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Autore: Flavio Peloso
Pubblicato in: INFORMATIONES – SCRIS, 2002/1, p.116-142

L'articolo scritto per la rivista della Congregazione per la Vita Consacrata è ispirato dalla consapevolezza di quanto sia rilevante la buona (o cattiva) gestione dell’economia per la qualità della vita consacrata di un Istituto e per l’efficacia della sua missione nella Chiesa e nel mondo.

ECONOMIA, VITA CONSACRATA E MISSIONE

Don Flavio Peloso

 

            Premessa

            E’ necessaria una precisazione preliminare. Su questo tema assai importante[1] non scriverò da economista e nemmeno da economo, ma semplicemente da religioso che, per la sua esperienza di riflessione e di governo, ha consapevolezza di quanto sia rilevante la buona (o cattiva) gestione dell’economia per la qualità della vita consacrata di un Istituto e per l’efficacia della sua missione nella Chiesa e nel mondo.[2] Da questa consapevolezza e competenza - religiosa e non primariamente economica – discende il contenuto del presente articolo che mi è stato chiesto proprio per offrire alcuni appunti sulle implicanze religiose e apostoliche dell’amministrazione economica negli Istituti di vita consacrata.[3]

Schema dell’articolo. Dopo la Premessa che indica l’importanza e la prospettiva del tema, una prima parte tratta di ECONOMIA E VITA CONSACRATA: in essa si invita a 1. Superare il manicheismo, si indica 2. L’importanza del ruolo del buon economo e si tocca il fondamentale argomento 3. Comunione di beni: quattro principi e alcuni temi aperti. La seconda parte dell’articolo è dedicata a ECONOMIA E MISSIONE; viene focalizzato il rapporto con le risorse economiche in tre momenti: 1. Circa l’acquisizione delle risorse economiche, 2. Circa l’investimento delle risorse economiche, 3. Circa l’uso delle risorse economiche; un ultimo approfondimento tocca il delicato argomento 4. Aiuto e autonomia economica delle Province nei Paesi poveri. L’articolo termina con la Conclusione.

Trent’anni fa, Paolo VI incoraggiava a solidarizzare con gli ultimi. Le sue parole avevano una forza particolare nei giovani religiosi del post-concilio: “Più incalzante che mai voi sentite levarsi il “grido dei poveri” dalla loro indigenza personale e dalla loro miseria collettiva. Non è forse per rispondere al loro appello di creature privilegiate di Dio che è venuto il Cristo? In un mondo pieno di sviluppo, questo permanere di masse e di individui miserabili è un appello insistente ad “una conversione delle mentalità e degli atteggiamenti”, particolarmente per voi che seguite “più da vicino” il Cristo, nella sua condizione di annientamento”.[4]

Questa esortazione del Papa ha trovato una naturale eco nelle congregazioni religiose. Molti religiosi hanno fatto un passo deciso verso i poveri, ad essi si sono relazionati apostolicamente e anche economicamente. Il tema della povertà e dell’economia degli Istituti ebbe un salutare stimolo nella prospettiva della risposta al “grido dei poveri”.[5] 

Più recentemente, si è aperto un nuovo versante problematico che interpella la testimonianza evangelica e le modalità della gestione economica attuata negli Istituti. Molte congregazioni religiose sono alle prese con un certo imborghesimento di vita, e più ancora di mentalità, determinato non sempre e non solo da una diminuzione di fervore e buona volontà dei singoli, ma dalle nuove condizioni dettate dalle leggi del neoliberismo economico, dalle legislazioni civili in campo amministrativo e fiscale.

Un certo adeguamento alle regole e costumi economici vigenti è stato visto e subìto quasi come un fatto ineluttabile con la conseguenza di contraddire o perlomeno rendere ininfluenti quei valori e prassi evangelici che stanno a fondamento della vita consacrata stessa e della sua missione. Ad esempio, c’è il rischio che i religiosi – ordinariamente e generalmente vicini ai poveri - divengano, a livello amministrativo, con la partecipazione a modelli e strutture economiche oggi imperanti, “complici” della sperequazione e dell’impoverimento di tanta parte dell’umanità. Avviene che, nella vita personale e comunitaria, termini come risparmio, austerità, povertà, condivisione, non vengano combattuti ma semplicemente resi inutili amministrativamente e lasciati al campo dei sentimenti e valori privati. Regole consolidate di vita religiosa, quale quella della “dipendenza” nella amministrazione dei beni, necessitano di essere completamente ripensate per essere rese possibili nelle attuali legislazioni.

Nelle mutate situazioni socio-economiche, molte congregazioni si trovano impreparate, spiazzate e forse anche un poco rassegnate. Ne risentono tanto la qualità evangelica della vita consacrata che lo slancio della missione.

Dunque, oltre al “grido dei poveri”, oggi è anche “la vocazione tipica della vita consacrata” a chiedere urgentemente una riformulazione creativa del rapporto dei religiosi con le risorse economiche e la loro amministrazione, avendo presente che “la condivisione dei beni è stata fin dall'inizio la base della comunione fraterna”.[6]

Senza sottovalutare i fattori e rimedi personali e spirituali, oggi si è giunti alla diffusa convinzione che occorra investire di responsabilità anche le regole e l’impianto dei rapporti economici vigenti all’interno delle congregazioni e che ordinano i rapporti con la società.

Raccogliendo esperienze e riflessioni già realizzate, la 60° Assemblea semestrale dell’Unione Superiori Generali ha promosso un tentativo di sintesi e di elaborazione di un nuovo modello di rapporto economico-amministrativo in seno agli Istituti.[7] Con il tema scelto, “Economia e missione nella vita consacrata, oggi”, i Superiori generali non hanno inteso tanto interessarsi precipuamente del voto di povertà o della dimensione personale dell’uso dei beni, quanto piuttosto dell’amministrazione dei beni a livello istituzionale per tentare di giungere a proporre alcuni criteri sani, evangelici ed efficaci che stiano alla base di una “politica economica e amministrativa a livello congregazionale”. Come tale, il tema “è nuovo e complesso, importante e stimolante”,[8] ma anche imprescindibile perché una buona prassi economica-amministrativa serve da tessuto istituzionale all’impegno personale e spirituale nel vivere la povertà e la comunione dei beni.

 

ECONOMIA E VITA CONSACRATA


Superare il manicheismo

Quando si parla di economia e vita consacrata non si può rimanere nel campo esortativo. E nemmeno in quello meramente tecnico. Non basta suscitare la buona volontà personale e nemmeno rassegnarsi a seguire, senza reagire, leggi e costumi dell’economia vigente, “perché tanto è così” e “così fan tutti”.[9]

Talvolta si crea nella vita religiosa una separazione tra “spirituali” e “pragmatici”. Si produce una specie di buffa contrapposizione tra idealismo e quotidianità, come nei celebri personaggi del Cervantes: Don Chisciotte e Sancio Panza. Il primo, idealista, sognatore, si inventa vibranti battaglie contro i mulini a vento, mentre il suo loquace scudiero, coi piedi per terra, mangia e beve e ogni tanto richiama il suo signore alla realtà.

In una visione manichea, capita che ci sono quelli che non vogliono contaminarsi: “che ci pensi un altro, io non tocco i soldi, ma che non mi manchino”. In realtà, dopo il confessore, è l’economo che più di ogni altro – controllando bene i comportamenti e i rendiconti – conosce lo stato di salute spirituale di un religioso o di una casa. Certo, l’uso del denaro e il rapporto con i beni ha molto a che vedere con la qualità spirituale e apostolica di persone e comunità.

C’è chi demonizza l’economia, mentre il vangelo elogia il buon amministratore (cfr. Mt 25, 14-30). D’altra parte, capita che ci sono amministratori che impongono la figura del faccendiere onnipotente che “ci sa fare”, che spadroneggia, che si prende tutto come un affare personale, che non rende conto a nessuno, ma trova i soldi, i permessi dei superiori e anche il rispetto interessato dei confratelli cui non manca niente.

Questo atteggiamento di relegare l’economia in una specie di “area riservata”, come se fosse un tema meno spirituale, si verifica, ad esempio, quando l’Economo si attiva solo quando c’è una questione di soldi, oppure quando in un Consiglio si tende a mettere i temi economici alla fine di lunghissime sedute, dedicandovi i cascami del tempo; si verifica quando all’economo si chiede che faccia presto, che dia le buone notizie delle entrate, che risparmi il dispiacere delle uscite e, soprattutto, che le grane con enti e istituzioni, avvocati e tribunali le risolva lui e, se può, se le tenga per sé, che di queste cose non si occupano gli uomini spirituali.

Con questa dicotomia è sempre più difficile trovare religiosi che vogliano svolgere il ruolo di economi ed economi che lo facciano con criteri religiosi chiari.

 

L’importanza del ruolo del buon economo


Il Codice di Diritto canonico pone un principio fondamentale nel presentare la figura e il ruolo di quanti amministrano i beni della Chiesa: - “munera sua adimplere tenentur nomine Ecclesiae” – dice il Can.1282.[10]  La concezione di amministratore comporta una nota di sacralità del ruolo legata alla natura dei beni amministrati – sono della Chiesa[11] –, al titolare che affida i beni – è il Signore Dio – e alla destinazione dei beni: la salus animarum mediante le attività di santificare, insegnare e servire.

Più specificamente, il compito e il ruolo dell’economo negli Istituti di vita consacrata sono descritti, al canone 636, nei seguenti termini. “§1. In ogni istituto, e parimenti in ogni provincia retta da un Superiore maggiore, ci sia l'economo, costituito a norma del diritto proprio e distinto dal Superiore maggiore, per amministrare i beni sotto la direzione del rispettivo Superiore. Anche nelle comunità locali si istituisca, per quanto è possibile, un economo distinto dal Superiore locale.  §2. Nel tempo e nel modo stabiliti dal diritto proprio gli economi e gli altri amministratori presentino all'autorità competente il rendiconto dell'amministrazione da loro condotta”.

Con riferimento al nostro tema specifico, è da riconoscere che il ruolo del religioso economo nell’Istituto e nelle singole comunità è decisivo per il buon funzionamento del dinamismo che lega economia, vita religiosa e missione. Di tale dinamismo globale egli è il promotore e il garante. Non può egli ridursi a svolgere un disincarnato servizio tecnico-amministrativo e neppure può prescinderne giustificandosi che si occupa dei solo aspetti religiosi. Infatti, è impossibile scindere la povertà dall’economia, la comunione fraterna dai rapporti amministrativi. “Quando occorra, bisogna provocare la ‘cattiva coscienza’ in chi non vive la vita di povertà professata nella Congregazione”.[12] Molta parte della fedeltà alla vita religiosa passa per una buona gestione economica, specialmente in una Congregazione di vita attiva, che gestisce opere spesso complesse. Molte aspirazioni ad una maggiore autenticità di vita religiosa vivono o muoiono a seconda della qualità dell’amministrazione.

Il ruolo dell’economo deve essere bene collocato “in quanto collaboratore del Direttore e il suo consiglio”, sia a livello locale, provinciale che generale; è amministratore dei beni “sotto la direzione del rispettivo Superiore” (can. 636 §1). In tal senso, va giudicata la bontà o meno della tendenza in alcuni Istituti di nominare economo generale o provinciale un religioso non membro del Consiglio. Come evitare che tale scelta porti a minore coinvolgimento dell’economo nel governo globale della Provincia/Istituto, a discapito della valenza spirituale e apostolica dell’economia e delle reciproche implicanze tra economia, vita consacrata e missione? Come evitare, che la presenza tecnico-settoriale dell’Economo nel Consiglio non si trasformi in un segno di quella deleteria dicotomia sopra segnalata?

Altro elemento di crisi per il ruolo istituzionale dell’economo è dato dalla esigenza delle competenze tecnico-professionali che esso comporta. Molto spesso mancano le persone adatte oppure, a causa degli avvicendamenti, manca il tempo per una sufficiente preparazione ed esperienza. Ciò può causare una sopravalutazione del ruolo degli amministratori laici, perché in genere più competenti e stabili dei religiosi economi. La conseguenza pratica è che Case, Province e Congregazioni finiscono per dipendere, di fatto, dai “consulenti” o “amministratori” laici in scelte che non sono puramente di carattere tecnico-amministrativo. Ancora più gravida di conseguenze sarebbe la scelta di affidare a laici non solo compiti di collaborazione amministrativa ma addirittura il ruolo di economo in un Istituto religioso.[13] Non è in questione la fiducia e la valorizzazione dei laici, ma l’inalienabile competenza e responsabilità “religiosa” che deve avere l’effettiva priorità su quella “tecnico-amministrativa”.

Un buon religioso economo, oggi, dovrebbe concepirsi come l’“allenatore” di una squadra ben scelta e amalgamata nel comune obiettivo da raggiungere. L’allenatore non deve scendere in campo, non è uno a fianco degli altri, ma deve sapere tutto dei suoi giocatori, delle metodologie e degli schemi di gioco, delle condizioni ambientali e degli avversari da affrontare, deve saper ricorrere a preparatori tecnici e altri esperti. Il religioso economo deve fare “gioco di squadra” e, fuori metafora, porsi come punto di sintesi tra le dinamiche amministrative (che quindi deve conoscere) e quelle religiose per aiutare le decisioni che vengono prese dai superiori nei consigli.

Solo un buon religioso economo può evitare o guidare alla soluzione di eventuali “problemi e comportamenti poco opportuni, messi in atto in diversi luoghi e in alcune congregazioni religiose a causa di errori nel gestire e nell’investire il denaro”.[14]

Da ultimo, un suggerimento: non si potrebbe prevedere anche per religiosi “economi” dei corsi teorico-pratici come già in varie nazioni sono stati ottimamente organizzati per religiosi “formatori”, religiosi “missionari”, religiosi “educatori”, ecc., nei quali lo specifico è l’integrazione delle competenze settoriali con le motivazioni e dinamiche religiose.

 

Comunione di beni


In un mondo che ha imparato a globalizzare la miseria, i religiosi, per tradizione e oggi con nuove urgenze, sono chiamati a globalizzare la solidarietà, come frequentemente insiste Giovanni Paolo II. I religiosi, definiti “esperti di comunione” in un mondo diviso e ingiusto,[15] devono proporsi come “esperti della comunione dei beni”. Di fronte al “materialismo avido di possesso, disattento verso le esigenze e le sofferenze dei più deboli e privo di ogni considerazione per lo stesso equilibrio delle risorse naturali”, ricorda l’Esortazione apostolica Vita consecrata al n.89, “la 'risposta' della vita consacrata sta nella professione della 'povertà evangelica', vissuta in forme diverse e accompagnata da un attivo impegno nella promozione della solidarietà e della carità”.[16]

Il tema è molto ampio, bene approfondito e illustrato negli aspetti ideali e progettuali. Alcune esperienze innovative sono in corso nella micro economia di Case e Istituti, con sortite e interazioni nei rapporti della macro economia attuale.

Nella realizzazione della comunione dei beni possono essere di riferimento alcune direttrici ideali-pratiche lasciate già dal Vaticano II, di grande valore per l’essenzialità e concretezza, molte volte riprese nel magistero pontificio trattando dei temi della solidarietà. “Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia perché non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia; si eliminino gli effetti, ma anche le cause dei mali; l’aiuto sia regolato in modo tale che coloro i quali lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla dipendenza e divengano autosufficienti”.[17]

Questo celebre brano può essere applicato nella “comunione dei beni” tanto esterna che interna degli Istituti: 1) non si dia per carità, ciò che si deve per giustizia, 2) l’aiuto tenda a creare autonomia e non dipendenza; 3) si eliminino gli effetti, ma anche le cause dei mali; 4) si dia per condividere la povertà e non la ricchezza.

 

Quattro principi e alcuni temi aperti


1) La comunione dei beni risponde innanzitutto ad esigenze di giustizia. Così quando una Casa collabora economicamente con la Provincia non sta facendo un atto di graziosa liberalità, ma sta adempiendo un preciso dovere di giustizia, derivante dai vincoli sacri e dai doveri di famiglia. “Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia perché non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia”.

Inoltre, il contribuire alla “cassa comune provinciale o generale”, come stabilito nelle Regole, va visto come un tentativo di vivere in concreto l’ideale della decantata primitiva comunità cristiana degli Atti degli Apostoli;[18] è una forma per poter contribuire con chi ha meno possibilità.

“La povertà include la dimensione economica: la possibilità di disporre del denaro, quasi fosse proprio, sia per sé che per i propri familiari, uno stile di vita troppo diverso da quello dei confratelli e della società povera in cui spesso si vive, feriscono ed indeboliscono la vita fraterna”.[19]

Inoltre, cospira contro la comunione di beni, oggi, la continua necessità di lavori nelle case, complice la società dello spreco che con normative, a volte capricciose, obbliga a ristrutturare case perfettamente funzionanti. D’altra parte queste esigenze, spesso mettono in moto un incessante bisogno di fare lavori senza che avanzi mai niente per i bisogni di altre case e per la missione. Dovrebbe essere naturale per chi, con il voto di povertà ha rinunciato, come minimo, al superfluo, ogni tanto trovare un “plus” da condividere con chi è più nel bisogno nell’Istituto, aiutare nuove fondazioni e progetti dell’Istituto e della Chiesa.


2) Un secondo principio ricorrente nel promuovere la comunione dei beni all’interno di un Istituto è che l’aiuto serva a creare graduale autosufficienza e non consolidi la dipendenza di Case o di intere Province.

La solidarietà può essere anche una trappola. Triste favore faremmo alla missione, se con fondi dall’esterno, facessimo un opera che domani non stia in piedi, che non raggiunga la propria autonomia o che alla fine, per sopravvivere, sia messa solo a servizio dei più ricchi. E’ necessario imparare a coniugare comunione, missione, povertà e autonomia economica. “L’aiuto sia regolato in modo tale che coloro i quali lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla dipendenza e divengano autosufficienti”. Questo criterio può suggerire, ad esempio, di dare aiuti per il primo avvio di un’opera o per un tempo di sviluppo o di crisi straordinari, ma non per la sussistenza ordinaria che deve normalmente trovarsi in loco.[20] Tra l’altro, questo ha un importante risvolto apostolico, in quanto garantisce di camminare al passo del popolo tra cui si vive e non con quello proprio, forse più potente economicamente ma meno solidale umanamente.


3. “Si eliminino gli effetti, ma anche le cause dei mali”. Mentre è altamente meritorio ed efficace l’impegno delle comunità religiose che si interessano fattivamente dei poveri, sia nelle modalità tradizionali, sia con nuove forme più adatte alle nuove povertà, oggi è particolarmente urgente e stimata un’azione che miri alla “sensibilizzazione di tutti gli ambienti ai problemi della povertà, suscitando nei laici disponibilità al servizio, vocazioni all'impegno sociale e politico, organizzazione di aiuti, volontariato”.[21]

Sull’esempio della missione profetica e liberatrice di Gesù (Lc 4, 18), in continuità con i numerosi interventi del Papa e dei Pastori della Chiesa nelle diverse regioni del mondo, i religiosi sono chiamati a farsi voce, coscienza e impegno di vasti strati dell’umanità nella lotta per superare tutto ciò che li condanna a restare ai margini della vita. Nessuno nega la delicatezza di un tale impegno che comporta dimensioni politiche, sociali e culturali non direttamente di competenza dell’impegno spirituale, ma, per la difesa e la promozione della giustizia, occorre superare sia le posizioni di una pretesa e fallace neutralità e sia i settarismi univoci e totalizzanti.[22] In questa profezia della solidarietà,[23] “il ruolo dei religiosi, nelle attività e nelle opere, riveste significati profondi di stimolo e di impegno per quelle trasformazioni culturali e sociali che contribuiscono alla promozione umana”.[24]


4. Una quarta direttrice di attuazione riguarda più specificamente la comunione dei beni negli Istituti di vita consacrata e potrebbe essere formulata così: condividere i beni per rimanere poveri. E’ un controsenso che in un Istituto ci siano comunità povere e comunità ricche. E’ giusto mettere in moto una maggiore comunione di beni, ma va ricordato che non si tratta tanto e solo di distribuzione della ricchezza. Se così fosse, sembrerebbe che l’ideale è quello di essere tutti un po’ più ricchi, con uguali condizioni di benessere. Invece, no. Se si condivide e si fa comunione dei beni è per continuare nella santa povertà che è la nostra ricchezza più grande. Viviamo tutti da poveri: quelli che danno, senza supponenza, e quelli che ricevono, senza avidità. Molto opportunamente è stato osservato che l’ "evangelizare pauperibus" va integrato con l’ "evangelizari a pauperibus", cioè “lasciarsi evangelizzare dal contatto con il mondo dei poveri”.[25]

Per i consacrati con voto di povertà, la tentazione della ricchezza e dell’imborghesimento non è meno forte nei paesi poveri rispetto a quelli più ricchi. Per tutti vale la legge di accontentarci del necessario e dare il resto ad altri, ugualmente poveri. Che non avvenga che l’esercizio della fraterna solidarietà tra religiosi porti all’imborghesimento, strappandoci il bene prezioso della povertà che abbiamo scelto volontariamente e liberamente per amore e “imitazione di Cristo povero” e per “'l'amore preferenziale per i poveri' che si manifesterà in modo speciale nella condivisione delle condizioni di vita dei più diseredati” (Vita consecrata 90).

 

Temi aperti


I temi aperti nella realizzazione della comunione dei beni non sono pochi e toccano in modo differente Istituti, regioni geografiche, ambiti di inserimento e attività delle comunità. Se ne possono segnalare alcuni più comuni, a mo’ di elenco, oggetto dell’approfondimento dell’Assemblea USG.


1. Le “eccedenze” e la prudente riserva economica.

Va superata una visione dell’amministrazione che opponga “previdenza” e “divina Provvidenza”. Se da un punto di vista teorico i concetti sono abbastanza chiari, l’equilibrio pratico occorre cercarlo e verificarlo continuamente. Certamente sarebbe contrario alla fiducia nella divina Provvidenza e alla pratica del voto di povertà il “capitalizzare” e il “vivere di rendita”. Ciò avrebbe un enorme influsso – e negativo - sulla mentalità e sulla pratica della vita religiosa. Il consacrato, singolo e Istituto, è chiamato a vivere del proprio lavoro, in solidarietà e imitazione del Cristo povero e dei poveri cui è inviato.

Non è facile calcolare e distinguere quanto può costituire una prudente riserva, a livello locale e di Istituto, dalle eccedenze da condividere nella comunione dei beni del proprio Istituto. Tra le indicazioni pratiche, due sembrano affermarsi come equilibratrici: 1) normalmente, è da versare per la comunione dei beni tutto l’eccedente di gestione; 2) è opportuno fissare dei tetti predefiniti per l’accantonamento delle riserve economiche, a partire da bisogni reali e conosciuti onde evitare la corsa alla capitalizzazione.


2. Gli ambiti della comunione dei beni.

Oltre agli ambiti interni all’Istituto stesso – comunità locale, Provincia, Istituto -, emergono sempre più le urgenze di una comunione intercongregazionale dei beni per potenziare iniziative comuni, salvare beni e valori educativi, assistenziali, artistici, ecc. che andrebbero perduti o “mondanizzati” senza una condivisione intercongregazionale.

Nella comunione ecclesiale dei beni c’è una tradizione ideale e pratica molto varia. Probabilmente, nel realizzarla vanno evitate sia forme di tipo fiscale, obbligatorie, una specie di imposta sulla persona fisica o sull’Istituto, e sia il disinteresse o gli atteggiamenti di umilianti elemosine. In ambedue i casi, difetta la relazione e dunque la possibilità stessa che si verifichi, oltre alla “comunione dei beni”, la “comunione fraterna”. In questa direzione discrezionale e relazionale va il dettato del canone 640 quando dice che gli istituti “nella misura delle proprie disponibilità, destinino qualcosa dei propri beni per le necessità della Chiesa e per contribuire a soccorrere i bisognosi”.


 3. Trasparenza amministrativa.[26]

Il denaro e la amministrazione dei beni nella vita religiosa sono sempre stati circondati da grande riservatezza, coperti quasi da un velo di mistero. La trasparenza amministrativa è una esigenza morale prima che operativa. Non è solo una tecnica, ma uno stile di vita, leale, onesto e fraterno. Ha un importante riflesso anche nel creare fiducia e partecipazione, condizioni indispensabili per la comunione dei beni.

Il diritto canonico e quello proprio già danno indicazioni precise e puntuali. Il “rendiconto amministrativo”, previsto con scadenze diversificate a livello locale, provinciale, generale è il mezzo privilegiato per attuare la trasparenza amministrativa. Un fattore di trasparenza, che a volte difetta, è quello del “controllo” amministrativo. Liberato da connotazioni emotive e da pregiudizi che richiamino sfiducia, sospetto e disistima, il controllo è uno strumento indispensabile di aiuto reciproco, di prevenzione di errori, di responsabilità condivisa. Superati i primi eventuali irrigidimenti soggettivi, il controllo favorisce la trasparenza e con essa l’autentica comunione dei beni.[27]


4. Informazione e progetto economico.

Non è solo un tributo da pagare alla moda del tempo super informatizzato, ma la via per creare una condivisione ampia sui problemi e sui progetti comuni, per fare sì che una Provincia o Congregazione non sia una pura federazione di individui, di Case autonome, ma un corpo organico con flusso di risorse e solidarietà di azione.

L’informazione sui dati economici è necessaria a tutti i livelli; va diversificata e realizzata in modo prudente ma veridico. Diventa sempre più comune il ricorso a forme di informazione non solo dal basso in alto, che già avviene istituzionalmente mediante il rendiconto, ma anche dall’alto (da direzione generale, provinciale, locale) in basso (a province, comunità, confratelli) definendo priorità, segnalando problemi, convocando a progetti che richiedono la comunione dei beni.

In questa ottica di comunione, risulta sommamente efficace il disporre di “progetto economico” a tutti i livelli. Oltre alle importanti motivazioni tecniche-amministrative che spingono a che ogni Casa o Provincia o Governo centrale disponga di un “progetto economico”, ci sono quelle, non meno determinanti, religiose-relazionali. Un progetto che integri le esigenze locali con quelle comuni, ben pensato, realistico e condiviso, salvaguarda da spinte soggettive, da improvvisazioni emotive, da disorientanti spontaneismi che oltre che causa, a volte, di problemi economico-amministrativi, creano frazionamento e disinteresse, minacciano la comunione.

 

ECONOMIA E MISSIONE


Durante tutto il suo percorso storico, la Chiesa e, in particolare, la vita consacrata, hanno vissuto un’alta tensione tra ricerca di povertà e tentazione della ricchezza. La tensione è benefica ed è un segno inequivocabile dell’incarnazione dello spirito evangelico nella vita quotidiana. I cristiani sono fratelli solidali e non asceti isolati o idealisti mondanizzati. Anche nella prospettiva della missione, dunque, nessun manicheismo e dualismo dovrebbe creare “spiritualisti” disincarnati e “faccendieri” senz’anima.

Ad equilibrare la tensione tra povertà e gestione dei beni è sempre stata la coscienza che “i beni sono di Dio e dei poveri”, che “noi siamo solo amministratori”, che “i beni servono a fare il bene”, che “i beni sono per la missione”.[28] In molti casi si è verificata la classica situazione di “religiosi poveri e conventi ricchi”, oppure di “religiosi poveri e opere (caritative, assistenziali, pastorali, ecc.) ricche. Può bastare una simile formula e, ancor più, è oggi di fatto possibile? Il canone 640 presuppone di no se invita gli istituti: “si adoperino per dare una testimonianza in certo modo collettiva di carità e di povertà”. Il documento Vita fraterna in comunità ricorda le diverse prospettive pratiche con cui gli Istituti rispondono all’impegno verso i poveri: “In questa grande mobilitazione, i religiosi hanno scelto il programma d'essere ‘tutti per i poveri’, ‘molti con i poveri’, ‘alcuni come i poveri’" (n.63).

Il problema, evidentemente, si presenta con aspetti di tipo finanziario-economico e di tipo religioso-evangelico.

Secondo il Prof. Palom, intervenuto all’Assemblea della USG, all’origine del difficile rapporto dei religiosi con i beni sta “la confusione che spesso si fa tra il concetto di povertà e quello di economia. La povertà è una scelta e un impegno personale del religioso che vive in una istituzione che ha bisogno di risorse economiche, senza le quali lo svolgimento della missione propria dell’istituzione religiosa è impossibile”. Non sta nelle risorse economiche il problema, quanto piuttosto “nella loro entità, nel modo di amministrarle e nella chiarezza della gestione”. Qui si colloca la “tentazione” dei beni: in un loro uso egocentrico e non solidale. Le risorse economiche “non saranno bene orientate se non saranno al servizio della missione”.[29] A conferma dell’osservazione sta la storia di tanti fondatori e di tanti Istituti che hanno maneggiato quantità enormi di beni e di denaro senza che nulla sia rimasto nelle proprie tasche e tanto meno nella loro mentalità, ma tutto è andato in carità e missione. Penso al diacono Lorenzo, a Francesco, a Vincenzo de’ Paoli o, più recentemente, al mio fondatore, Don Orione, o a Teresa di Calcutta.

Al riguardo, è di stimolo la parola del Papa che, all’inizio del nuovo millennio, nel Messaggio del 1° gennaio 2001, afferma: “E’ forse giunto il momento di una nuova e profonda riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini. In tal senso risulta urgente riconsiderare la concezione stessa di benessere perché non sia dominata da una gretta prospettiva utilitaristica che lascia uno spazio marginale e secondario a valori quali la solidarietà o l’altruismo” (n.15).

Dunque, per prevenire e vincere la “tentazione” dei beni economici occorre stabilire un corretto rapporto tra vita consacrata, economia e missione. Non sarebbe adeguato né un rifiuto pregiudiziale e purista e né, tanto meno, un adeguamento alle dinamiche economiche moderne assunte con un vago idealismo evangelico privo di critica e pratica etica. Sul corretto rapporto tra economia e missione si incentrano attualmente le riflessioni e lo sforzo di soluzione di molti Istituti di vita consacrata.

A detta del Prof. Stefano Zamagni, intervenuto all’Assemblea USG, è dall’avvento del capitalismo di inizio ‘800 che il mondo cattolico ha disarmato la sua “capacità imprenditoriale”, lasciando l’economia in mano agli uomini d’affari. Anche la vita religiosa, prima promotrice di impresa in favore dei deboli, si è ridotta a promotrice di carità. “Come emerge chiaramente dall’insegnamento della Dottrina Sociale della Chiesa, la solidarietà senza sussidiarietà scade inevitabilmente nell’assistenzialismo, dunque nell’umiliazione”.[30]

Accenniamo ad alcuni temi teorico-pratici decisivi per impostare un corretto rapporto della vita consacrata con l’economia nella prospettiva della missione. Quale reperimento delle “entrate economiche”? Quale investimento delle risorse economiche? Quale uso delle risorse economiche nella missione?


Circa l’acquisizione delle risorse economiche


Fondamentalmente sono quattro le modalità di acquisizione di beni economici negli Istituti di vita consacrata: le donazioni, il lavoro dei religiosi, le entrate legate alle opere, gli interessi maturati dal capitale. E’ chiaro che la diversa proporzione di queste quattro voci di entrate economiche non incide solo sul sistema economico di un Istituto, ma anche sulla sua mentalità, sulla spiritualità, sui rapporti comunitari, sull’impegno lavorativo-apostolico.

Prendiamo, ad esempio, la segnalazione di una tendenza in atto in numerosi Istituti. Pare che, soprattutto negli ultimi tempi, l’entrata dagli utili e dagli interessi degli investimenti superino quelle determinate dal lavoro dei religiosi.[31] E’ chiaro che un simile fatto è assai rilevante per la vita consacrata. I nuovi modi di produrre denaro – anche quando questo sia correttamente destinato alla missione – provocano cambi nella vita consacrata che occorre evidenziare e governare, pena la perdita della propria identità spirituale e apostolica.

Il canone 634, dopo aver riconosciuto agli Istituti “la capacità di acquistare, di possedere, di amministrare e alienare beni temporali”, esorta: “Evitino tuttavia ogni forma di lusso, di eccessivo guadagno e di accumulazione dei beni”. Molti Istituti hanno posto nelle proprie regole il principio della non capitalizzazione. Ma oggi una “certa capitalizzazione” risponde non solo alla mentalità diffusa ma anche ad un effettivo bisogno del servizio apostolico nei nuovi tempi. Di fronte a tale fenomeno, negli Istituti, ci sono giudizi e risposte molto diverse e anche una certa confusione e indecisione.

Un fatto è certo: il tipo di acquisizione delle risorse economiche ha notevole rilevanza sulla vita religiosa e la missione, quindi non basta accontentarsi che “entri denaro”. Occorre fare scelte e gestire l’acquisizione delle risorse in base a criteri etici, religiosi e carismatici. Diversamente si ingenererà un cambio di mentalità e di identità di cui nessuno si sentirà responsabile e a cui non si potrà reagire in termini di richiami ideali o esortazioni spirituali.

 

Circa l’investimento delle risorse economiche


Anche nell’economia degli Istituti di vita consacrata, si è verificato il fenomeno della progressiva diminuzione di importanza del patrimonio immobiliare e della progressiva finanziarizzazione dell’economia dovuta alla crescita di importanza del denaro. E’ un tratto caratteristico della globalizzazione economica.

Lasciando almeno in parte l’investimento del risparmio nelle forme di “reddito fisso” (interessi su depositi bancari, titoli di stato, obbligazioni, ecc.) con utili di rendimento piuttosto limitati, anche non pochi Istituti sono diventati “investitori” del denaro, soggetti al mercato del denaro del quale non sempre si conoscono tutte le implicanze economiche ed etiche. D’altronde, molti Istituti e spesso anche singole opere si trovano a dover disporre di notevoli risorse finanziarie per le attività normali di opere-imprese, per rispondere alla legislazione civile e fiscale, per far fronte a spese non direttamente legate all’attività ma alla vita dell’Istituto (es. formazione iniziale dei nuovi membri, cura dei confratelli anziani, aiuto ad attività meno floride o totalmente gratuite ma rispondenti al carisma dell’Istituto, cassa comune, ecc.).

L’individuazione di alcuni criteri nella gestione degli investimenti negli Istituti di Vita consacrata è diventata un’urgenza su cui necessita confrontarsi serenamente ma anche coerentemente, pena la dissoluzione dell’identità della vita consacrata. Dalla già citata riunione dei Superiori ed Economi generali sono stati indicati alcuni criteri.[32]

La testimonianza della povertà. Non può che essere il criterio primo e discriminante la bontà o meno degli investimenti. La povertà, infatti,  sta al vertice delle norme amministrative di un Istituto, come detto nel canone 635 §2: “Ogni Istituto stabilisca norme adatte circa l’uso e l’amministrazione dei beni, perché sia favorita, tutelata e manifestata la povertà che gli è propria”. Va ricordato che – alla luce della storia della vita consacrata – la testimonianza della povertà è possibile solo se è personale e comunitaria, privata e pubblica, spirituale e materiale. Il maggiore o minore grado di compenetrazione di queste componenti determina il maggiore o minore grado di testimonianza della povertà e, dunque, di credibilità dei religiosi. L’uso del denaro deve riferirsi contemporaneamente a tutte queste dimensioni della vita consacrata.

La finalità apostolica del denaro. Anche questo è un criterio tradizionale che rettifica l’uso del denaro e lo tiene al riparo da tentazioni di capitalizzare per altri motivi (prestigio, potere, sicurezza autocentrica, ecc).[33] Occorre vigilare che il rapporto “denaro – finalità apostolica” sia quanto più stretto possibile, determinando tanto la quantità del denaro da tenere e da investire quanto le modalità di tale investimento. E’ questa manifesta destinazione apostolica delle risorse economiche (opere di solidarietà sociale, missioni, aiuto ai più svantaggiati e dimenticati, ecc.) che non solo attenua agli occhi della gente lo “scandalo” di ricchezze in mano ai religiosi, ma anzi ne stimola la fiducia e collaborazione perché bene impiegate.

La qualità dell’investimento. Questo criterio ci richiama al dovere di non pensare solo alla quantità di utile dell’investimento, ma anche alla qualità di ciascun tipo di investimento. Sarebbe moralmente illecito e scandaloso che il denaro dei religiosi – di fatto, anche se non intenzionalmente – fosse impiegato in operazioni chiaramente inique o anche solo dubbie andando ad alimentare quelle “strutture di peccato” così tenacemente denunciate dal Papa e dai religiosi stessi che le combattono o ne riparano alcuni guasti (povertà, fame, malattie, guerre, oppressione, lavoro iniquamente retribuito, sfruttamento, ecc.). Per dare adeguata concretezza all’applicazione di questo criterio occorrerebbe addentrarsi in questioni tecniche. Ma a tutti è noto che i mercati finanziari hanno leggi interne complesse, dettate dalla legge del profitto e dalla globalizzazione, in genere aliene da ogni considerazione etica lasciata alla sola sfera dei sentimenti soggettivi. Il controllo sull’uso finanziario del proprio denaro è limitatissimo e praticamente nullo. Soprattutto in questo campo, occorre pensare a qualche tipologia alternativa di investimento. Non mancano le esperienze che presuppongono qualificazione e collaborazione tra enti che si vogliano porre nel mercato in modo “etico”, ma “forte” e competitivo: lo IOR presso la Santa Sede, la Pax Bank in Germania, i “socially responsible funds” negli USA, le banche etiche e i fondi etici che stanno sorgendo in Europa e altrove, le organizzazioni di commercio equo e solidale.[34] Sono modalità eticamente più sicure perché l’obiettivo etico, insieme a quello redditivo ovviamente, sta nello statuto ed è garantito dalla dirigenza stessa di tali istituzioni. Per rendere efficaci e competitive queste modalità finanziarie alternative necessita superare la frammentazione in una prospettiva di “globalizzazione economica alternativa” posta al servizio della “globalizzazione della solidarietà”. Per questo è auspicato un maggior coordinamento sul tema degli investimenti etici tra i responsabili dell’economia degli Istituti di vita consacrata.


Circa l’uso delle risorse economiche

Il Codice di Diritto canonico, dopo avere affermato nel canone 222 che i beni temporali nella Chiesa sono destinati a “quanto è necessario per il culto divino, per le opere di apostolato e di carità e per l’onesto sostentamento dei ministri”, tratta dettagliatamente dell’argomento nei canoni 1254-1310. Di particolare rilevanza per il nostro tema è il dovere, richiamato nel can.1273 §3, di devolvere i beni per i fini per i quali la Chiesa li riceve e li possiede.

Le risorse economiche negli Istituti di vita consacrata hanno principalmente due destinazioni: la “comunione dei beni” per far fronte alle esigenze interne della vita dell’Istituto e dei suoi membri e la “missione” svolta dall’Istituto. Di fatto, la missione è di gran lunga la principale destinataria dei beni giunti all’Istituto per le diverse vie del lavoro, della beneficenza, dell’investimento. Tutta l’economia, in fondo, va concepita in funzione della missione. Un cattivo uso dei beni fa deteriorare la qualità della vita consacrata dei membri e toglie risorse alla missione evangelica; la depaupera delle risorse necessarie da investire nell’evangelizzazione e nella carità verso i poveri e gli ultimi. In ogni Istituto – e non solo in quelli di vita attiva – l’impegno socio-caritativo rappresenta la parte visibile di una spiritualità che si incarna nei differenti tempi e luoghi della missione.

           
Aiuto e autonomia economica delle Province nei Paesi poveri

Da ultimo, vogliamo dare attenzione a un tema economico assai rilevante negli Istituti che hanno Case e Province nei paesi cosiddetti del Terzo mondo o comunque poveri economicamente, che “non sono autosufficienti nel portare avanti le opere e rispondere ai bisogni ordinari dei religiosi o dei gruppi”. D’altra parte, nei paesi di maggiore benessere diminuiscono i religiosi e le opere con la conseguenza che si riducono anche le risorse economiche di quelle Province che maggiormente alimentavano la cassa comune della solidarietà dell’Istituto.

L’esistenza di Province e Case povere costituisce in se stesso un evidente segno profetico della collocazione dei religiosi nelle zone e tra le categorie più bisognose. E questo fa loro onore. Il problema anche in questo caso non è solo economico, ma investe vari e determinanti aspetti della testimonianza della vita consacrata e della sua missione. Dei doveri e delle dinamiche della comunione dei beni all’interno dell’Istituto è stato accennato precedentemente. Qui segnaliamo alcune caratteristiche della comunione dei beni che dovrebbe instaurarsi tra Istituto, Province “ricche” e Province “povere”.[35]

Innanzitutto, va riconosciuto che un certa precarietà economica è positiva in se stessa, indica aderenza al Vangelo, fedeltà al carisma dell’Istituto, fiducia nella Provvidenza, favorisce libertà e intraprendenza, suscita stima, ammirazione e collaborazione.

D’altra parte, è vincolante il principio evangelico dell’aiuto fraterno, tanto più all’interno di un Istituto dove si è tutti fratelli e membri alla pari, animati dallo stesso spirito e carisma. In un buon rapporto economico tra Case “ricche” e Case “povere”, tra Province con abbondanza di beni e Province sprovviste del necessario si gioca una buona fetta dell’unità e della missione di un Istituto.

L’aiuto della cassa comune dell’Istituto/Province alle Province/Case povere è una prassi abituale, sancita e motivata dalla Regola, soprattutto per far fronte a emergenze, spese straordinarie e nuovi progetti. Si verifica però che la perdurante situazione di povertà e dipendenza economica dei Paesi del terzo mondo si riproduce anche nei rapporti interni agli Istituti: ci sono Province e Case che, per il contesto dell’ambiente in cui si trovano, sono costantemente bisognose dell’aiuto delle altre.

Spesso si verificano anche all’interno degli Istituti i problemi che sono deplorati nei rapporti tra gli Stati. Da parte di comunità più “povere”, si lamenta l’umiliazione della dipendenza che talvolta ingenera atteggiamenti di fatalismo, di poca intraprendenza, di confronto invidioso con il benessere dei confratelli di altri paesi e non con i poveri del proprio. Da parte di comunità più “ricche”, si avverte il peso di un deficit amministrativo non sempre e non a lungo sopportabile, sorgono atteggiamenti di autoconservazione, di giudizio, di interferenza e anche di insofferenza verso quanti si devono aiutare. Se giustizia e carità non saldano nella comunione fraterna lo squilibrio creato dalla diversa situazione economica si creano contrapposizioni che minacciano alla radice l’unità dell’Istituto e la sua stessa ragion d’essere e di testimonianza: la fraternità.

Come realizzare una comunione dei beni che nei suoi dinamismi concreti crei giustizia e comunione e scongiuri il rischio di contrapposizione tra fratelli della stessa Famiglia?

Un obiettivo minimo, che pare condiviso in moltissimi Istituti, appare essere quello del raggiungimento da parte delle comunità religiose del terzo mondo di un’autonomia economica nella gestione ordinaria. Mentre all’Istituto, nel suo insieme, è chiesto di essere generosamente solidale per fare fronte a impegni economici straordinari delle Province povere, quali possono essere aperture missionarie, avvio di opere e nuovi progetti, costruzioni, carenze economiche dovute a crisi impreviste ed eccezionali.

Guardando alle esperienze maturate negli Istituti, sono state individuate alcune scelte concrete per conseguire tanto il risultato dell’autonomia economica nella gestione ordinaria delle Province “povere” che il necessario aiuto da parte di quelle “ricche”.[36]

Principio base è che in ogni ambiente le spese ordinarie devono essere coperte con le entrate ordinarie. Solo per alcune spese straordinarie si potrà fare ricorso all’aiuto esterno.

Costituzione di un fondo economico delle Province del terzo mondo creato con contributo della cassa comune dell’Istituto e alimentato con le proprie risorse. Il capitale del fondo, investito in Paesi con moneta forte, può sostenere con gli interessi ricavati alcune spese della Provincia. Il capitale appartiene alla Provincia, ma è un fondo dell’Istituto e non può essere toccato senza l’autorizzazione del superiore generale.

Costituzione della cassa comune a livello provinciale cui tutte le Case contribuiscono. Essa servirà per le spese comuni della Provincia quali governo e attività provinciali, vocazioni e formazione, spese straordinarie e urgenti, solidarietà alle Case in necessità, ecc. Le forme della contribuzione alla cassa comune può prevedere la raccolta di tutti gli utili di gestione delle Case, il versamento di una quota “pro capite”, la destinazione di una percentuale di tutte le entrate a titolo di donazione, ecc. Solo una efficiente realizzazione della cassa comune può aiutare a sfuggire alla tentazione del “chi ha spende, e chi non ha… si arrangi”, avverte Padre Franco Cagnasso in una circolare ai suoi missionari del PIME. Però “anche in missione di spese inutili ne facciamo – egli ammette -, e con lo stesso stile e mentalità. Con in più la relativa facilità a trovare fondi perché sono ‘per le missioni’”.[37]

Promozione di attività per l’autosufficienza economica: è da mettere in programma con realismo e creatività, tenendo in conto delle possibilità concrete e delle proprie caratteristiche carismatiche. Eccone alcune a titolo esemplificativo: attività immobiliari (compra e vendita vantaggiosa), gestione di attività lucrative (scuole private, fattorie, produzioni agricole, falegnamerie, garage, negozi, librerie, ecc.), assunzione di parrocchie in zone “ricche” per aiutarne altre in zone “povere”, contributo alla cassa comune di una percentuale di tutte le offerte e donazioni; costituzione in Province “ricche” di fondi di solidarietà per quelle “povere”, ricerca e cura di benefattori e partners di sostegno.

Preporre come economi religiosi preparati, abbastanza stabili, che sappiano gestire una pianificazione economica (elaborazione del progetto economico, bilancio preventivo, bilancio consuntivo, verifica) indispensabile per giungere alla autonomia del bilancio ordinario.

Il tenore di vita (alimentazione, casa, auto, telefono, generi voluttuari, ecc.) deve essere adeguato ai mezzi economici di cui si dispone e in sintonia con l’ambiente medio-povero in cui si vive. L’adeguamento al tenore di vita conosciuto in altri Paesi di maggior benessere creerebbe imborghesimento personale e controtestimonianza nel proprio ambiente.[38]

Maggiore responsabilità dei religiosi, a cominciare dal tempo della formazione iniziale, verso il lavoro per il proprio mantenimento:[39] lavoro retribuito, attività domestiche, cura di orto e campi, allevamento di animali, ecc. Una informazione-formazione sui temi amministrativi dovrebbe far parte ordinaria dei contenuti dell’iniziazione alla vita religiosa.

Informazione e formazione di tutti i religiosi sulla situazione economica della Provincia, sulle forme di risparmio e di utilizzo del denaro. E’ una iniziativa indispensabile e che darà i suoi frutti nel lungo termine con la crescita del senso di famiglia e della corresponsabilità economica.

 

Conclusione

Da questo excursus su alcune principali tematiche relative al rapporto dell’economia con la vita consacrata e la missione, appare evidente che amministrare “da religiosi” e “da apostoli” oggi rappresenta un impegno complesso e tecnicamente esigente. La buona amministrazione in un Istituto è una sfida da vincere non solo per i risultati sul piano prettamente finanziario, ma ancor prima su quello della qualità della vita religiosa, della testimonianza evangelica e della missione nel mondo.

Una buona integrazione dell’amministrazione nelle dinamiche della vita religiosa è un’urgenza acuita, oggi, dalla novità delle condizioni globalizzate e onnipervasive dell’agire economico che, dopo essersi svincolato dalle regole politiche, etiche e culturali, rischia di portare anche i religiosi a prescindere dalle leggi evangeliche e canoniche. Una tale autonomia sarebbe deleteria per il futuro della vita religiosa.

Finalmente, sul tema si sta concentrando l’attenzione di gran parte degli Istituti di vita consacrata. L’Assemblea generale dell’Unione Superiori Maggiori (maggio 2002) ha fatto il quadro della situazione e ha offerto alcuni orientamenti competenti e pertinenti. Sarà importante continuare a confrontare le riflessioni e le esperienze realizzate negli Istituti di vita consacrata e darvi continuità con la costituzione di qualche organismo di concertazione economica tra religiosi.

              Se talora si è infiltrata una certa stanchezza o trascuratezza o rinuncia dei religiosi nel protagonismo loro proprio nell’amministrazione dei beni, occorre reagire responsabilmente. Quando il diritto canonico (can. 1284) indica come atteggiamento principale di una saggia amministrazione “la diligenza di un buon padre di famiglia” non intende invitare al pressappochismo, quanto piuttosto fare riferimento alle motivazioni più profonde per una corretta amministrazione e al contesto relazionale in cui si deve svolgere l’amministrazione dei beni della Chiesa.

La complessità del fatto economico, sia in riferimento all’economia stessa che alle varie legislazioni che la regolano civilmente e fiscalmente, va assunta nell’amministrazione dei beni ecclesiastici in modo critico e creativo, senza pigre sudditanze o frettolose deleghe. Proprio per fare ciò, occorre avvalersi di quelle consulenze e collaborazioni dei professionisti laici che garantiscono la correttezza civile e la sana gestione delle risorse. Ciò, però, non dovrebbe in alcun modo significare una totale delega a terzi dell’amministrazione dei beni che la Provvidenza mette a disposizione, quanto invece la sapiente distinzione degli aspetti tecnico-gestionali da quelli più specificamente decisionali, di impostazione economica e di destinazione delle risorse, dei quali non si può delegare la responsabilità.

Infine, la trattazione globale dell’argomento amministrativo ha fatto emergere che, oltre alle finalità proprie e istituzionali, l’amministrazione dei beni degli Istituti oggi deve farsi carico di promuovere attivamente una alternativa profetica e competitiva al violento e ingiusto sistema economico imperante. Per non entrare consapevolmente o inconsapevolmente in strutture economiche inique e per non essere condannati alla marginalità e irrilevanza economica, i religiosi devono farsi promotori, come già in altri tempi, di imprese economiche eque e solidali. Ci sono già alcune significative primizie. Affinché queste possano avere uno sviluppo efficace, eticamente ed economicamente, è richiesta una forte unità e cooperazione tra Istituti e allargata ad altre sinergie sane. La frammentazione indebolisce la competitività rispetto a quanti hanno già monopolizzato la piazza del mercato con la sola legge del profitto, lasciandovi folle di poveri, affamati, oppressi, schiavi, socialmente inutili.

I religiosi, “desiderosi di «seguire Cristo sulle vie della storia dell'uomo»,[40] sono convocati nel nuovo millennio a un grado e a una modalità nuova dell'amore concreto verso i poveri: «Il secolo e il millennio che si avviano dovranno ancora vedere, ed anzi è auspicabile che lo vedano con forza maggiore, a quale grado di dedizione sappia arrivare la carità verso i più poveri. Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi: ‘Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi’ (Mt 25, 35-36). Questa pagina non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell'ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo».[41]


Flavio Peloso

dei Figli della Divina Provvidenza (Don Orione) - Roma

 

N  O  T  E  __________________________________________

[1] L’Unione Superiori Maggiori ha dedicato la sua 60° Assemblea semestrale del maggio 2002 proprio al tema “Economia e missione nella Vita Consacrata, oggi”.

[2] Sono da 10 anni nel Consiglio generale dei Figli della Divina Provvidenza (Don Orione). Il tema qui trattato è stato oggetto di un Convegno internazionale della Famiglia religiosa orionina (Ariccia, 10-14 dicembre 2001) che poi ha prodotto il documento finale Trasparenza nell’amministrazione e comunione dei beni, Piccola Opera della Divina Provvidenza, Roma, 2002. Mi avvalgo anche del contributo preparatorio del Superiore generale, Don Roberto Simionato, dal titolo Povertà, saldo muro della Congregazione, “Atti e comunicazioni della Curia generale” 54(2000) n.203, p.191-214.

[3] Padre Velasio De Paolis ha trattato dal punto di vista canonico de L’amministrazione dei beni: responsabilità dei superiori e degli economi nel precedente “Informationes” 27(2001) n.2, p.109-122.

[4] Evangelica Testificatio, 17.

[5] Nel frattempo, il dramma dei poveri si è aggravato. “Più di un miliardo di esseri umani vivono in estrema povertà. Il Fondo Monetario Internazionale classifica 600 milioni come “poverissimi”. Il 17 % della popolazione possiede l’83 % della ricchezza del pianeta” (Dentro la globalizzazione, p. 8, Instrumentum laboris della 58° assemblea della Unione Superiori Generali, Ariccia, maggio 2000). Aumenta vertiginosamente il divario tra info-ricchi e info-poveri, cioè tra coloro cha hanno accesso alla informazione (il 7% della popolazione mondiale) e coloro ai quali, invece, questo accesso è ignoto o negato (il 70% non sa cosa sia internet). Qualcosa è cambiato in peggio statisticamente e qualitativamente: i poveri di oggi subiscono l’aggressione quotidiana del consumismo che li rende, spesso, insoddisfatti e aggressivi. I poveri di periferia non sono più come i buoni contadini di una volta, o come i Mobà dell’alto Togo, o come la gente della Moldavia rumena, fieri dei loro valori e tradizioni vissuti in una povertà onesta. Oggi vengono derubati anche dei valori innati nei poveri di Yavhé; quei valori che noi religiosi abbiamo scelto di incarnare con la vita religiosa.

[6] E’ dunque in gioco uno dei fondamenti della vita consacrata: “La povertà dei singoli che comporta uno stile di vita semplice e austero, non solo libera dalle preoccupazioni inerenti ai beni personali, ma ha sempre arricchito la comunità, che poteva così porsi più efficacemente al servizio di Dio e dei poveri”; Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, La vita fraterna in comunità, n.44.

[7] I documenti di lavoro di questa Assemblea sono pubblicati in Unione Superiori Generali, Economia e missione nella Vita Consacrata, oggi, Ed. Il Calamo, Roma, 2002; sarà citato Economia e missione.

[8] Economia e missione, o.c., n.3, p.12.

[9] Recentemente la rivista “Vita Consacrata” ha dedicato tutta una serie di articoli al tema dell’uso evangelico dei beni da parte dei consacrati; cfr. F. Scalia, Noi consacrati e i “beni dei poveri”, “Vita consacrata” 37(2001) n.3, 252-265; C.M. Martini, L’uso evangelico dei beni di questo mondo, “Vita consacrata” 37(2001) n.4, 355-368; B. Maggioni, Gesù e il denaro, “Vita consacrata” 37(2001) n.5, 473-479; E. L. Bartolini, Uso dei beni e giustizia, “Vita consacrata” 37(2001) n.6, 631-643.

[10] Can. 1282: “Tutti coloro, sia chierici sia laici, che a titolo legittimo hanno parte nell'amministrazione dei beni ecclesiastici, sono tenuti ad adempiere i loro compiti in nome della Chiesa, a norma del diritto”. Si veda poi la descrizione dei compiti nel can. 1284.

[11] Un riflesso canonico della verità che i beni sono “della Chiesa” si ha nel sistema delle autorizzazioni per la validità degli atti amministrativi straordinari dalla Chiesa stessa delegati in gran parte ai competenti superiori dell’Istituto, fatta eccezione di alcuni più notevoli per i quali è richiesta la licenza della Santa Sede; cfr. can.638 §3.

[12] Così Aquilino Bocos Merino, CMF, El servicio de animación de los economos en la vida misionera de la congregación, Encuentros de Economos, Fatima, 29.9.1999.

[13] L’economo in un Istituto religioso può essere un laico? Quasi tutti i commentatori del Codice presuppongono che sia religioso senza dirlo; qualcuno, commentando il can. 636, l’afferma esplicitamente: “l’economo deve essere sempre membro dell’Istituto” (D. J. Andrés, Il diritto dei religiosi. Commento al Codice, Roma 1984, p.171); “l’amministrazione deve essere affidata a delle persone dell’Istituto distinte dal Superiore” e poi “Certo non può essere un economista o un commercialista che non appartenga all’Istituto” (Commento al Codice di diritto canonico dello Studium Romanae Rotae, Roma 2001, p.388); L. Chiappetta ritiene che “può essere anche un laico, come l’economo diocesano (can.494): in nessun canone, di fatti, s’impone che l’economo di un Istituto religioso sia membro del medesimo” (Il Codice di diritto canonico. Commento giuridico-pastorale, Napoli 1988, p.733). Nel diritto proprio, in genere, è detto che deve essere membro dell’Istituto e se ne precisano ulteriormente modalità di nomina, requisiti e ruolo.

[14] Questi comportamenti che “senza volerlo danneggiano l’immagine delle Congregazioni più coinvolte e della Vita Consacrata nel suo insieme” hanno costituito un motivo della scelta del tema economico per i lavori della 60° Assemblea generale dell’Unione Superiori Maggiori, 2002.

[15] Riprendendo concetti espressi in Gaudium et spes 19 e 32, il documento Religiosi e promozione umana, al n.24, afferma: “«Esperti di comunione», i religiosi sono quindi chiamati ad essere, nella Chiesa, comunità ecclesiale e, nel mondo, testimoni e artefici di quel «progetto di comunione» che sta al vertice della storia dell'uomo secondo Dio”; cfr. Vita fraterna in comunità, 10; Vita consecrata 51.

[16] Nel medesimo numero 89, nel ricordare iniziative già in atto, il documento conferma l’indicazione di una via da seguire: “Quante persone consacrate si spendono senza risparmio di energie per gli ultimi della terra! Quante di esse si adoperano a formare futuri educatori e responsabili della vita sociale, in modo che si impegnino ad eliminare le strutture oppressive e a promuovere progetti di solidarietà a vantaggio dei poveri! Esse lottano per sconfiggere la fame e le sue cause, animano le attività del volontariato e le organizzazioni umanitarie, sensibilizzano organismi pubblici e privati per favorire un'equa distribuzione degli aiuti internazionali”.

[17] Apostolicam actuositatem, 8.

[18] Cfr. A. Morabito, Economia di comunione in Trasparenza nell’amministrazione e comunione dei beni, o.c., p.13-21.

[19] La vita fraterna in comunità, n.44.

[20] E’ interessante a questo riguardo la storia di una istituzione caritativa della mia Congregazione, a Seregno, che ha celebrato di recente il cinquantesimo di vita. Il benefattore Giovanni Colli donò il terreno dove sorse l’istituto e aggiunse un consistente lascito a favore dell’opera, ma per sua espressa volontà, non si poté usufruire del denaro se non dopo dieci anni. E giustificava quella scelta: “Se la struttura è valida, in questo periodo potrà camminare con le sue gambe. Se non lo è, crollerà”.

[21] Vita fraterna in comunità, 63.

[22] Cfr. Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Religiosi e promozione umana, n.4.

[23] Alla “profezia della solidarietà” dedica parte della sua relazione Padre Aquilino Bocos Merino, CMF, El servicio de animación de los economos en la vida misionera de la congregación, Encuentros de Economos, Fatima, 29.9.1999.

[24] Religiosi e promozione umana, 12.

[25] Vita fraterna in comunità 63.

[26] Si veda al riguardo il contributo di G. Mazzali in Trasparenza nell’amministrazione e comunione dei beni, o.c., p.41-56.

[27] Il prof. F. J. Palom ritiene opportuno prevedere “una periodica verifica dei conti o auditing, da persone diverse da quelle che elaborano e presentano i conti stessi. Sottoporre ad auditing la contabilità delle opere e dell’Istituzione, non significa non fidarsi degli amministratori ed economi, ma cercare di rafforzare la loro posizione ed offrire all’esterno, collaboratori dell’istituzione, genitori di alunni, ed alla società in generale, cifre trasparenti e verificate da enti di prestigio”, Economia e missione, o.c., p.59.

[28] Tali convinzioni sono da aggiornare e verificare continuamente nella prassi concreta; si vedano, ad esempio, la Nota pastorale della Conferenza Episcopale Calabra “Sull’uso del danaro” (“Il Regno-Documenti” 11/2002, p.336-338) e il Decreto di Mons. Giancarlo Brigantini, vescovo di Locri-Gerace, dal titolo “La cruna dell’ago” (“Il Regno-Documenti” 11/2002, p.338-342)

[29] La relazione è riportata in Economia e missione, o.c., p.43-62.

[30] La relazione è riportata in Economia e missione, o.c., p.77-101.

[31] Cfr. Economia e missione, o.c. n.19, p.16.

[32] Cfr. Economia e missione, o.c., 117-123.

[33] Cfr. Economia e missione, o.c., n.33, p.20.

[34] Tra queste esperienze organiche di organizzazione economica alternativa c’è il progetto di Economia di comunione sostenuto dal Movimento dei Focolari. Una sua presentazione sintetica si trova con il titolo Per una economia di comunione in Trasparenza nell’amministrazione e comunione dei beni, o.c., p.57-77. Una esposizione globale si ha in L. Bruni, L’economia di comunione, Città Nuova, Roma, 1999; L. Bruni – V. Moramarco, L’economia di comunione: verso un agire economico a ‘misura di persona’, Vita e Pensiero, Milano, 2000.

[35] Tutte le case e i religiosi devono essere “poveri”. Qui, per semplificare, i termini “ricchi” e “poveri” sono usati nel senso che hanno più o meno le risorse necessarie al proprio sostentamento e alla propria missione e che si trovano in un ambiente socio-economico ricco o povero. Inoltre, anche all’interno degli Istituti la distinzione tra “ricchi” e “poveri” non è del tutto netta: ci sono Istituti poveri con province ricche o viceversa; come pure si hanno province povere con Case ricche o, viceversa, province ricche con Case cronicamente povere.

[36] A “Economia e Vita religiosa nei Paesi del terzo mondo: dipendenza, autonomia, stili di vita, aiuti” è stato dedicato lo studio di una commissione della Assemblea generale USG del maggio 2002, i cui risultati sono riportati in Economia e missione, o.c. p.133-140.

[37] Circolare pubblicata in “Il vincolo”, 69(1998), n.190, p.75-79.

[38] Cfr. Vita fraterna in comunità, n.44.

[39] “Il lavoro per vivere non è un ostacolo alla Provvidenza di Dio che si prende cura dei minimi dettagli delle nostre vite, ma entra nei suoi piani. Può essere considerato come un servizio alla comunità, un mezzo per esercitarvi una certa responsabilità e per collaborare con gli altri. (…) Il lavoro risponde così, non solo ad una necessità economica e sociale, ma anche ad una esigenza evangelica”, Cfr.Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica, Direttive sulla formazione negli Istituti religiosi, n.79.

[40] Vita consecrata 46.

[41] Congregazione per la Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Ripartire da Cristo 34.

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