DON GIOVANBATTISTA LUCARINI
Dagli Appennini alle Ande, artefice di carità
Don Flavio Peloso
Ricordo che Don Giovanni Battista Lucarini era venuto in Italia per la canonizzazione di Don Orione (16 maggio 2004), pur sentendo declinare le forze e la salute. Contento, dopo aver rivisto e salutato i suoi confratelli, amici e benefattori, è tornato in Cile, sua seconda patria, che amava di cuore, avendo dedicato la sua vita nell'apostolato a bene dei poveri, dei bisognosi e "descapacidados" di quella terra, facendosi ovunque benvolere. Morì il 26 ottobre 2004, al Piccolo Cottolengo Orionino di Los Cerrillos - Santiago (Chile), a 89 anni d'età.
Era nato il 1° maggio 1915 a Pieve Bovigliana (Macerata). La sua vocazione orionina -lo ripeteva spesso e volentieri - "è una delle spighe che altrimenti sarebbero andate perdute", come si legge nella famosa lettera di Don Orione ai parroci d'Italia per la questua delle vocazioni. Fu accolto il 17 ottobre 1928 al "Paterno" di Tortona, da Don Orione stesso, che lo vestì dell'abito religioso nella notte di Natale successiva.
Compiuto il ginnasio (1928-1931), fu destinato all'Istituto Divin Salvatore a Roma per il corso di Filosofia alla "Gregoriana". Don Orione scrisse a Don Parodi, il 18 ottobre 1933: “Lucarini, visitato dai medici, fu dichiarato intaccato da tisi; tu lo metti in nota, ma difficilmente tornerà a Roma”. Dopo un periodo al Lido di Venezia, poté continuare gli studi e passare al noviziato di Villa Moffa di Bra l’anno 1934-1935. Don Orione si premurò di avvisare Don Cremaschi che “il ch. Lucarini non può esser messo a dormire sulla paglia”. Professò i primi voti religiosi nella festa dell'Assunta 1935; frequentò la Teologia a Genova; il 29 giugno 1939 fu ordinato sacerdote a Tortona.
Trascorse i primi anni di sacerdozio a Tortona, dividendosi tra Parrocchia di S. Michele e Santuario della Madonna della Guardia. Nel 1943, passò ad Alessandria come direttore dell’Istituto per fanciulli poveri e come parroco di San Rocco e Baudolino.
È di questo periodo la sua coraggiosa opera a favore dei perseguitati durante la seconda guerra mondiale. Aprì la sua casa canonica, rischiando la propria vita, per attuare l’invito dei Vescovi piemontesi del 1944: “absconde fugientes et vagos ne prodas” (Is 16, 3). Nascose e protesse fuggiaschi e ricercati dai nazifascisti: non solo oppositori, ma anche partigiani, politici e membri del comitato locale di Liberazione. Nell’agosto 1944, dopo il bombardamento di Villalvernia, egli fu tra i primi ad arrivare in soccorso del paese distrutto, con tanti morti e feriti.
Sempre nel 1944, ricevette la visita di monsignor Barale, segretario dell’arcivescovo Maurilio Fossati di Torino, che gli chiedeva di nascondere due ebrei di origine ungherese, ricercati dai nazifascisti e a rischio di deportazione nei campi di sterminio. Don Lucarini accettò questa responsabilità e fece travestire i due, madre e figlio, rispettivamente da suora e da chierico. Ogni giorno, i due, pur conoscendo poche parole di italiano, lo aiutavano servendo Messa. Il fatto che non facessero mai la comunione stupiva i fedeli, ma nessuno mai denunciò l’anomalia, pur essendoci un consistente premio in denaro per chi segnalava un ebreo alla milizia fascista.
Dopo il 25 aprile del 1945, i parrocchiani di San Rocco si meravigliarono al vedere la donna e il giovane in abiti civili. Conosciuta la verità, organizzarono una festa per rallegrarsi della lieta conclusione di quella vicenda così pericolosa.[1]
Don Lucarini, riferì a Mons. Barale (15 novembre 1945): “La informo che i due ebrei, non avendo potuto trovare altrove sistemazione, li ho sempre tenuti con me; essendo due ottime persone, mi dispiaceva metterli fuori dell’Istituto senza averli prima sistemati, in qualche modo. Ora però, sono riusciti a preparare tutti i documenti e nella settimana prossima partiranno per la Francia”.[2]
All’indomani della guerra, l’ingegner Eugenio Zorzi a capo della Comunità Israelitica di Torino espresse la riconoscenza all’arcivescovo per quanto la Chiesa torinese aveva fatto per salvare gli ebrei.[3]
Don Lucarini ebbe un forte senso umanitario di fronte alle persone in pericolo di vita, bisognose di aiuto, di rifugio, di affetto. Tali erano gli Ebrei quando si scatenò la tempesta omicida contro di loro. Tali erano i partigiani che conducevano una resistenza nascosta ed erano ricercati come criminali. In pericolo di vita, poi, furono anche gli esponenti del fascismo e i soldati sbandati dell’esercito tedesco, contro i quali si scatenarono vendette omicide.
Ricordo di avere ascoltato da Don Lucarini il racconto di un passaggio drammatico della sua azione di soccorso. Aveva ospitato e protetto partigiani; un importante “capo” fu salvo grazie a lui. Dopo alcuni mesi, però, aveva nascosti anche alcuni esponenti fascisti, a loro volta a rischio di rappresaglia e di morte. Fu scoperto e i partigiani l’avevano già messo al muro per ucciderlo. Lui fece il nome di quel “capo” partigiano da lui precedentemente salvato. Dopo breve tempo venne lui in persona e Don Lucarini ebbe salva la vita”.
“Allora ero forte e non so come feci a resistere. Ma la guerra e queste vicende mi sconvolsero profondamente. Chiesi ed ottenni dai miei superiori di partire missionario”.
E così, il 23 febbraio 1948, Don Giovanbattista Lucarini salpò da Genova per il Sud America con altri 11 missionari orionini. A Buenos Aires furono accolti da Don Carlo Pensa e, dieci giorni dopo, Don Lucarini con fratel Vittorio Baiardi proseguì col treno "transandino" per arrivare Santiago del Chile, il 12 aprile 1948. Qui iniziò il suo lungo, paziente e tenace apostolato a favore dei giovani, nel Collegio di Los Cerrillos, e dei poveri bisognosi di aiuto fisico e umano, nei Piccoli Cottolengo che fondò in Cile. Fu anche superiore provinciale in Argentina (1961-1964) e in Spagna (1964-1970). Dopo una parentesi di tre anni come economo a Genova Paverano, dove poté curarsi la salute, nel 1973 fece ritorno definitivo in Cile donandosi senza risparmio al bene degli ospiti e dei benefattori.
Schietto, aperto, di buono spirito e di sentita pietà, sensibile e generoso, Don Lucarini aveva lo stampo del pioniere che sapeva animare, superare difficoltà e tessere buoni rapporti con tutti. Per il suo multiforme apostolato in terra cilena ebbe decorazioni ed onorificenze che egli sempre attribuiva all’Opera e allo spirito di Don Orione di cui viveva. Per lui, prete, la vita era sacra, la vita di tutti, la vita senza aggettivi: italiano o tedesco, fascista o comunista, altolocati e facoltosi oppure campesinos e descapacitados del Piccolo Cottolengo. La vita in pericolo va sempre aiutata. “La carità di Gesù Cristo non serra porte”, aveva imparato da Don Orione.
[1] Cfr Andrea Villa, Ebrei in fuga. Chiesa e leggi razziali nel Basso Piemonte (1938-1945), Ed. Morcelliana, 2004; “La Voce di Alessandria”, 26 novembre 2004, p. 24 e 7 maggio 2010, p.21.
[2] Riportata in G. Garneri, Tra rischi e pericoli, Ed. Alzani, Pinerolo, 1985, p. 128-129.
[3] Cfr Giuseppe Tuninetti, Clero, guerra e resistenza nella diocesi di Torino (1940-1945), p. 42; G. Marchi e F. Peloso, Orionini in aiuto agli Ebrei negli anni dello sterminio, “Messaggi di Don Orione”, 2003, n.112, pp.75-106.