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Messaggi Don Orione
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Nella foto: Don Jozef Kubicki
Pubblicato in: Il Memoriale è pubblicato in F. Peloso - Jan Borowiec, Francesco Drezewiecki. N. 22666: un prete nel lager, 2da ed., Borla 2008, p.137-154.

Memorie della prigionia durante l’occupazione nazista della Polonia e nel lager di Dachau.

Jozef Kubicki

IL MEMORIALE

             

                      NOTA INTRODUTTIVA

                Don Jozef Kubicki è stato invitato a presentare le sue memorie della prigionia durante l’occupazione nazista della Polonia al Convegno internazionale “Religiosi nei Lager”, organizzato dall’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati Politici nei Lager Nazisti) e tenutosi a Torino, il 14.2.1997.

                E’ stata l’occasione per raccogliere in un filo cronologico di racconto i suoi ricordi – fissati in appunti scritti e registrati - che iniziano dal giorno dell’arresto, 25 agosto 1940, e terminano nel maggio 1945 con la liberazione del lager di Dachau. Il Memoriale è stato ordinato e reso in italiano da Flavio Peloso.

 

   

                Mi chiamo Jozef Kubicki, sono polacco, nato a Schlechtenitz, il 12 marzo 1916. Appartengo alla Congregazione di Don Orione, nella quale ho fatto i voti l'8 ottobre 1936. Ancora chierico, fui internato nel lager di Dachau per cinque anni, dal 1940 al 1945. Dopo la liberazione fui per qualche anno in Italia, dove venni ordinato sacerdote il 29 giugno 1948, a Tortona. Poi, ritornai in Polonia e svolsi là il mio ministero sacerdotale. Attualmente, con un altro sacerdote, abbiamo aperto una casa per uomini senza casa, con problemi di devianza e di alcolismo: barboni, come si dice in Italia.

                   Preferisco raccontare i miei ricordi della prigionia e del lager, sotto il regime nazista, unendoli a quelli del mio confratello Don Francesco Drzewiecki, ucciso a 34 anni, in seguito ad un invalidentrasport del 10 agosto 1942; la data ufficiale della sua morte è: 13 settembre 1942. Di lui è in corso la causa di beatificazione per martirio.

                Don Francesco Drzewiecki fu arrestato e imprigionato a Wloclawek nella notte del 7 novembre 1939, insieme al Vescovo Mons. Kozal, a molti sacerdoti e a tutti i chierici del seminario. Di lì passò al carcere di Lad e poi fu portato a Szczyglin (Poznan). E' a Szczyglin che ci incontrammo il giorno 26 agosto 1940.

     

                L'arresto e l'inizio della prigionia

                   Io, ancora chierico di 24 anni, fui arrestato il 25 agosto 1940, con don Wiktor Rysztok, procuratore del seminario di Wloclawek, e un anziano parroco di Modzerowo, mentre mi trovavo nella Casa orionina di Zagrodnica, presso Izbica Kujaska.

                Durante il viaggio uno della Gestapo ha domandato:

- Chi sei?

                - Sono il parroco di Modzerowo.

                - E tu?

                - Il procuratore del Seminario.

                - E tu?

                - Studente di filosofia.

- Scordatelo! Non osare esserlo più. Lì, dove stai andando, ti istruiranno.

                   Dentro di me, mi sono detto: Vedremo! Ed ho deciso di non farmi piegare, confidando che Dio mi avrebbe aiutato a sopravvi­vere. E l'aiuto di Dio l'ho sperimentato varie volte, proprio quando sembrava non esserci alcuna via d'uscita.

                   Lo stesso giorno fummo portati a Szczyglin dove ho incontrato don Drzewiecki che era già lì. Non abbiamo potuto neanche parlarci perché era severamente vietato.

                 Eravamo ammassati presso una fattoria dalla quale avevano cacciato il padrone. Eravamo raccolti in una enorme fossa, come anatre. Potevamo uscire, sotto ordine, solo una volta, tutti insieme, per i bisogni igienici.

                Mi pare di sentire ancora uno dei nazisti dire ad un altro:

                - Non ce la farai a metterli tutti quanti dentro!

                E l'altro, con sorriso di beffa:

- Ce la farò, lavorando con i bastoni. Li sistemerò come pesci così e così (e fece il segno di croce).

                Abbiamo passato tre giorni e tre notti in questo luogo di concentra­men­to prima di essere trasportati a Sachsenhausen e poi a Dachau.

                Da Szczyglin, stipati su camions, noi prigionieri ecclesiastici partimmo verso destinazione inizialmente ignota. Giungemmo a Berlino. Quando i camions si fermavano al semaforo, i passanti chiedevano alla scorta chi stessero portando. I banditi polacchi, spiegavano. E allora la gente imprecava e bestemmiava contro di noi, trattandoci come delinquenti. Ci bastonavano e picchiavano. Ricordo un anziano col bastone avvicinarsi e picchiarci.

                - Berlino, uscire! Fummo messi in fila e fatti vedere quasi a dar spettacolo.

   

                   A Sachsenhausen

                   Da Berlino fummo trasportati al lager di Sachsenhausen. In fondo a un largo viale si arriva al cancello e leggiamo: KZ Sachsenhausen. C'era stata pioggia e c'erano pozzan­ghere. Proprio davanti ad una di esse si ferma il nostro camion. L'ordine: Uscire! Lì ci aspettava­no le SS, disposti su due file, con in mano i bastoni e cominciarono a battere il grano, picchiando durante il nostro passaggio.

                Noi sacerdoti portavamo ancora l'abito talare. Giungendo a Sachsenhausen ci trovammo di fronte all'imponente struttura del lager e ne fummo impressionati. Siccome ero giovane, cercavo di stare insieme a don Drzewiecki e a don Rysztok. Essi mi hanno messo in mezzo a loro nella fila.

                Poi, ordinati in gruppi di cinque, ci fecero attraversare il cancello contandoci scrupolosamente. Eravamo prigionieri.

                Fummo subito condotti alla baracca-bagno. Stavamo col fiato sospeso. Che succederà? Dentro, ci hanno ordinato di svestirci. C'era imbarazzo. Ricordo che un camaldolese di Kutno non voleva togliersi la veste e allora gliel'hanno strappata di dosso, tirandolo per la barba e picchiandolo selvaggiamente.

                Ci hanno rasati. Dalle docce siamo usciti come Dio ci ha creati, nudi. Fuori, uno dei prigionieri ci lancia le camicie del campo, un altro le mutande, il terzo i pantaloni, il quarto la giacca. Quindi riceviamo i numeri. Io ricevetti il n.29.964.

                Un episodio. Sento delle grida: Per carità! Un pezzo di corda!. A uno dei compagni di sventura, un po' grosso, hanno dato i pantalo­ni strettissimi, e a un altro, magrolino, dei pantaloni tanto larghi che poteva metterli due volte attorno a sé. Bisognava scambiarsi i pantaloni senza però farsi vedere. Ormai non siamo degli uomini, ma, secondo i tedeschi, dei numeri.

                Fummo assegnati al block n.16. Capo-blocco era un criminale con distintivo verde. Lo chiamava­mo il bue: era terribile.

                  La permanenza a Sachsenhausen iniziò con la cosiddetta quarantena. Un incubo. Quaranta giorni di esercizi punitivi terribili, snervanti: prostrarsi-alzarsi a ripetizione, lungo tempo in ginocchio, esercizi fisici, completo silenzio, a volte costretti a cantare, tutto sotto continuo comando e da eseguirsi rapidamente. Un tedesco, Gustaw, mentre eravamo all'appello, in fila, in piedi, stanchi, dava una spinta e faceva cadere tutti di seguito.

                A Sachsenhausen, io e Don Drzewiecki stavamo sempre insieme nella baracca e anche nella mensa. Anche se era vietato parlare e sapendo il rischio che correva, egli quando poteva cercava di consolarmi. Io, mi sentii assai male. Mi hanno anche fatto un lavaggio dello stomaco; mi hanno messo una sonda attraverso la gola e ne sentii il disturbo per settima­ne. Ero debolis­si­mo; Un giorno vidi, attraverso la finestra, che un sacerdote tedesco del vicino block 17 mi dava discretamente l’assoluzione. Dopo un tempo al revier, ripresi un po' le forze.

                Uno dei lavori più assurdi e sfiancanti cui ci sottoposero fu quello di costruire un laghetto per la residenza del nuovo comandante. Era arrivato un trasporto di legname. Dalla stazione portammo tutto questo di corsa. Il canonico Kunka, cancelliere della Curia di Wloclawek, con il padre Niedzwiadek, camaldolese, entrambi non alti, portavano un lungo pezzo di legno che al centro toccava terra.

                Tra l'altro, si dovette portare dalle paludi, lontane 3 chilometri, intere pesanti zolle di terreno ed erba da mettere sopra il fondo cementato. Era novembre e già nevicava e faceva freddo. E si doveva correre. Le SS, sulle biciclette, ci gridavano Raus! Raus!. Alcuni prigionieri si ammalarono e morirono, tra di essi l'amico Don Zawadzki che non ce l'ha fatta a superare questo incubo. Altri furono eliminati.

                E come non ricordare il Gustaw di ferro che calpestava le file dei prigionieri che cadevano a terra dalla stanchezza, dopo essere stati tenuti ritti in piedi tutta la notte, per punizione, perché qualcuno era fuggito?

                Fu talmente dura e insopportabile questa prigionia a Sachsenhausen che, dopo tre mesi, la notizia del trasferimento da quel campo di concentramento a quello di Dachau fu da tutti accolta quasi come una liberazione.

     

                Nel lager di Dachau

                   Il viaggio da Sachsenhausen, vicino a Berlino,  fino a Dachau, paese a circa 13 km. da Monaco di Baviera, fu lungo, penoso e umiliante.

                Come calzatura portavamo gli zoccoli di legno e tantissi­mi per riuscire a correre li portavano in mano, perché altrimenti venivano bastonati. Quando passavamo per le strade e vicino alle case, le guardie tedesche spiegavano alla gente che eravamo delinquenti, e così suscitavano l'odio contro di noi. Poi fummo caricati in treno, su carrozze chiuse adibite al trasporto bestiame. Non ricordo quante ore durò quel viaggio. Parve interminabile.

                Partimmo il giorno 13 e siamo arrivati a Dachau verso le undici di mattina del 14 dicembre 1940. Era pieno inverno Il Konzertrationlager è distante circa 3 chilometri dal paese di Dachau. Dalla stazione ferroviaria ci hanno condotti a piedi al campo, incolonnati in due file. La neve si attaccava al legno degli zoccoli. Alcuni se li levavano per poter camminare. I bambini giocavano e si divertivano a lanciare palle di neve ai banditi che passavano. Camminiamo. Mi sono trovato vicino a Don Drzewiecki, perché proprio Don Drzewiecki ha cercato di trovarsi vicino a me. Ci univa un legame spirituale, anche senza parlare.

                Appena giunti, ci hanno condotto alle docce. Qui ci hanno tolto tutte le nostre cose e hanno dato i nuovi abiti (il pasiak) e i nuovi numeri. Anche qui, Don Drzewiecki mi tenne vicino a sé nella fila, così che io ricevetti il n.22665 e don Francesco il n.22666. Don Rysztok era davanti a me e ricevette il n.22664.

                Poi, fummo condotti all'alloggio: tutti i sacerdoti polacchi furono assegnati al block n.28. Eravamo divisi per sale: io fui messo nella n.4 e don Drzewiecki nella n.3. Ogni blocco era composto di quattro grandi sale e camerate. Si mangiava nella sala accanto al dormitorio. Nel dormitorio vi erano letti di legno a tre piani. Durante la prigionia io fui nella stanza 3 e 4 ed anche al block n°8.

                Inizialmente eravamo ungeteil, cioè non facevamo parte di alcun commando di lavoro. E questo ci metteva in balia di qualsiasi capo che arrivava e comandava ai i lavori ed esercizi più imprevedibili e gravosi: ripulire i viali dalla neve, portando con le mani il ghiaccio nel canale, portare le pesanti pentole della cucina nei blocchi. Questo toccò anche a Don Drzewiecki.

                Ricordo un episodio. Ad un anziano che camminava davanti a me avevano dato un enorme pezzo di neve ghiacciata e questi non ce la faceva, rimaneva indietro. Gli dico, discretamente, in polacco:

 -  Fa' finta di essere caduto e rompi questo pezzo e prendine solo una parte.

                Mi salta addosso una delle SS e in puro polacco grida:

- Cosa hai detto?

Senza pensarci troppo rispondo:

- Che non cada e non rompa il pezzo altrimenti ci prendiamo delle bastonate.

                - E io invece ho pensato che tu gli hai detto di cadere.

                Da quel momento ho capito che dappertutto ci controllavano.

                   Il trasporto delle pentole. Era una fortuna quando toccava portare le grandi pentole dalla cucina ai primi blocchi. Il percorso era breve. Una volta, con un giovane cappuccino, Kajtek, portavo la pentola. L'abbiamo depositata al suo posto e volevamo andare ad aiutare due anziani sacerdoti che dovevano raggiunge­re una baracca più distante. Ci saltò addosso il Kapò ordinando di portare la pentola che portavano due giovani tedeschi. Indicai i due anziani che riuscivano a fatica a portare la pentola e dico:

 - Vedi, forse bisogna aiutare loro.

 - Io ti faccio vedere quando arriveremo al blocco.

                Per strada dico a Kajtek:

- Stai attento! Quando arriveremo, tieni la pentola che non cada, perché io dovrò scappare.

                Anche Don Drzewiecki portò le pentole. Egli faceva parte dei giovani e non dei sacerdoti professori. Sapeva fare varie cose, come riparare le scarpe, cucire, e altro. Si prestava volentieri e con sorriso.

                   Il clima di tensione e di paura toccava tutti. Bastavano piccole cose per suscitare reazioni furiose. Durante gli esercizi punitivi ho visto picchiare col bastone alcuni sacerdoti anziani perché non si stendevano a terra a ritmo, ma si piegavano prima sulle ginocchia.

                Che pena per fare i letti! Dovevano essere diritti, senza nessuna piega. Se il capo-stanza trovava un letto mal fatto infieriva su tutti gli altri. Alcuni dormivano a lato del letto per non rovinarlo quando era ben fatto.

                Ad uno dei sacerdoti, professore, si era bruciacchiato un po' l'asciugama­no. Si gridò al sabotaggio. Ho scambiato l'asciugamano con lui e sono andato a giustifi­carmi col capo-stanza. Ma questi mi minacciò con la forca. Un'altra volta, lo stesso capo-stanza, Willi, s'infuriò e picchiò un anziano Monsignore, reo di essere scivolato mettendo la sua scarpa sul suo 'sacrum'. Ricordo che intervenni a dirgli: Willi, io sono prigioniero, tu sei prigioniero e anche egli è prigioniero. E noi dobbiamo proprio farci fuori?.

                               Sulla deportazione a Dachau e sulla dura prigionia degli ecclesiasti­ci in quel lager nazista, esiste un documento con tante notizie e impressionante: si tratta del libro di Mons. Franciszek Korszynski, poi Vescovo ausiliare di Wloclawek, amico, collaboratore, compagno nella stessa prigionia di Mons. Michal Kozal. Il titolo originale è Jasne promienie w Dachau (Raggi luminosi a Dachau), edito a Poznan nel 1957 (2a edizione nel 1985).  Quanto lì è raccontato io l'ho vissuto. Ero proprio di quel gruppo di sacerdoti e chierici polacchi nel block 28. In questo libro è esplicita­mente ricordato il nostro don Francesco Drzewiecki, elogiato come "l'uomo che edificava con la sua cortesia e premura (a p.193).

     

                Il lavoro

                   Il lager di Dachau era un enorme campo di prigionia e di lavoro. Il lavoro massacrante era una indiretta, ma efficace forma di repressione ideologica ed anche fisica degli interna­ti. A questa legge del lager, beffardamente scritta a grandi lettere alla vista di tutti Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi), furono sottomessi anche gli oltre 2.500 ecclesiastici ivi reclusi. Ogni giorno c'erano 12-15 ore di lavoro sotto la sferza delle SS e dei Kapòs.

                L'assegnazione ad un reparto del lavoro veniva effettuata dopo una sommaria valutazione delle forze fisiche dei prigioni­eri effettuata da una commissione. Quanti erano riconosciuti più robusti nel lavoro - e tra questi fu don Drzewiecki - venivano impegnati nei campi, sempre sotto la ossessiva vigilanza degli agenti delle SS e dei loro cani.

                Io dissi che sapevo fare il falegname, come san Giuseppe mio patrono, e mi assegnarono alla falegnameria. Il lavoro nelle fabbriche e officine del campo (Deutsche Hausrichtungwerke) era più leggero e protetto, però qui si soffriva di più la fame non avendo diritto al Brotzeit (supplemento di pane). In compenso, capitava che ci portassero a lavorare presso i civili e questi ci davano qualcosa da mangiare. A volte, riuscivo a portare del pane dentro il lager, nasconden­dolo nelle maniche della giacca.

                Alle officine si faceva un po' di tutto: scarpe, vestiti militari... Ci hanno dato anche da sistemare i camions con il dispositivo per il gas che asfissiava i prigionieri durante il trasporto. Ricordo che adattammo i camions per il trasporto di materiali bellici, ma troppo alti, tali da non poter passare per i tunnel che portavano in Italia. Al lager venne una Commissione inferocita a fare indagini sulle responsabilità di tali progetti.

                Si lavorava per molte ore e, spesso, anche di notte. Io lavoravo 15 ore al giorno come falegname.

                Don Drzewiecki era stato destinato alle piantagioni, lontano nei campi, dove i Tedeschi coltivavano erbe medicinali. Lavorando nei campi, don Drzewiecki doveva fare lunghe ed estenuanti marce di trasferimento a piedi. Le piantagioni iniziavano a un chilometro e mezzo, però i campi erano molto estesi e quelli che lavorano lì si svigorivano molto presto, perché lavoravano sotto sole, pioggia, vento, gelo. Eppure, il più delle volte, i prigionieri andavano e tornavano dai campi cantando: per dimostrare a se stessi e ai carcerieri che le durezze del lager non avrebbero piegato il loro spirito.

                Ricordo che, un giorno, don Drzewiecki mi portò dai campi alcune erbe che io non conoscevo. Lui mi disse:

- Mangia Giuseppino, mangia. Sono buone! In Italia, queste erbe si mangiano e fanno bene.

                Io ne ho mangiato un po' con difficoltà, tanto erano amare.

                   Non era facile potersi incontrare al lager. Io e Don Drzewiecki ci cercavamo nella folla dei prigionieri. Talvolta, discutevamo di problemi, ci consigliavamo a vicenda. Don Francesco mi raccontava dell'Italia, dove era stato per sei anni, di don Orione, dello sviluppo della nostra Congregazione, religiosa, ecc. Mi incoraggiava a essere fedele alla vocazione, a resistere, a pensare al futuro. Al lager, la disperazione era temibile più delle gravi malattie.

                Di solito era don Drzewiecki che, pur conoscendo i rischi di punizione, ogni tanto mi veniva a trovare nel dormitorio, passando dalla sala n.3 a quella n.4. Ci era più facile, invece, incontrarci e parlare un po' insieme durante il percorso quotidiano, lungo la strada che conduceva alla piazza dell'appello (Apelppatz).

               Al lager mi ammalai di tifo, che si diffuse soprattutto dopo l'arrivo dei Russi. Fui portato al Blocco 7, dove poi fu portato anche Mons. Kozal. Era il Revier. Per un paio di giorni ho avuto la febbre a 40 gradi. Ero bagnato per il sudore, ma tutto mi si doveva asciugare addosso. Ero semicosciente. Mi trasferirono dal terzo letto del castello al letto più basso. Il Tedesco che stava vicino a me, mi disse: Amico, sai perché ti hanno portato giù? Perché sarà molto più semplice portarti via quando sarai finito.

                Ma ci pensò la Provvidenza. Mi arrivò un pacchetto spedito dai genitori che lasciai al personale. Quando già non riuscivo più a parlare, venne un giovane e mi diede da bere qualcosa, una specie di succo di frutto. Quando ho ripreso coscienza l'ho ringraziato. Il giorno dopo gli chiesi:

                - Dove trovi questo?

                - Ho un fratello che lavora nella caserma delle SS e raccoglie i torsoli di frutta, li fa bollire e me li porta.

- Perché lo fai?

 - Tu hai più bisogno di me.

  - Come ti chiami?

                - Zbyszek Krygier, da Lodz. Sono stato arrestato col fratello maggiore mentre tornavamo a casa dal Liceo.

                Grazie a questa bevanda, piano piano tripresi le forze e, dopo due settimane, ritornai al mio block. Non conoscevo questo ragazzo. Egli non poteva aspettarsi niente da me. Non dimenticherò mai questo episodio e di come la Provvidenza mi ha messo in salvo mandando, proprio dopo che fui spostato dall'alto in basso del castello, questo giovane che mi portò un po' di succo.

   

                   I sacerdoti a Dachau

                   L'attività religiosa dei sacerdoti era rigorosamente controllata. Don Francesco spesso profittava delle possibilità di entrare nella cappella del campo. Egli portava la comunione ai Russi perché conosceva la loro lingua. Nel lager funzionò un seminario clandestino per il numeroso gruppo di chierici presenti. C'era il rettore, i professori; si tenevano di nascosto delle lezioni.

                Nella prima parte dell'anno 1941 ci furono i cosiddetti privilegi per i sacerdoti. La Santa Sede si era interessata presso il governo tedesco per liberare i sacerdoti cattolici internati in gran numero, o almeno per assicurare loro un trattamento umano. Prese iniziative attraverso il Card. Bertram di Breslavia. Il Santo Padre, Pio XII, nonostante le notizie falsificate che gli pervenivano dalla Germania, sapeva della reale situazione dei sacerdoti e inviò una somma di denaro all'amministrazione del lager di Dachau per comprare viveri. Di fatto, ci furono alcuni privilegi riguardanti il vitto e altre piccole concessioni.

                Ad esempio, ci fu dato del vino. La distribuzione del vino era una autentica umiliazione. Venivamo messi in fila con la ciotola in mano, dovevamo aspettare immobili per lungo tempo. Poi, entrato il Lagerfuehrer, veniva versato il vino. All'ordine bere!, tutti dovevano bere d'un sol fiato. Poi, all'ordine far vedere!, tutti dovevano alzare la ciotola rovesciata all'in giù. Questo era il grande privilegio concesso ai sacerdoti in quei mesi. Mentre autentico privilegio era considerato quello di assistere ogni giorno alla Messa. Le Guardie del Lager, però, rovinavano anche quei momenti di vera felicità con intromissioni, grida, interruzioni delle celebrazioni.

                Un altro privilegio fu l'arrivo di alcuni Breviari: ma non c'era tempo per pregare e scambiarseli e presto furono ritirati.

                Il 21 settembre 1941 restò memorabile il fatto dell'unanime rifiuto dei sacerdoti polacchi alla proposta fatta dal Vice-comandante del lager, Weiss, di iscriversi nella lista della nazionalità tedesca in cambio di un trattamento speciale. Degli ottocento sacerdoti e chierici presenti nessuno accettò. Ricordo che il Lagerfuehrer ci ha detto: Vi distruggo tutti!. E da questo momento tutti eravamo in qualche modo preparati alla morte.

                Da quel giorno fu vietato ai sacerdoti di recarsi in cappella. Furono tolti i privilegi. Il lavoro divenne sempre più disumano e insopportabile. Le manifestazioni religiose tornarono ad essere proibite, ma c'era chi celebrava di nascosto, nel block, e c'era chi conservava l'Eucarestia in qualche scatoletta nascosta.

                Anch'io avevo le Ostie sacre in una scatoletta di vasellina, nascosta nella mia cassetta di attrezzi di lavoro da falegname. Una volta non mi ero accorto che l'Oberkapo mi stava osservando. Mi si avvicinò dicendo:

                - Sei prete?

                - Sì.

                - Hai pregato?

                - No.

                - Muovevi le labbra.

                Per paura del controllo ho dovuto trasferire il Signore Gesù presso un collega, don Antoni Matura, oblato della Slesia, il quale lavorava su un torchio a vapore. Da quel giorno, per fare la comunione andavo da lui. Questo era la mia forza e la speranza: dopo quanto avevo già passato, avevo capito che Dio voleva che io uscissi vivo. E non ho più pensato alla morte, anche se ero sempre pronto.

                Al Lager era strettamente vietato farsi vedere pregare. Ma pregavamo ugualmente. Mons. Sarnik ricorda di essere stato con Don Drzewiecki a lavorare nelle piantagioni. Ebbene, mentre erano piegati sul campo di lavoro, a togliere erbaccia o fare altro, tenevano davanti, a turno, la scatoletta dell'Eucarestia e facevano adorazione.

                   Là, dove la prepotenza perversa, la violenza e l'ingiustizia trionfavano, tra prigionieri si cercava di aiutarsi reciprocamente.

                Un episodio. Don Drzewiecki, era abbastanza resistente alle sofferenze e alla fame, ma, per un certo periodo, si trovò nel block di isolamento, separato da una alta rete, a motivo della scabbia, malattia presa lavorando nelle piantagioni. I carcerieri punivano, più che curare per la malattia. Isolavano questi malati, riducevano loro il cibo: solo te e pane e non più il minestrone per pranzo.

                Io volevo in qualche modo aiutare don Drzewiecki. Una volta gli feci arrivare, lanciandolo al di sopra della rete, alta 7 o 8 metri, un tozzo di pane. Don Francesco me ne fu riconoscen­te. Ricordo la sua faccia tinta di amarezza e, a distanza di molti anni, ricordo il breve dialogo che accompagnò quel gesto fraterno:

                - Mio Dio, Giuseppino, guarda, mi getti il cibo come si fa ad un cane.

                - E come potrei diversamente?

                - Lo so. Guarda come ci hanno ridotti!.

                Quella scena mi è rimasta incisa nella mente e ho sempre come davanti agli occhi la figura di don Drzewiecki.

   

                   "Per Dio, per la Chiesa, per la Patria"

                   Il 1942 fu nel Campo di Dachau l'anno della fame. Succedevano cose orribili. Circolava notizia che si confeziona­vano cibi con carne umana, o che quando un compagno moriva, un altro si sfamava di lui.

 Ivan, come hai potuto?

                In risposta mi sono sentito dire:

                - Stupido, non sai cos'è la fame.

                Fu l'anno più duro anche per il clero ivi raccolto, in quanto i nazisti portarono ad esecuzione quanto ordinava la Gestapo cioè che "il clero polacco e gli ebrei dovevano scomparire". Circa 500 sacerdoti polacchi (più della metà del totale) morirono solo in quell'anno!

                Figure scheletriche e ventre gonfio, quasi nessuno dei sacerdoti superava i 40 chili di peso. Alcuni erano tanto deboli da non potersi reggere in piedi e allora, perché non mancassero nella piazza per l'appello, venivano portati di peso dagli altri confratelli.

                   Soprattutto quelli che lavoravano alla piantagione, anche i più giovani e robusti, crollavano per debolezza e malattie.

                Fu così per il mio caro confratello Don Francesco Drzewiecki.

                Venne il tempo in cui don Drzewiecki, lavorando nelle piantagioni si indebolì e si ammalò gravemente e il suo corpo si era molto gonfiato. Stava molto male. Gli mancavano le forze per camminare. Ricordo benissimo che venne da me mi disse:

                - Giuseppino, non ho più forze! Cosa posso fare?

                Allora gli suggerii:

- Caro amico, vai al revier. Lì potrai riposare un poco. Vedrai, le forze ti ritorneranno e poi, quando tornerai con noi, ti procureremo del cibo per aiutarti.

                   Purtroppo, mentre don Drzewiecki si trovava al revier è venuta una Commissione e, come sempre facevano i Tedeschi, tutti quelli che non erano in grado di lavorare (i mussulmani, li chiamavano) li eliminavano: o venivano gasati o uccisi con altri modi.

                Fu così che don Drzewiecki, trovandosi al revier, fu iscritto come "invalido", cioè non in grado di lavorare. Fu messo in un Block a parte. Chi stava lì, si sapeva, era già destinato al gas. Insieme con lui stava anche don Rysztok, un sacerdote con cui sono stato arrestato. Tutti e due furono iscritti per il "trasporto di invalidi" (Invalidentrasport). I "trasportati" erano condannati a morte e, spesso, venivano intossicati durante il viaggio, dentro i camions preparati allo scopo con i tubi di scarico messi a contatto con l'alloggio dei prigionieri trasportati. Quei convogli partivano per destinazione ignota, ma al lager tutti sapevamo che quei viaggi terminavano direttamente al forno crematoio.

                Ricordo bene. Avevo finito il turno notturno di lavoro; fino alle nove del mattino potevo riposare. Nella strada principale avevano condotto tutti quelli del Block degli "invalidi" per preparare il carico dell’invalidentrasport.

                Don Francesco, pur sapendo di rischiare, attraversò la strada - lui e don Rysztok - e mi venne a dare l'addio. Io ero nella sala n.4, vicino alla quarta finestra. Era mattina presto, una domenica, alle otto. Don Francesco è venuto da me, l'ho visto abbastanza recuperato in salute. Ha bussato alla finestra e io sono saltato su dal giaciglio, mi sono avvicinato alla finestra.

                Don Drzewiecki mi disse:

                - Giuseppino, addio! Partiamo.

                Ero tanto abbattuto che non riuscivo a dire neanche una parola di rammarico. E don Drzewiecki, continuò:

                - Giuseppino non ti dar pena. Noi, oggi, tu domani...

                E con grande calma disse ancora:

                - Noi andiamo... Ma offriremo come Polacchi la nostra vita per Dio, per la Chiesa e per la Patria".

                E così mi hanno salutato, don Drzewiecki e don Rysztok, venuti insieme da me. Don Francesco era calmo, sereno, non un segno di tristezza o di scoraggiamento. Sono state le sue ultime parole: "Per Dio, per la Chiesa e per la Patria". Non tornò più.

               

                   Dopo 5 lunghi anni a Dachau, la liberazione

                 Io restai al lager di Dachau fino al giorno della liberazione. Giorni lunghi e ognuno di essi poteva essere l'ultimo.

                So che nel lager funzionava un servizio segreto per gli alleati. Ricordo di un ceco che entrò in possesso anche di una piccola radio e ci informava.

                I prigionieri italiani arrivarono più tardi, dopo il passaggio dell'Ita­lia con gli alleati e contro i Tedeschi. Al lager trovarono un regime di vita già migliorato perché tutti i giovani SS erano stati inviati al fronte orientale. Chi non è stato al campo di concen­tramento negli anni 1940-43 non può avere idea di cosa fosse la vita al campo. Non ho avuto contatti personali con loro perché, lavorando alla fabbrica "Ausrichtung Deutschewerke", eravamo divisi e non potevamo comunicare con gli altri. Non ricordo nulla di sacerdoti italiani.

                Ricordo che nei tempi precedenti la liberazione, vedevamo molti Tedeschi lasciare il campo e si era sparsa la voce che avrebbero distrutto il campo con tutti i prigionieri. Si diffuse una grande paura e inquietudi­ne. I sacerdoti riuscirono anche in quella circostanza a mantenere la calma e fecero una novena a San Giuseppe perché intercedesse per la salvezza e ottenesse ai prigionieri di ritornare liberi in Patria. Facemmo voto di costruire un orfanotrofio.

                I Tedeschi ci avevano messi tutti all'ordine nelle baracche. Fuori sentivamo i tuoni dei cannoni ed un aereo di ricognizione che girava sopra il campo. Nessuno usciva dalle baracche, non volevamo morire ormai che la liberazione era vicina. I tedeschi avevano messo bandiera bianca. Alle 10.45 del 29 aprile, domenica, è arrivata una jeep americana: a bordo vi era un ufficiale polacco, una giornalista e il cappellano.

                Appena abbiamo visto gli Americani attraverso le finestre, tutti siamo corsi fuori, nel viale, per incontrarli. Io stavo nell'ottava baracca, quindi vicino alla piazza. Alcuni tedeschi incominciarono a sparare. Gli Americani si buttarono a terra e noi pure. Seguì una sparatoria con proiettili che venivano da tutte le parti. Ho presente un soldato americano che mentre sparava tremava tutto. Noi abbiamo mostrato loro i bunkers tedeschi: li conoscevamo bene

    perché li avevamo costruiti noi, con le nostre mani. La lotta durò tutto il giorno e tutta la notte. Infatti, la divisione tedesca Viking voleva riprendere a tutti i costi il lager.

               

                Tornò la pace. Giunse la liberazione e il ritorno in Patria.

                Gli Americani ci hanno tenuti fermi ancora qualche tempo: avevano paura che noi, usciti fuori, ammazzassimo tutti i Tedeschi che incontravamo. Non potevamo uscire.

                Io fui tra i primi a partire. Il 3 maggio c'è stata una festa per i Polacchi e per tutto il Lager. Pochi giorni dopo, con un gruppo di Gesuiti, sono andato a Pullach, vicino a Monaco, e di lì proseguimmo in treno per Roma. Potei ritornare nella mia Congregazione di Don Orione, proseguire gli studi e diventare finalmente sacerdote il 29 giugno 1948.

                So che molti prigionieri polacchi si fermarono a lavorare in Germania, nelle fattorie. Anche numerosi sacerdoti si fermarono con loro.

                   Tornando in Polonia furono fatti vari monumenti a ricordo di quell'evento. Piccole cose, perché le autorità comuniste non permettevano. Io, in conformità con il voto a San Giuseppe e ricordando il mio confratello Francesco Drzewiecki, ad Henrykow, presso Zdunska Wola, solo in questi ultimi anni, ho avuto la grazia di poter far sorgere un ospizio per uomini senza tetto, che vivono nella strada. La casa ormai funziona e dà alloggio a 70 persone senza tetto. E' la mia risposta all'esperienza del lager: là si toglieva la dignità e la vita alle persone; ad Henrykow aiutiamo a ridare vita e dignità a persone che sembravano averla persa.

     

                Un auspicio

                   Infine, voglio aggiungere un auspicio ricordando Dachau e le vicende dell'oppressione nazista in Polonia.

                Mi auguro che si parli di più di questa pagina tragica e gloriosa della persecuzione religiosa della Chiesa cattolica in Polonia e, in particolare, del martirio del suo clero. E' un capitolo di storia poco conosciuto.

                Da credente, riconosco che è un vicenda di autentico martirio. Voglio dire che Vescovi, tanti sacerdoti e giovani seminaristi, e molti laici cattolici furono arrestati e vi trovarono la morte non per un qualche pretesto politico o razziale, come avvenne per altre categorie sotto il regime nazista, ma unicamente in quanto appartenenti al clero cattolico che si voleva eliminare. Solo a Dachau furono internati 2720 sacerdoti, dei quali ben 1780 erano polacchi; tra i 1034 sacerdoti che vi trovarono la morte, i polacchi furono 868! La sentenza di morte la portarono scritta in se stessi, proprio nel fatto della loro fede e del loro ministero sacro.

                   Giustamente, la Chiesa cattolica sta proponendo alcuni di essi come modelli, come martiri. Tra di essi ci sono i miei compagni di prigionia e c'è Don Francesco Drzewiecki, il mio caro confratello.

                  Torino, 13 settembre 1996, anniversario della morte di Don Francesco Drzewiecki

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