere sempre più numerose dei probandi e dei chierici: neppure uno lasciò senza soccorso in quell’ora turbinosa, portando sempre e ovunque, con il conforto della benedizione, i mezzi di vita che per la illimitata fiducia nella Provvidenza e una preveggente accortezza riusciva a procacciare.
Fra le tante sue preoccupazioni fu l’urgenza di provvedere il pane a tutta la famiglia religiosa e ai poveri ad essa affidati. Siccome delle sue materne attenzioni in ordine allo spirituale abbiamo già fatto cenno, è bene sviluppare attraverso qualche episodio la realtà contenuta nei termini elogiativi del rogito così facilmente aderente al vero.
Nella casa annessa all’istituto delle Suore Sacramentine Cieche, in regione Groppo di Tortona, egli installò un mulino elettrico che macinava il grano per le diverse comunità; e costruì un forno per la confezione diretta del pane. Fu un’opera davvero provvidenziale.
Valendosi di sagge accortezze, intese unicamente all’esercizio della carità verso i bisognosi, egli, assistito in modo evidente dal Signore che nulla lascia mancare a chi cerca prima il regno di Dio e la sua giustizia, poté accumulare per diversi rivoli di carità, di pubblica assistenza, di conferimenti governativi, una provvista di grano che prudentemente sistemava negli angoli più riposti e sicuri noti solo a lui, secondo un piano di preveggenza degno di un consumato esperto di logistica.
Mulino e forno lavorarono ininterrottamente a produrre un pane miscelato secondo le disposizioni di legge ma che si faceva addirittura preferire al pane bianco per il suo potere nutritivo.
La difficoltà maggiore era nella distribuzione, dovendosene fornire non solo le Case di Tortona, ma quelle del circondario e in parte quelle di Genova e di Milano. Si calcola a quintali il pane confezionato giornalmente al Groppo.
Forse qualcuno sarà tentato di associare a quella febbrile e santa attività di don Sterpi il ricordo dell’”intrallazzo” siciliano e della famigerata borsa nera. Per carità! Siamo agli antipodi. Lo scopo delle industrie di don Sterpi era di dare da mangiare agli affamati e non di procurarsi del guadagno. Intanto i dazieri, riconoscenti per delle buone pagnotte di pane miscelato, facevano segno ai camioncini carichi di… cavoli di proseguire alla svelta.
Il pane valeva allora più del denaro e don Sterpi ne faceva un presente di tanto in tanto ai benefattori che abitavano nelle grandi città dove il razionamento era più rigido e magra la tessera, sottoponendosi spesso a dei viaggi fortunosi e pericolosi per raggiungere le varie destinazioni.
Mostrava un coraggio indomabile. Una sola volta a Tortona abbandonò il Paterno in seguito agli allarmi e fu la notte in cui dagli apparecchi dei liberatori fu lanciato sulla città un sole artificiale che la illuminava a giorno e faceva supporre imminente un bombardamento a tappeto.
In pochi istanti la popolazione si arrampicò sul colle Vittorio e fuggì verso i prati di Scrivia. Anche don Sterpi lasciò la sua stanzetta e salì al Castello, ma per trattenersi con i bambini spauriti di Villa Charitas. Si trattava in fondo di una preoccupazione… transitiva.
Dopo i bombardamenti massicci operati dal mare e dal cielo su Genova, in uno dei quali lo stabile del Paverano, dove erano ricoverate alcune centinaia di alienate mentali, subì molti danni dalle bombe incendiarie, in una indescrivibile babilonia di urla e di gesti disperati delle povere inferme, si rese necessario lo sfollamento, che interessò poi ogni altro istituto di Genova e anche il Piccolo Cottolengo di Milano; e don Sterpi diresse personalmente il difficile esodo e, tessendo la tela della sua santità un po’ dovunque, allestì per i malati, per gli orfani, per i deficienti, per i cronici, nuovi soggiorni a Tortona, dove fu adibito l’Istituto Teologico, a Gavazzana nella casa dei suoi vecchi, a Montebello, a Sordevolo, a Induno e altrove. I padroni innanzi tutto: e i padroni nel linguaggio del Cottolengo, passato nel cuore e sulle labbra di don Orione e di don Sterpi, erano i poveri, specialmente gli inabili.
Il forno del Groppo intensificò la sua produzione, i camioncini e i mezzi di fortuna tracciarono la loro rete settimanale e giornaliera recando il pane della Provvidenza a così numerose famiglie e l’attività di don Sterpi non ebbe mai sosta.
Pazienza finché c’era a disposizione un automobile o un camioncino, sul quale egli prendeva posto in Domino accanto all’autista per dei tragitti anche lunghissimi, magari da Tortona a Venezia, a Roma. Ma dopo l’invasione tedesca al di qua della linea gotica, il carburante quasi scomparve e bisognava tesoreggiare all’estremo il poco che veniva dato in assegnazione.
Si vide allora don Sterpi non rinunciare affatto ai suoi viaggi caritativi compiuti nell’ansia di assicurare il buon andamento alle sue istituzioni che la guerra aveva accresciuto di numero e d’importanza, valendosi del treno, sempre esposto al pericolo dei mitragliamenti, o dei veicoli di fortuna.
Periodicamente visitava il noviziato e lo studentato di Bra, la tenuta di Sassello di recente donazione, le Case e gli Istituti di Genova, Milano, Villa Rosano, Venezia, Varese, Torino come se la guerra personalmente non lo interessasse: e non ebbe mai a subire neanche una scalfittura.
Sebbene non gli siano mancati gli incontri veramente drammatici come quello a cui abbiamo accennato indietro e un altro ancora più avventuroso nella zona delle Langhe. Alcuni partigiani volevano sequestrargli il camioncino, ma egli decisamente si rifiutò di consegnare quel mezzo di trasporto del quale si serviva per assicurare il pane a tanti poveri. I suoi argomenti non convinsero i partigiani che ordinarono a tutti di scendere. Discese Bianchi, il capomastro, discese l’autista, ma non discese don Sterpi che, fatto prigioniero, fu condotto al Centro di Comando e per tre giorni non diede più notizie di sé. Alla fine la sua tenace volontà prevalse ed egli riapparve, col camioncino dopo una serie di vicende burocratiche felicemente risolte.
Egli, che in tanti anni non aveva mai pensato di valersi della bicicletta, per quell’invincibile timore coltivato da chierico di scapitarne nel decoro, più di una volta, per amor di Cristo e per l’assistenza ai suoi poverelli, finì nell’incomoda posizione del portapacchi di uno squinternato velocipede. Ne sa qualche cosa don Benicchio, ora missionario in America, che dovette rimorchiarselo da Rosano a Tortona. Sotto il grave pondo il biciclo cigolava e il guidatore sudava le famose sette camicie per tenersi in equilibrio su di una strada di campagna tagliata da carreggiate, dato che don Sterpi come tutti gli inesperti tendeva a irrigidirsi invece di secondarne il movimento. Quando giunse a Tortona il povero don Benicchio si buttò esausto su di una panca.
Ma don Sterpi che aveva scoperto il suo Automedonte di fortuna, non lo mollò più. Se c’era fretta e mancavano i mezzi ordinari, chiamava Benicchio e avanti in Domino. Lo spettacolo aveva la sua buona dose di ilarità, ma a quei tempi c’era altro da pensare che a ridere. La guerra ne ha spazzato via parecchie di convenzionalità sui modi di viaggiare.
Sempre sulla breccia audace e infaticabile
L’ininterrotta sequenza di fatiche, aggiunta alle preoccupazioni morali, incideva profondamente nelle sue energie. Alcune case della congregazione subirono danni dai bombardamenti. Non mancarono neppure le vittime tra i religiosi.
Alla Colonnata di Firenze un chierico rimase ucciso con venti ragazzi che egli accompagnava a casa da scuola. A Reggio Calabria perirono in una incursione tre suore. Un giovane coadiutore, Luigi Carminati, fu mitragliato e ucciso mentre con il camioncino era in giro per la raccolta del grano, nei pressi di Casei Gerola.
Questi lutti si ripercuotevano nell’animo del Superiore Generale, ma non frenavano il suo zelo sempre regolato e potenziato dallo spirito di pietà. Egli si andava consumando di amore verso Dio, verso la Congregazione e verso il prossimo.
La sua figura, ora un po’ appesantita e sempre più curva, accentuava i segni dell’invecchiamento. La bocca spesso si serrava sul mento pronunciato, come avveniva a don Orione negli ultimi tempi: il volto s’infiammava non per febbre ma per la continua tensione nervosa: le mani con maggior frequenza ripetevano quel gesto abituale di passare con la punta delle dita sulle palpebre per temperare l’ardore degli occhi. Egli soffriva ma non si arrendeva. Era evidente che voleva lavorare fino all’estremo delle forze per cadere sulla breccia.
Il suo esempio faceva scuola come le sue lettere circolari, tutte riboccanti di zelo per la religiosa osservanza. Il delicato lavoro di formazione svolto fra i chierici e la saggia propaganda delle vocazioni portarono la congregazione a sviluppi sempre maggiori. Le sacre Ordinazioni, numerose anche durante gli anni di guerra, la rinvigorivano di elementi sicuri.
Don Sterpi che considerava i giovani come la pupilla dei suoi occhi, volle allestire la casa per il loro tirocinio apostolico e riattando l’antico Castel Burio (Asti) vi condusse il primo gruppo di sacerdoti che là dovevano applicarsi intensamente allo studio e agli esercizi di pietà affrontando le esperienze del sacro ministero pre rendersi veramente degni della loro missione.
Per i probandi trasformò in istituto un’antica fabbrica avuta in dono dalla famiglia Bianchi di Buccinigo e altre case del genere iniziò a Patrica, a Campocroce, a Lu Monferrato.
A Diano Marina entrò in possesso di una villa lasciata alla congregazione dalla signora Douglas Thomitz facendone una specie di colonia agricola del Convitto San Romolo e del Piccolo Cottolengo Sanremese da lui aperto, tramite il signor Carlo Alberto cognato del nostro don Marabotto, nei locali dell’antico ospedale vicino alla Madonna della Costa.
Consolidando le istituzioni già esistenti e iniziandone delle nuove, portò la congregazione a un alto livello di attività e di rendimento, pur dovendo manovrare in piena guerra. Le difficoltà erano diventate sprone e incentivo al suo zelo per l’affermazione della carità. A Induno la villa dei Fratelli Bassetti, che aveva accolto le sfollate del Piccolo Cottolengo Milanese, fu offerta generosamente alla congregazione che tuttora vi mantiene un nutrito gruppo di ricoverata.
Se le circostanze lo avessero consentito, niente avrebbe potuto trattenere don Sterpi dalla visita alle Case di America e di Polonia. Ma dovette accontentarsi di seguirne l’andamento attraverso gli scarni acconti dei direttori provinciali e locali.
Ebbe peraltro un grave dolore da aggiungere alle sue preoccupazioni e fu il ritiro dei religiosi della Piccola Opera dalle Case di Rodi e l’espulsione violenta dall’Albania nell’immediato dopo guerra.
Per onorare la memoria di don Orione e difenderne la conoscenza raccolse il meglio dei suoi scritti in un prezioso libretto intitolato “Lo spirito di don Orione”. Volle che uscisse a stampa una biografia del Fondatore e, soddisfatto del lavoro, ne fece personalmente omaggio alle massime Autorità religiose e civili, curando che il volume da presentare fosse rilegato in pelle. Inoltre promosse un “Numero Unico” e la raccolta, in due volumi, degli elogi funebri detti durante i primi due anni dalla morte del Fondatore.
Del capolavoro marmoreo di Arrigo Minerbi, raffigurante “Don Orione morente” ordinò una riproduzione in bronzo da collocare al santuario della Guardia.
Ma la memoria di don Orione doveva palpitare ancora di più nei cuori ed egli mantenne viva la “Giornata degli Amici” ogni primo martedì a Milano e ogni primo giovedì del mese a Genova: e intanto con l’appoggio dei Benefattori già pensava alla ripresa dei lavori per il compimento del fabbricato del Piccolo Cottolengo Milanese e col prestigio della sua virtù poneva le basi morali per la munifica donazione che il Comune di Genova avrebbe fatto alla congregazione dello stabile di Santa Caterina risorto dalle macerie.
Altro che l’ombra di don Orione, sotto questo aspetto! Don Sterpi ne rappresentava la proiezione nel tempo e tutti vedevano in lui una garanzia per la continuità dell’istituzione. Il “Decretum laudis” da lui sollecitato con tante opere di bene, significava l’approvazione delle regole e della Congregazione da parte della Santa Sede.
Il secondo Capitolo Generale
Sotto il peso di così immani fatiche e di tante preoccupazioni don Sterpi dovette forzatamente arrestarsi colpito da paresi il 19 maggio 1944.
Suo padre era stato offeso da una paralisi, ma era sopravvissuto per altri 17 anni, morendo poi piamente ultra novantenne. Si sperava che anch’egli potesse sopravvivere a lungo. Le cure dei medici chiamati al suo capezzale portarono l’infermo a un miglioramento decisivo. Dopo qualche settimana si poteva considerare fuori pericolo. Tanto bastò perché egli tornasse subito sulla breccia sospintovi dall’ansia tormentosa di riapparire tra i suoi figli spirituali e tra le migliaia di ricoverati che la Provvidenza gli aveva affidato.
Purtroppo, forse in conseguenza delle cure a cui si era sottoposto, si manifestarono dei mutamenti nella sua psicologia. Non giova tacerlo: Don Sterpi, a noi che lo conoscevamo da tanti anni come un esempio vivente di prudenza e di sano realismo, rivelava una condiscendenza, una generosità di iniziative nel trattare persone e affari da lasciar perplessi e preoccupati.
Povero don Sterpi! Il Signore lo voleva perfezionare attraverso le umiliazioni, privandolo lentamente di quell’energia mentale e di quella resistenza alle fatiche che erano il suo forte.
Egli per primo avvertiva in sé l’impossibilità di reggere un così tremendo incarico e il Visitatore Apostolico non dovette usare nessuna insistenza nell’esortarlo a declinare su di altri la responsabilità di Superiore.
Stava per scadere il primo sessennio ed era imminente il Capitolo Generale. Al chiudersi di un corso di Esercizi Spirituali a Montebello, nel luglio del 1946, don Sterpi, esausto di forze pregò insistentemente i confratelli anziani di sollevarlo dal governo della congregazione.
Poche settimane dopo si tenne il Capitolo Generale nella Casa Madre di Tortona a cui egli attivamente partecipò; e fu chiamato a succedergli don Carlo Pensa. Don Sterpi si appartava, ma non c’era che da procedere su quel binario di vita religiosa rappresentato da lui e da don Orione per raggiungere sicuramente le mete fissate da Dio alla congregazione.
Luci di tramonto
La vasta famiglia dei religiosi, dei beneficati e dei benefattori si rivolgeva a lui come all’interprete dello spirito del Fondatore, del quale egli era un’immagine palpitante, e coniava per lui la qualifica di “padre della Congregazione”, a significare che egli continuava a profondere in essa i tesori della sua mente e del suo cuore ed accentrava in sé l’affettuosa venerazione di tutti.
Quasi timoroso di limitare con la sua presenza il prestigio di chi subentrava a lui nel governo della congregazione, completando il capolavoro della sua umiltà e della sua delicatezza, si ridusse a vivere in due stanzucce della sua vecchia casa di Gavazzana, già trasformata in una succursale del Piccolo Cottolengo Genovese e rimasta libera dopo la partenza delle ultime ricoverate.
L’istinto della carità riaffiora subito in lui.. La casetta gli pare troppo spaziosa per servire solo di soggiorno a lui e al sacerdote che don Pensa ha voluto mettergli a fianco come collaboratore. Perciò comincia a ospitare prima uno, poi dieci, poi venti piccoli fanciulli abbandonati e presto si trova ad essere un pater orphanorum che non sa più dove mettere i suoi figlioli.
Settimanalmente don Pensa si recava a visitarlo per conferire con lui. Cresciuta la famiglia dei suoi orfanelli, egli si decise di scendere a Tortona per preparare ai più grandi un collegetto all’ombra del Santuario, nei locali dell’antico convento, oggi rimesso a nuovo, e iscriverli alle scuole pubbliche.
In quest’asilo di carità riviveva l’ambiente morale dei primi tempi, in famigliarità di metodi educativi e in gioconda semplicità di mezzi.
Tra quei ragazzi di Gavazzana e di Tortona don Sterpi profondeva le doti di padre con ingenua tenerezza. Ricordo come si divertiva con un certo Dante, un frugoletto di cinque anni, dopo che il predicatore delle Quarantore a Gavazzana, ebbe una volta solennemente scagliato dal pulpito quel grande nome. Il piccino naturalmente s’era subito sentito parte in causa non potendo immaginare che a questo mondo ci fosse un altro Dante fuori di lui.
A Tortona, dove finì di stabilirsi proprio per amore dei suoi ragazzi, occupava la solita stanzetta e lì attendeva soprattutto alle pratiche di pietà e a scrivere quei suoi brevi ispirati messaggi che dovevano raggiungere i confratelli, i benefattori e gli ex allievi e far sentire in modo tutto spirituale la sua presenza tra di loro. Spesso quelle poche righe erano accompagnate dal dono di un’immaginetta.
In quella stanzetta riceveva continue visite. Era tutto lieto se poteva rendersi utile, accontentava i desideri espressi da parte di confratelli, di Amici, di Ex Allievi e di sconosciuti che a lui ricorrevano.
Compiva anche dei viaggi a Milano e a Genova, come in altri centri della congregazione e in queste sue peregrinazioni tra i chierici, tra i ricoverati, tra i giovani degli istituti, lo accompagnava sempre un sacerdote: don Vido, fin dai tempi del suo soggiorno prolungato a Diano Marina, e poi don Giuseppe Zambarbieri che figlialmente lo assistette negli ultimi anni.
Usciva però spesse volte da solo quando dalla Casa Madre voleva recarsi al Santuario della Guardia e alla tomba di don Orione. Le mani intrecciate all’altezza del petto, il capo un po’ reclinato sulla destra, col suo passo divenuto grave e quel contegno di modestia tanto abituale, percorreva a piedi il lungo tratto di strada, solo con i suoi pensieri che erano altrettante preghiere, e dava a tutti un esempio pratico di umiltà e di mortificazione.
Ma se si trattava degli altri, oh, allora come appariva il suo spirito di premurosa carità e di condiscendenza alla memoria che, per la malattia, ricusava di servirlo in tante cose, pareva che funzionasse alla perfezione quando era in gioco una richiesta da soddisfare.
Difficile invece riusciva toglierlo a quel suo volontario nascondimento per portarlo in mezzo agli altri nei giorni di festa e di convegni.
Tuttavia non poté sottrarsi ogni volta all’onda di affetto che lo circondava e ne richiedeva la presenza per meglio affermarsi.
Il 13 giugno 1947 al Santuario della Guardia celebrò fra la comune esultanza, un po’ velata di mestizia, il cinquantesimo della sua Ordinazione sacerdotale e in questa ricorrenza ebbe una preziosa testimonianza di affetto dal Vicario di Cristo.
Un principio di sordità lo isolava un poco dal mondo circostante e favoriva il suo continuo colloquio con Dio: le forze fisiche si allentavano sempre più nel suo organismo consunto da tanto lavoro e la depressione psichica si rivelava in quella sua scrittura minuta e chiara come sempre, ma tremula e con significative tendenze ad abbassarsi. La paralisi, malgrado le cure, riprendeva inesorabilmente il suo dominio.
Solo il sorriso non lo abbandonava mai quando, da quella stanzuccia sempre ordinata, tra quelle carte e immaginette che egli amorosamente veniva sistemando, si volgeva a riconoscere i visitatori che entravano per dimostrargli il loro affetto o raccomandarsi alla sua preghiera.
Al chiudersi dell’Anno Santo, nell’autunno del 1950, si portava per l’ultima volta a Roma per lucrarvi il Giubileo. Il primo novembre si trovava tra la folla che gremiva la Piazza San Pietro nell’ora solenne della proclamazione del dogma dell’Assunta e il 21 dello stesso mese era ricevuto in speciale udienza dal Santo Padre.
La gioia d’aver assistito al trionfo della Vergine gli illuminava lo sguardo. Chissà quali vibrazioni di Paradiso avrà provato quel suo cuore semplice e puro risalendo dallo spettacolo di fede della Chiesa Militante alla visione dell’eterno trionfo. Di quel gaudio si colmano gli ultimi mesi della sua esistenza terrena.
Dopo essere passato ancora una volta per tutte le Case di Roma e per gli Istituti viciniori, don Sterpi il 24 novembre rientrava nella Casa Madre di Tortona. Era un ritorno definitivo, salvo qualche rara sortita a Genova, a Milano e Buccinigo, dove la sua visita dava luogo a commoventi scene di affettuoso commiato.
Trascorreva la maggior parte del tempo nella sua stanzetta fra i libri e la scrivania e molte ore dedicava alla preghiera, sostando con devozione nel coretto attiguo dove, per speciale concessione, poteva custodire il SS. Sacramento e celebrare la Santa Messa, sia pure a stento per difficoltà di movimenti e un sempre più grave indebolimento della vista.
Compì l’ultima sua visita a Genova il 4 ottobre 1951. Al ritorno sostò al santuario di San Bernardino per la consueta visita alla Madonna. Si fermò a lungo con gli occhi fissi verso il tempietto. Scese anche in cripta per congedarsi dal “Direttore” e baciare ancora una volta la sua tomba. Si accomiatò poi anche dalle suore. A San Bernardino non sarebbe tornato più e pareva che lo sapesse.
Sereno trapasso
Si avvicinava il giorno del suo onomastico, il 4 novembre, festa di San Carlo Borromeo. La paralisi che lo aveva colpito nuovamente il 21 novembre dell’anno prima a Roma, faceva rapidi progressi nel suo organismo disfatto. Pareva proprio che per la domenica di San Carlo egli dovesse rinunciare alla santa Messa: invece si riprese temporaneamente e riuscì a celebrare con uno sforzo di volontà e con grave sofferenza. Più tardi compì la vestizione di un gruppo di probandi.
Lo circondavano in quella fausta e ad un tempo mesta ricorrenza, tutti i Superiori maggiori accorsi a testimoniargli e a presentargli l’affetto dell’intera congregazione. Mancava don Pensa che si trovava in America per la visita canonica alle Case. Insistette per celebrare anche il giorno di San Martino Patrono della parrocchia di Gavazzana e fu quella l’ultima sua Messa.
I progressi del male si fecero allarmanti tanto che si ricorse a diversi consulti. Spontaneamente ai medici curanti si unirono altri medici che amavano don Sterpi e già lo avevano visitato. Tutta la congregazione si mobilitò in preghiera attorno all’infermo per il quale nessuna speranza umana era più concepibile.
La sua pietà rifulgeva nell’ora del suo transito come per coronare tutta un’esistenza immolata all’amor di Dio e del prossimo.
Ai Figli della Divina Provvidenza che vedevano spegnersi il loro secondo padre, si unirono le Autorità religiose della Diocesi con l’Arcivescovo Mons. Melchiori e l’ausiliare Mons. Angeleri che visitarono più di una volta l’infermo. Accorsero da lontano amici e benefattori.
L’umile cameretta del Paterno vide in quei giorni incontri commoventi e alle parole di conforto don Sterpi rispondeva, senza che il suo sguardo potesse ravvisare le persone: “Siamo nelle mani di Dio… Come vuole il Signore… Iddio abbia misericordia di noi… Deo gratias!”.
Tra i suoi visitatori ci fu un gruppetto di nostri missionari partenti per il Goias. Nel pomeriggio di domenica 18 novembre, dopo la funzione di addio svoltasi al Santuario, essi sostarono alla Casa Madre ed entrarono in punta di piedi nella cameretta dell’infermo per averne la benedizione. Don Sterpi che non poteva vederli ed era in preda ad un assopimento profondo la espresse con debole voce nella formula latina e abbandonò quella sua mano stanca al bacio e alle lagrime di tutti.
Sul mezzogiorno del lunedì 19 novembre, mentre l’infermo conservava ancora la piena lucidità di mente, si credette opportuno amministrargli l’Estrema Unzione. Fu il buon canonico Perduca a disporre don Sterpi che si raccolse in preghiera e seguì con edificante pietà il sacro rito. In quella medesima ora in tutte le comunità di Tortona si pregava dinanzi a Gesù Sacramentato.
Alle ore 18 del giorno seguente, 20 novembre, gli fu portato in forma solenne il Santo Viatico. Aveva passato una notte molto tranquilla alternando periodi di pesante assopimento a periodi di preghiera mormorata a fior di labbra o pronunciata ancora con accento chiaro.
Nel pomeriggio don Zanocchi, Vicario generale, gli aveva partecipato il telegramma con la benedizione del Santo Padre ed egli ebbe come un labile risveglio e mostrò di comprendere. Il canonico Perduca gli impartì l’assoluzione annunciandogli imminente la visita di Gesù.
La cameretta si gremì di religiosi: sacerdoti, chierici e probandi stipati anche nello stretto corridoio e nella stanza vicina. L’ultimo incontro di Gesù Eucaristia con il pio sacerdote morente fu cosa edificante.
Ancora una volta egli benedisse e intento il suo colloquio col Signore sfumava inavvertitamente nel sopore preagonico.
Ad uno ad uno tutti passarono accanto al letto per baciargli la mano ormai quasi inerte e rattrappita. C’erano anche i suoi orfanelli scesi da Gavazzana con viva trepidazione e con affetto davvero di figli prediletti che vedono scomparire il loro amatissimo padre.
La notte sul 22 fu quieta. Rimase quasi sempre assopito mentre il suo respiro si andava progressivamente trasformando in rantolo. All’alba si recitarono le preghiere degli agonizzanti. Tremava la voce a chi gli suggeriva: “Gesù, Giuseppe e Maria… spiri in pace con voi l’anima mia” E don Sterpi rispondeva in un soffio parola per parola e baciava il Crocifisso che gli veniva accostato alle labbra.
Verso le nove l’Arcivescovo di Tortona venne ancora una volta a confortarlo della sua presenza e della sua preghiera. C’erano tutti i superiori maggiori, i sacerdoti delle Case di Tortona, la Madre superiora e la Vicaria delle Suore. I due fratelli Zambarbieri don Pino e il chierico Alberto che da tante settimane curavano con amore il padre della Congregazione, cedevano il posto ad altri osservando da lontano, in silenziosa preghiera. Parecchi dei presenti non sapevano trattenere le lagrime quando il respiro del morente si fece affannoso e le contrazioni del volto segnarono l’imminente transito.
Ai capi del letto vennero accese, come da suo antico desiderio, le quattro candeline benedette della Madonna, da lui custodite con cura gelosa per la sua ultima ora. E così, mentre dagli astanti si mormorava il santo Rosario, gli occhi fissi su quel volto reclinato e scosso dallo strappo agonico, alle undici del 22 novembre l’amato padre affidava la propria anima alle braccia materne di Maria SS. da lui teneramente invocata.
Questa, che era la sensazione dei presenti, subito prostrati in preghiera, ebbe una conferma sorprendente pochi istanti dopo, quando don Zanocchi lesse la singolare invocazione contenuta in una lettera sigillata di don Sterpi da aprisi solo dopo la sua morte: “…E prego la Madonna, mia buona madre che, come essa ha voluto essere presentata al tempio, così voglia presentare la mia anima al suo Divin Figlio, affinché per la sua intercessione la ammetta nel tempio della gloria”.
Lo scritto portava la data del 21 novembre 1948, festa della Presentazione di Maria SS. al Tempio.
Mentre durava ancora l’eco dolcissima della festa, la Madonna maternamente esaudiva il desiderio del venerando sacerdote, che lasciava la terra per il Cielo all’età di 76 anni.
Accanto a don Orione
Con la notizia della morte si sparse in città la voce della prodigiosa coincidenza e fu subito un concorso straordinario di popolo accanto alla salma che, rivestita dei paramenti sacerdotali, fu prima composta su di una poltrona nel coretto dove don Sterpi diceva la Messa, poi fu trasportato nel parlatorio trasformato in camera ardente per essere trasferita a sera nella cappella del Paterno.
Tra i visitatori che sostavano in preghiera si notavano, oltre i religiosi e le suore della Piccola Opera, Autorità, alunni, ex allievi, orfanelli, ricoverati, molti membri del clero diocesano, benefattori e amici, suore dei diversi istituti cittadini.
I bambini si accostavano sereni a don Sterpi che pareva dormisse e la morte non aveva per essi alcun aspetto pauroso.
La figura dell’umile sacerdote ingigantiva nella stima e nella venerazione generale. La città si andava tappezzando di annunci funebri nei quali già appariva l’elogio incondizionato a a interpretare il sentimento di tutti. La diocesi intera si muoveva intorno alo scomparso a cominciare dall’Arcivescovo il quale disponeva che i funerali si svolgessero solenni nella Cattedrale.
La notizia diffusa a tutta l’Italia e dovunque erano le istituzioni orionine, provocava dalle supreme Autorità e dai privati estimatori cumuli di telegrammi di partecipazione al lutto che colpiva tanto profondamente la congregazione, e convolgeva a Tortona il cuore e le rappresentanze degli Istituti della Divina Provvidenza.
Alle diciotto di venerdì sera, 23 novembre, la salma adagiata nella bara veniva esposta nella chiesa parrocchiale di San Michele ove ininterrotto durò il pellegrinaggio del popolo fino a tarda notte.
Sabato 24, alle ore nove, ebbe inizio il solenne funerale. Era giorno di mercato e Piazza del Duomo, Via Emilia e le arterie principali della città erano invase da una folla densa e fitta. L’autorità municipale provvide un adeguato servizio d’ordine.
Il corteo funebre, formato da rappresentanze e dal popolo, mosse dalla chiesa di San Michele preceduto dal Vescovo Ausiliare e, percorsa Via Emilia, entrò in Duomo. Mons. Melchiori celebrò pontificalmente, mente i chierici dell’Istituto teologico eseguivano la Messa a tre voci pari di Lorenzo Perosi. Prima delle esequie l’Arcivescovo disse l’elogio funebre soffermandosi particolarmente sulla virtù caratteristica dell’estinto, l’umiltà.
Rievocati alcuni episodi rivelatori, sottolineava i caratteri della sua umiltà e accennava commosso agli orfanelli che attorniavano la bara tenendo in mano viole e garofani bianchi, testimoni viventi di un amore di predilezione sbocciato dall’umiltà per le creature sperdute e derelitte. “Questo funerale – conchiudeva l’Arcivescovo - è un trionfo: un trionfo della umiltà eroica di don Sterpi cui Iddio ha riservato un premio ben più grande nei Cieli; ed anche, a chi sappia meditare, un monito, un richiamo per questa nostra ora che di umiltà ha estremo bisogno”.
Ricomposto il corteo interminabile, reso ancor più imponente dalla doppia siepe di folla devota che, sospeso il mercato, si accalcava ai suoi lati e muoveva verso il Santuario, ma poiché la città reclamava come una benedizione il passaggio della bara, si dovette raddoppiare l'itinerario percorrendo Corso Leoniero, la circonvallazione verso Porta Voghera, la Via Emilia e il Corso Genova (oggi Corso don Orione).
Il corteo era folto di bandiere e di stendardi: lo componevamo le comunità religiose e gli istituti di formazione e di educazione della città, diverse bande musicali, moltissime rappresentanze delle nostre Case e una folla immensa frammista di sacerdoti, di ex allievi e di benefattori.
Mentre il feretro, seguito dal fratello, il dottor Achille Sterpi, e dai parenti, erano i Superiori maggiori della congregazione, le Autorità religiose, civili e politiche e una densa moltitudine di fedeli.
Era passato il mezzogiorno e un pallido sole autunnale si stemperava nel cielo azzurrino, quando il corteo giunse al Santuario e la bara venne scoperta per dare modo ai figli spirituali e agli amici giunti da lontano, di rivedere quelle sembianze dolci e miti che parevano scolpite nell’avorio.
La tumulazione ebbe luogo più tardi. La bara recata in cripta rimase esposta per tutto il pomeriggio e per la domenica successiva, 25 novembre, quando alle ore 18,30, dopo il canto dei Vespri dei defunti in un’atmosfera che rievocava i riti catacombali, venne fatta calare lentamente nella tomba. I Figli della Divina Provvidenza e le Piccole Suore Missionarie della Carità innalzavano il canto soave dell’Ecce quam bonum quasi a sigillare nel sepolcro del padre un proposito di unione e di carità che non teme la morte.
La tomba di don Sterpi è posta di fronte a quella di don Orione. Si passa all’antifona della Chiesa che celebra i fasti dei Principi degli Apostoli: Quomodo in vita sua dilexerunt se, ita et in morte non sunt separati.
Don Orione è quasi a contatto del vecchio collegio di San Bernardino e nel misterioso sopore ascolta quelle voci lontane che tanta eco suscitarono nel mondo.
Don Sterpi dorme la sua pace dal lato opposto verso l’istituto teologico dove ha profuso il meglio di sé.
Il tempo finisce per chi rimane, ma invece di stendere sulla loro tomba il velo di polvere che tutto investe quaggiù, porta ogni giorno nuovi tributi di venerazione, di ricordi e di preghiere che diventano spesso invocazione.
Chi entra non può sostare dinanzi a uno solo dei grandi devoti di Maria, che continuano a promuoverne la devozione.
Dalle due tombe s’irradia sfavillante la vita della congregazione nei costanti colloqui dei figli coi Padri. Su quel fondamento s’innalza maestoso il Santuario costruito dalle loro mani, infiammato dal loro cuore che ha offerto alla Madonna i suoi palpiti mortali per battere eterno nel gran pulpito di Dio.