Aldo Del Monte (Montù Beccaria, 31 maggio 1915 – Massino Visconti, 16 febbraio 2005) fu Vescovo di Novara.
Mons. ALDO DEL MONTE
Il commemorare Don Orione, a parte l’insufficienza delle mie parole per una figura tanto cara, mi ha dato la gioia di ripensare per un momento alla nostra amata Tortona, ai fili di grazia che l’hanno resa paese privilegiato della carità, e testimone delle meraviglie del Signore, durante la vita e dopo la morte del servo di Dio Luigi Orione.
E’ facile che capiti a me, che voglio parlarvi di Lui, sia pure brevemente, quello che è capitato ad un pittore mio conterraneo che volle in quegli anni cimentarsi con la figura fisica di Don Orione. Immaginatevi se Don Orione fosse l’uomo delle pose! Ma il pittore Soccaggi tanto fece ed insistette… da riuscire a piegarlo forse con il titolo di un’opera di misericordia. Ma la tela che ne saltò fuori fu un disastro perché, dice Don Piccinini, “gli si chiuse completamente, quasi con la impenetrabilità della sfinge”
Io non posso essere tanto sfortunato, perché, in tutti i casi, parlo a gente che ha conosciuto Don Orione o che, perlomeno, ne ha già sentito parlare con tanto amore, da sapere ricostruirne la figura, anche da schizzi informi e da linee non del tutto felici.
Bisogna, comunque, che vi porti a quegli anni e a quella cittadina di provincia, dove e quando maturò la mia testimonianza modesta ma molto interiore, perché di là che io attingo le mie convinzioni ed impressioni di stasera, non avendo fiducia nelle commemorazioni che si preoccupano delle parole.
Io conobbi Don Orione nel 1929. Il mattino in cui, dopo aver avuto una lunga battaglia in casa, mia madre mi condusse in Seminario, a 11 anni; eravamo fermi alla stazione di Voghera. E mia madre, seduta in sala d’aspetto, senza che quasi io me ne accorgessi, piangeva. C’erano due preti seduti vicino: uno sui 60 anni circa e l’altro più giovane. Fu quello più anziano che si accorse di mia madre: le si avvicinò, le domandò che cosa avesse, e si svolse un dialogo di 10 minuti, fino all’arrivo del treno, che riportò a mia madre la sua serenità e la fiducia nella mia avventura. Quello era Don Orione. Nemmeno mia madre lo conosceva: e quel giovane prete, prima che salisse sul treno, la trasse in disparte e le disse: ”Guardi che quello è Don Orione!”
Nel 1932 ebbi la fortuna di rivederlo. Il nostro seminario era a Stazzano: distava 25 chilometri da Tortona. Non so più quale fosse l’occasione, ma un gruppetto di cinque seminaristi si portò in città a presenziare all’investitura del Rettore, nominato in quei giorni canonico onorario. Potete immaginare quanto interessasse a Don Barco, era lui il Rettore!, la nomina a canonico onorario…
Salito sul treno si mise a ridere, come fosse il compagno di una imprevista scampagnata e ci disse: “In Cattedrale bisogna pure che ci andiamo, perché mi devono mettere la cappa: ma so io dove condurvi a Tortona! Andremo da Don Orione” E così fu.
Il treno per il ritorno non l’avevamo che verso sera. Abbiamo passato alcune ore a S. Bernardino dove c’era il finimondo. Un cantiere interamente costituito da chierici: badili, carriole, ponti, calce, mattoni… Il santuario era al livello del pavimento della strada, era stata costruita la cripta.
Don Orione disse delle cose bellissime in quell’occasione: parlò di una Madonna altissima, tutta in rame, era per questo che andava raccogliendo le pignatte!, in modo che “la Santa Madonna” potesse vedere tutta la città e benedirla dall’alto. Poi ci condusse al Paterno: io notai che portava anche lui un abito sbiancato dal sole e dalla polvere e portava delle scarpe così povere che mi rimasero impresse. Nella sua camera entrò solo il Rettore: a noi fece portare cinque pezzi di pane, perché avevamo fame. Ma il mio lo conservai a lungo, perché mi sembrava una irriverenza consumarlo, dal momento che mi era stato consegnato dalle sue stesse mani.
Il santuario sorse come per incanto sulla strada Genova – Milano ed improvvisamente Tortona fu sorpresa e trascinata da uno spettacolo di fede di cui era difficile valutare la dimensione e so che alcuni ne misero in dubbio persino l’opportunità, tanto divenne travolgente. Alludo alle celebrazioni della festa della Madonna della Guardia.
Tutto il triangolo Tortona, Voghera e Novi era letteralmente coinvolto in quella celebrazione: non si sapeva da che parte venisse tanta gente né dove andasse a finire. Il momento culminante, se le mie impressioni sono esatte, era quello della processione. Incominciava verso il tramonto, saliva sul Castello passava per la piazza della Cattedrale, dove si recitava ad alta voce il Credo, e faceva quindi ritorno al Santuario.
Io ero ormai un alunno di Liceo. Rompevo le mie vacanze e facevo i 60 Km. Per essere presente a quella sagra della fede. Per tre anni di seguito, per tutto il Liceo, dunque, mi misi al fianco di Don Orione che accompagnava la processione segnando il S. Rosario. La sua voce era rauca, la sua corona continuava a muoversi tra le sue mani, la sua devozione era profondissima, i suoi occhi – sarà difficile parlare degli occhi e dello sguardo di Don Orione! – componevano tutto quello spettacolo in una visione di fede di cui nessuno come Lui conosceva la profondità. Ed eccoci sul Castello. C’è una vecchia torre, sorta sulle rovine di una fortezza espugnata dal Barbarossa. In un batter d’occhio Don Orione vi era sopra e quella fiumana di gente era mossa da una voce di tuono che celebrava le glorie della Santa Madonna. Non vi erano ancora gli altoparlanti: lo stupore e la commozione colpivano la folla per il vigore di quella voce ed il fuoco di quelle parole.
In quegli anni, eravamo nel 1934–35, il messaggio di Don Orione si era già svelato nella sua pienezza. Guardare nella vita dei Santi, da vicino, è un po’ sempre come guardare in un abisso. Non era diverso il caso di Don Orione; anzi vorrei dire che la cosa era vera particolarmente per Lui. La sua Congregazione rendeva già noto il nome di Tortona in tutto il mondo; le sue opere avevano già svelato le dimensioni di una carità che dava immediatamente il senso delle “meraviglie di Dio”; quel povero sacerdote, tanto povero da fare compassione, era diventato fisicamente la personificazione di una Parola, di un disegno, di una linea di Chiesa che non… toglieva la sete, ma la faceva venire, non conciliava la pace come pigrizia ma spingeva alla guerra come pace, al dono di sé come consumazione, alla fedeltà come definitiva messa in Croce.
C’erano di quelli che si erano detti scandalizzati di quello spettacolo di chierici in cantiere; altri, noi li ascoltavamo tutti i giorni, trovavano a ridire di quella forza carismatica che non guardava alle ore dell’orologio per muovere le folle alla fede; altri ancora tentennavano il capo davanti a quella Congregazione così estesa che, dicevano, sembrava l’arca di Noè. Allora affioravano le ultime tentazioni di una meschina rivincita umana, che presumevano di mettere in evidenza il non senso di quel messaggio, la sua precarietà umana, la insignificanza di quell’uomo che sembrava veramente uno “straccio”, il facchino della buona volontà, più che della carità.
Con questi sobri accenni io voglio alludere, seppure rispettosamente, a molte pagine drammatiche che fanno da cornice alla vita di Don Orione e che documentano al vivo quanto la sua esistenza non sia stata un idillio. Vi alludo semplicemente, perché chi le conosce non fa fatica a ripensarle e chi non le conosce è sufficiente che sappia che vi furono.
Ma richiamo queste realtà solo per mettere in luce la potenza della grazia e la forza della santità. Noi allora eravamo studenti di teologia. La Provvidenza ci aveva collocati in quel paese, in quel seminario, in quella vocazione, che sembravano fatti apposta per essere coinvolti personalmente nella sorte di quel dramma commovente dei disegni del Signore, che si svelavano in un modo così evidente ed irresistibile in quell’uomo di Dio.
Voglio dire che dal Liceo in avanti buona parte degli studenti del Seminario si sentivano stranamente imparentati con Don Orione e con la sua Congregazione. Non già perché i suoi chierici venivano alla nostra stessa scuola, non già perché i suoi preti sembravano dappertutto al servizio della Diocesi e della parrocchia come fossero dei preti diocesani; e nemmeno perché uno dei suoi più intimi amici, il Canonico Perduca dell’Opera di Don Orione, era nostro Direttore Spirituale… e potrei citare molti altri motivi di famigliarità. Ma non erano questi fatti che ci imparentavano spiritualmente con Lui. C’era qualcosa di più, e vorrei accennarvi senza enfasi. C’era già per l’aria l’avvisaglia di scelta sacerdotale.
Da una parte faceva capolino una scelta interessantissima, fatta di saggezza e di conti che tornano, fatta di impegno ragionevole e nelle piene dimensioni canoniche, fatta di intelligenza pastorale e di fiducia nelle istituzioni e nelle strutture: e tutto questo intendo affermarlo senza sottintesi e secondi fini. Si trattava di un aspetto oggettivo, di una vita di Chiesa e di una prestazione sacerdotale, assolutamente legittime e previe che esaltavano un attivismo disinteressato e nobile dunque, capace di reggere una distinta teorizzazione della vita sacerdotale.
Dall’altra c’era la realtà della testimonianza di Don Orione. Essa era fatta soprattutto di “crocifissione” e lasciatemi dire…persino di fallimento visto sotto un certo aspetto prudenziale, nonostante le grandi opere sparse in tutto il mondo. Era fatta di itinerari segreti verso la consumazione; di risorse carismatiche; di carità senza limiti, di interiorità che superavano la persona, di trasparenza del mistero e di immolazione umana. E’ vero che tutti lo dicevano uno “straccio” eppure era al centro di tante tensioni spirituali; tutti lo dicevano incolto ed invece all’Università cattolica aveva incantato tutti con una celebre conferenza dal titolo “La c’è la Provvidenza”; tutti lo dicevano digiuno di teologia e scriveva delle lettere che hanno precorso il Concilio. E’ vero tutto questo. Ma di fronte ad una Chiesa più ufficiale, più prudente, più “saggia” le vicende della sua Congregazione sembravano veramente …”il piccolo resto”; Don Orione sembrava “il povero di Jahvé”!
Infine, un altro elemento che agiva su di noi: Don Orione erede della ricchezza spirituale della Diocesi:
Tutto questo non giocava invano su di noi. Una certa primavera, tra gli studenti di teologia il fascino di Don Orione si fece così vivo che furono parecchi i chierici che si posero il problema se non convenisse scegliere di farsi sacerdote in quella Congregazione.
In un gruppetto di amici, anzi avevamo già deciso per questa soluzione. E bisogna che accenni anche a questo episodio…in cui “non vidi” Don Orione. Intorno alla Pasqua di quell’anno questo spirito soffiava più forte che mai. E i migliori, probabilmente, non permisero che soffiasse invano: difatti due miei intimi amici, uno dopo l’altro, “videro Don Orione” e dal Seminario passarono alla Congregazione.
Un giorno credetti che fosse venuto anche il mio turno. Uscii clandestinamente dal Seminario e passeggiai per una mezz’oretta lungo un ballatoio stretto e tremolante in attesa di venire introdotto. Ma ad un certo momento la campana del Seminario suonò e purtroppo… bastò quel suono di campane per trattenere la mia vita sacerdotale da un impegno diretto con la Congregazione della Divina Provvidenza. Vorrei che non l’avesse divisa dallo spirito di Don Orione!
Poi Don Orione morì: siamo nel 1940. Io ero sacerdote da pochi mesi e collaboravo alla Direzione del settimanale diocesano “Il popolo dertonino” un vecchio foglio fondato ancora sotto Mons. Bandi, dal noto giornalista Ernesto Vercesi. Allora fui deputato dalla direzione a seguire i funerali di Don Orione. Tutti li ricordano: furono funerali interminabili, da Sanremo, a Milano e a Tortona. Ma furono funerali quelli?
Vi dirò che per alcuni giorni io ho seguito quel feretro che sembrava l’arcana apoteosi di un uomo, morto povero, disfatto nello spirito e nel corpo, che all’ultimo momento aveva avuto la forza di sospirare per tre volte il nome di Gesù! “Gesù! Gesù! …Gesù!”.
Il Vescovo Aldo Del Monte è nato a Montù Beccaria (diocesi di Tortona), il 31.5.1915, ordinato vescovo nel 1970, resse per molti anni la diocesi di Novara. Testo manoscritto di una conferenza tenuta alla Parrocchia di Ognissanti in Roma, nel 1968.