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Messaggi Don Orione
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Autore: Germano Corona
Pubblicato in: Articoli pubblicati nel Bollettino Amici di Don Orione, Genova

DON ORIONE E GENOVA: un amore a prima vista
19 MARZO 1924: nascita del Piccolo Cottolengo Genovese
TOMMASO CANEPA: identikit dell'amico e del benefattore
IL PAMMATONE - Via Bartolomeo Bosco
ANTONIO BOGGIANO PICO: uno di famiglia
IL CONSERVATORIO S.GIROLAMO DI QUARTO
CASA GAMBARO
LA FANTASIA DEL BENE
VIA BARTOLOMEO BOSCO
LE SUORE
MARZO 1933: acquisto del Paverano
ANGELA SOLARI vedova Queirolo
IL PAVERANO: SI INCOMINCIA
SALITA ANGELI
SOMMARIVA SALVATORE: Dio non c'è
ALFREDO DIVANO
GENOVA - Via del Camoscio
QUARTO- Castagna


GENOVA  E DON ORIONE


“Se il Piccolo Cottolengo si è diffuso e allargato ovunque
questo si deve in gran parte all’esempio edificante di carità verso i poveri
che voi avete dato o i miei buoni e indimenticabili genovesi

Don Orione ai Benefattori genovesi, 10 marzo 1937


 

DON ORIONE E GENOVA: UN AMORE A PRIMA VISTA
 

Don Orione aprì personalmente una decina di istituti o cottolenghi in Genova e di dimensioni di tutto rispetto. È interessante tentare di scoprire il perché di questa simpatia.

Nel pomeriggio del 21 settembre 1870 veniva ammainata la bandiera dello Stato Pontificio che sventolava su Castel S. Angelo e fu donata al Barone Guglielmo de Wedel Jarlsberg, il primo cattolico norvegese chiamato a prestare servizio d’onore. Egli l’affidò poi alla figlia Carmen, sposata al Sen. Antonio Boggiano Pico. Quella bandiera venne “restituita” in dono al Papa quando andò a far visita al Cottolengo di Don Orione a Genova – Paverano il 22 settembre 1985.

L’atto unilaterale compiuto dal governo italiano di fare di Roma la capitale dello Stato, fu pure l’inizio di una serie di leggi anticlericali come la soppressione di conventi e il conseguente allontanamento di migliaia di religiosi dalle loro sedi; il placet governativo per gli atti di magistero e di disciplina della chiesa e l’exequatur, ossia l’approvazione dell’autorità civile perché un vescovo potesse entrare nella diocesi assegnatagli. Garibaldi elegantemente definiva Pio IX un metro cubo di letame.
Questo povero Papa desiderava essere sepolto in San Lorenzo fuori le mura. Per non dar motivo a chiassate si aspettò qualche anno prima di traslare la salma e, per eccesso di cautela, il rito venne fatto di notte. Il giornale “Lega della democrazia” così ne dava notizia: “La notte del tredici luglio si trasportava la carogna di Pio IX... senza le baionette dei soldati e le rivoltelle della sbirraglia sarebbe stata gittata dal carro funebre nel Tevere”.

In questo clima di astiosità nacque e trascorse buona parte della sua vita Don Orione. Ora si comprende il motivo del suo amore al Papa e l’attaccamento viscerale alla Chiesa. Come ha spinto Don Orione a prendere posizione, nello stesso modo l’anticlericalismo smaccato suscitò una reazione vivace ed agguerrita da parte dei cattolici più impegnati. Nacque così l’Opera dei Congressi Cattolici.
L’11 settembre 1892, il vescovo di Tortona mons. Bandi celebrò il Congresso diocesano al quale vennero invitati esponenti di spicco di Genova. Orione, che non era ancora prete, vi partecipò attivamente e lasciò nei più una straordinaria impressione. Venne perciò invitato al X Raduno dei Congressi che si sarebbe celebrato in ottobre a Genova.
Quindi possiamo dire che, non ancora sacerdote, Orione entra in qualche modo nell’anima dei genovesi. Due anni dopo manderà a studiare nei licei della città i suoi migliori studenti, fra i quali il venerabile Gaspare Goggi.

Questo nuovo legame con Genova gli permette di conoscere Tommaso Canepa, cristiano fervente, attivo, molto riservato. Egli vorrebbe che Don Orione aprisse un’opera e gli mette a disposizione una sua casa. Don Orione saggiamente prende tempo: ha poco più di trenta anni e non può bruciarsi sul nascere. Inoltre un chierico o un sacerdote non può agire nell’ambito della chiesa senza il benestare del suo vescovo. Quello di Tortona ha già grattacapi per conto suo per inseguire i sogni di un giovincello. Se don Orione avesse fallito i cocci se li sarebbe dovuti riattaccare il vescovo.

A Genova poi stava operando magnificamente bene Don Vincenzo Minetti. Questo santo prete aveva dato vita a tantissime opere, era benvoluto, faceva un sacco di bene. Se Don Orione avesse subito accontentato Canepa e fatto un’opera dove costui desiderava, cosa avrebbe detto il vescovo di Genova? Quel che dirà in seguito il card. Minoretti: “Qui a Genova abbiamo tante opere; e quando non sanno più come fare, vengono da me a chiedere aiuto. E poi stancano troppo perché bussano tutti alle stesse porte. E io ne sento i rintocchi”.

La diocesi di Genova sfortunatamente in pochi anni ebbe diversi vescovi e questo non giovò alla stabilità. Il modernismo di cui venne accusato anche il famoso barnabita P. Giovanni Semeria, aveva creato frizioni tra i cattolici. L’ambiente non era tanto sereno e Don Orione anche per questo spostò i suoi chierici a Torino. Egli, che era troppo devoto alla Chiesa, non volle darle altri assilli ed aspettò tempi migliori.

Non dimentichiamo che nel frattempo si era avventurato in più attività. Era intervenuto a portare aiuto ai terremotati di Reggio CalabriaReggio Calabria, di Messina e della Marsica; fu nominato vicario generale della diocesi di Messina; manda i suoi primi missionari in Brasile; parte per il sud America e imbastisce tante altre iniziative. Non ha veramente sprecato il tempo. La copiosa corrispondenza che intrattiene con gli amici genovesi, in modo particolare Canepa, la famiglia Gambaro e mons. Malfatti rettore del santuario della Guardia sul monte Figogna, testimonia che ha Genova nel cuore. Il colpo di fulmine comunque era scoccato: assieme, Genova e Don Orione, di strada ne avrebbero fatta e tanta.
Amici di Don Orione (Genova), ottobre 2001.

 

19 MARZO 1924: NASCITA DEL PICCOLO COTTOLENGO GENOVESE

“Nel 1923 fui invitato ad una riunione nella sede dell’UNITALSI in Via S. Lorenzo... Don Orione cominciò a parlare. Subito ebbi il preciso senso che quell’uomo non parlava con la bocca, ma col cuore, coll’anima... Al termine del suo dire ero conquistato, e nel mio animo c’era il fermo proposito di aiutarlo con tutte le mie forze, convinto della grandezza e della bontà della sua opera... Aveva un vero fascino divino che attirava all’esercizio della carità. Lo capimmo tutti sin da quel momento, in quelle brevi parole egli disse, con tono che oggi possiamo dire profetico, che tutte le sue case sarebbero sorte come tante costellazioni sulle alture di Genova. (Agostino Ravano)

L’immobile del sig. Ferrarini fu trovato per Don Orione dall’ing. Gustavo Dufour. Era in via del Camoscio, poco più sopra del termine di Corso Sardegna. Roba da ridere se confrontata con i sogni del fondatore. Qualche camera e dieci letti. L’affitto di 13 mila lire annue fu pagato dal signor Giuseppe Gambaro, detto Pippo. Don Orione, munito di tutti i permessi del Vicario Capitolare, mons. Canessa, perché il vescovo mons. Signori era morto da poco, volle inaugurare la casa proprio il giorno di San Giuseppe, 19 marzo. Venne P. Salvo dei Minimi, parroco della chiesa vicina dedicata a S. Francesco da Paola. Sacerdote zelante che ha lasciato nel diario parrocchiale la cronaca della giornata e persino il nome dei due chierichetti: i fratelli Santolini. Uno dei due divenne primario al Galliera ed assessore alla sanità al comune di Genova. In quella casupola Don Orione sistemò una gabbietta con due canarini perché, sull’esempio di San Giuseppe Cottolengo, ci fosse sempre qualcuno a cantare le lodi del Signore.

Tutto qui? Sì, tutto qui. Molto bene D.M, nel bollettino del 60° di quell’apertura, marzo 1984, dice: “Quello che sorprende, appunto, è il tutto qui... Ma tutto questo cos’era in confronto di venticinque anni di preparazione? Che cos’era rispetto ad una città che aveva visto Don Orione scelto dal papa per chiarire equivoci che avevano creato non poco subbuglio, proprio a Genova, perfino tra uomini di chiesa? Evidentemente era stata una scelta di Don Orione quella di partire in tono minore, quando invece, se si fosse mosso, come gli era possibile, a trombe spiegate, avrebbe non solo trovato adesioni tra la gente, ma anche di autorità e di rappresentanze. E invece nulla. O meglio: Don Orione si accontentava di un umile e circoscritto consenso, che lo tutelava dai rischi micidiali della notorietà. In fondo, non era Dio l’unico destinatario delle sue offerte e delle sue fatiche?

La sua prima casa in Genova Don Orione l’affidò ad una santa suora, suor Maria Stanislaa. Leggiamo sempre dal nostro bollettino del gennaio 1974: “La vigilia dell’apertura della casa di via del Camoscio Don Orione scese in cucina del Convitto Paterno di Tortona a cercare la suora. Non si era ancora alzata perché non stava bene. Le compagne corsero ad avvertirla e lei, vincendo il malessere, si affrettò ad alzarsi. Cinque minuti dopo si presentò in direzione. Don Orione restò sorpreso. L’accolse con l’abituale sorriso e le disse: “Deve aprire a Genova una casa”. Gli rispose: “Sono ai suoi ordini “. “Deve aprirla domani che è S. Giuseppe”. “Andrò domani”.
“ No, no – disse lui – dovete partire questa mattina; anzi adesso, col primo treno”.
Quando entrò al numero 2 di via del Camoscio ebbe uno schianto al cuore e pianse: tutto ingombro e tutto da ripulire. Una miseria nera!
Quelle lacrime ottennero il miracolo perché, il giorno dopo, ogni cosa era in ordine per l’inaugurazione. A sera tardi, quando la folla, gli amici, i curiosi avevano lasciato la casa, rimase lei e la signora Gambaro che le chiese se per il domani aveva tanto da tirare avanti. Lo sguardo e la reticenza di suor Stanislaa furono più eloquenti che qualsiasi altra parola e la signora Giuseppina scucì cinquanta lire. Non erano state le prime, né saranno le ultime.
Veramente: “Il genovese è un popolo di carattere rude, forte come la roccia dei suoi monti, ma dal cuore d’oro, dal cuore grande, più grande del suo mare”.
Amici di Don Orione (Genova), ottobre 2001.

 

 

 

 

 

TOMMASO CANEPA: IDENTIKIT DELL’AMICO E DEL BENEFATTORE

Tommaso Canepa venne contagiato dall’entusiasmo di Don Orione che da poco aveva iniziato a frequentare l’ambiente genovese. Egli voleva che Don Orione facesse un’opera in una delle sue proprietà. Ma sorsero difficoltà tra le quali anche il disaccordo con alcuni familiari e Canepa potè coronare il suo sogno diversi anni dopo. Quello che ora ci interessa è il tipo di rapporto tra Don Orione e Canepa, perché ci fa capire chi egli intendesse per amico e benefattore. Essi dovevano essere persone che lo aiutassero a “diventare santo, ad essere più buono, a far sì che Dio gli tenesse sempre la mano sulla testa”. Le espressioni che egli usa nelle lettere a Canepa sono tutte di questo tono. Don Orione non cercava benefattori per tirare avanti le sue opere o, quanto meno, non era questo lo scopo principale. Il vero scopo era di offrire ad essi l’opportunità di fare del bene perché, come insegna Gesù, il giudizio di Dio è di approvazione verso coloro che soccorrono il fratello bisognoso. Don Orione poteva ritenersi a posto perché, sull’esempio di Cristo, stava spendendo tutta la sua vita per il prossimo e di più non poteva fare. Ma l’amore per il Cristo lo porta a coinvolgere il maggior numero possibile di anime, per andare all’incontro del Signore e sentirsi dire: “Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete il regno preparato per voi”. Il chiedere aiuto per i suoi poveri era dunque un modo per portare persone al Cristo.

Questo è il senso delle lettere che don Orione spedisce a Canepa. Scrive da Messina l’8 febbraio 1911. Caro mio Canepa voi dovreste venire con me, come mia persona di fiducia, vicino a me perché io sento il bisogno che preghi con me e mi consigli nel Signore, e vivere di amore di Gesù Cristo e della SS. ma Vergine. Vorrei che questi fosse vecchio, che mi facesse da padre e da stimolo ad amare il Signore Gesù Crocifisso, caro Canepa, e così potreste fare del bene all’anima mia e io vi terrei come un padre, e, se vi ammalaste le vostre figlie potrebbero essere tranquille perché vi assisterei io. Forse la vostra vita sarà una vita raminga, ma pazienza, sia come piace al Signore e poi in paradiso riposeremo.

Guardate che non è che qui o altrove ci siano delle gioie come il mondo crede perché io sono Vicario (era il periodo in cui Don Orione, a seguito del terremoto siculo, era stato inviato da S. Pio X come Vicario della diocesi di Messina). A tutte le ragioni che voi mi potreste portare per non muovervi da Genova io mi limito a rispondervi: dove soffrireste di più per amore di G. Cristo? A Genova o con D. Orione? Certo con Don Orione: dunque è meglio questa strada.

Il 21.11.1918 scrive: Caro signor Canepa, mio fratello in G. Cristo. Sono venuto per abbracciarvi come figlio della Divina Provvidenza anche voi. Vi chiedo la carità che mi diate questa casa degli Angeli per farne una casa di orazione, di vita di sacrificio, e di lavoro santificato (la sottolineatura è sua). Il 20.12.1918. Caro signor Canepa. Prima cosa domani è san Tommaso e io pregherò in modo particolare per voi, che il Signore vi conceda di vedere la casa degli Angeli abitata da angeli di amor di Dio e di carità del prossimo.

La casa di Canepa in salita degli Angeli divenne rifugio di tanti orfanelli. Per accoglierli tutti Tommaso si era ristretto in un bugigattolo e si trasformò in trovarobe. La figlia Concetta e il genero Vincenzo Garibaldi entrarono anche loro nell’orbita di carità di Don Orione. Rimasta vedova, Concetta si spese tutta per gli orfanelli con tanta amabilità che presero a chiamarla zia.

Alla notizia dell’aggravamento del Canepa Don Orione si precipitò col treno a Genova e, giunto alla stazione estrasse l’orologio e disse a chi lo accompagnava: “In questo momento sta morendo il caro nostro fratello Tommaso”. Ma merita notare la finezza di Don Orione che, intuendo prossima la fine dell’amico, come racconta la Concetta, andò col conte Ravano a festeggiare il capodanno del 1930 da Canepa. Fu un pranzo insolitamente giocondo, pieno di risate e di battute allegre, delle quali Don Orione era l’anima. Canepa notò la cosa con personale soddisfazione, per la gioia, la serenità, la sana e santa letizia, che s’erano trasfuse nel suo animo. Don Orione aveva anticipato il conforto e la presenza, evitando la carica emotiva che sarebbe esplosa immancabilmente nel momento della morte avvenuta tre giorni dopo, il 4 gennaio 1930.
Don Orione gli aveva scritto in precedenza: “Presto staremo insieme e poi andremo in paradiso, e staremo sempre col Signore e con la Madonna SS. ma”.

Amici di Don Orione (Genova), ottobre 2001

 

 

 

 

 

IL PAMMATONE - VIA BARTOLOMEO BOSCO

Don Orione il 9 novembre 1925 affittò dal Comune di Genova il Conservatorio di San Girolamo, posto ameno per raccogliere i suoi prediletti. Dopo tre anni il Comune non gli rinnovò più l’affitto perché doveva sistemarvi le ammalate dell’ospedale Pammatone, ormai fatiscente e inadatto. In cambio il Comune gli concesse gratuitamente in uso proprio il Pammatone dopo averglielo sommariamente ripulito. Al Pammatone, adiacente all’odierno palazzo di Giustizia, era soltanto un ricordo la brezza marina del Conservatorio di San Girolamo presso lo scoglio di Quarto. Quella zona depressa di Portoria aveva però un tesoro inestimabile che soltanto chi è sintonizzato su certe lunghezze d’onda può capire: il richiamo della santità cresciuta tra i poveri.

Ogni paese ha la sua storia, modesta fin che si vuole, ma dignitosa e feconda. Nel periodo rinascimentale, a Genova un giureconsulto di parte ghibellina si stufò di tutti i maneggi delle corti e dei palazzi italiani ed europei e fonda un ospedale: il Pammatone.

Lutero stesso elogia gli ospedali, istituzioni per il momento prettamente italiane. Dice in un suo scritto che il malato, quando entra, depone i suoi vestiti che vengono registrati da pubblico notaio, vengono messi da parte con cura. Rivestito di veste bianca è deposto in un letto ben preparato e delle gentildonne velate vengono a custodire i malati. Per il governo dell’ospedale sono eletti quattro cittadini, detti Protettori. La Repubblica genovese in seguito unifica tutti gli ospedali esistenti in quello di Pammatone.

Nel 1478 entrò in quell’ospedale Caterina Fieschi Adorno e nel 1489 venne eletta Rettora, ossia responsabile di tutto. La santa vi morì nel 1510. Genova, come tante altre città, è il palcoscenico delle rivalità delle famiglie emergenti: Doria, Fieschi, Adorno, Fregoso, Campofregoso, Assereto, Di Negro, con tutti gli intrecci possibili e immaginabili.

I Fieschi sul frontone del loro palazzo di Lavagna incidono: “Stet domus haec donec biberit formica marinam”. Che modesti! Questa casa starà in piedi finché una formica non avrà bevuto tutto il mare. Ma Caterina, da quando ha incontrato lungo le scale del suo palazzo il Cristo sanguinante, sotto il peso della croce, aveva cercato ben altra grandezza. Attorno a sé riunì un bel gruppo di laici, fra i quali Ettore Vernazza, notaio cittadino, resosi famoso per l’istituzione di lazzaretti nelle più importanti città come Roma e Napoli.

La storia non è fatta soltanto di conquiste, ma anche degli orrori che tutte le guerre e liti inevitabilmente si portano dietro: vedove, orfani, mutilati condannati a vivere e a morire, torture, schiavi. Mari e oceani di sofferenze. Regali abituali delle guerre erano la peste, il colera, il vaiolo e le malattie per contagio.

Una moltitudine immensa di gente faceva da comparsa agli eroi della nostra carta stampata, dei monumenti che appestano le nostre città. Ettore Vernazza ha pensato ai fratelli incurabili. Vernazza si educò alla scuola di Santa Caterina Fieschi proprio lì, al Pammatone. Non per nulla il nome Pammatone dal greco Pan makion significa Palestra di lotta. Una lotta per il bene, una lotta contro la sofferenza. Se allora ci fosse stata la mentalità di oggi, la famiglia Vernazza già da tempo sarebbe venerata tra i santi. Alla figlia suora, Battistina, che lo consigliava di non esporsi tanto, dirà: “Proprio tu che sei suora mi debbi dire certe cose? Sarei ben felice se io morissi per li poveri!”. Infatti morì di peste contratta assistendo ammalati, nel 1524.
Ma dove pensate sarebbe andato a finire Don Orione venendo a Genova? Sissignori, proprio là dove la Madre dei poveri, come Don Orione chiama Caterina Fieschi Adorno, aveva consumato la sua vita: al Pammatone di Portoria.
Sembrava un ripiego, un certo qual tentativo per riparare lo sfratto da San Girolamo ed invece era il tocco magistrale di una regia dall’inventiva senza pari, una regia che chiamiamo Provvidenza.
Pammatone: crocevia di santi dell’umanità dolorante ed abbandonata.
Dal Pammatone la costellazione Orione, dopo breve preludio, comincerà a brillare a Genova.
Amici di Don Orione (Genova), gennaio 2002.

 

 

 

 

 

ANTONIO BOGGIANO PICO: UNO DI FAMIGLIA

Prima ancora di continuare la galleria dei nostri benefattori ed amici è bene parlare subito del senatore Boggiano Pico. Don Orione era la testa, la mente; i suoi religiosi il motore; i benefattori il carburante; Boggiano Pico l’assemblatore. Il fondatore ricorreva a lui per dare alle sue opere il diritto di esistere, la coscienza civica, la consapevolezza giuridica.

Il 20 settembre 1860 il governo italiano ordinava al generale Raffaele Cadorna di occupare la Roma pontificia. Ebbe così inizio quella che viene definita “Questione romana”. I fautori dell’unità d’Italia non avevano tempo da perdere per negoziare e trovare, sia pur a fatica, una via onorevole per le parti in causa. Con un simile interlocutore, il Papa, e con lui i cattolici italiani, non ebbero spazio. Non glielo avrebbero concesso perché la soppressione dello Stato pontificio non era il vero scopo, ma la scristianizzazione della società e, come primo passo, la cancellazione del cattolicesimo e l’imbavagliamento del papato.

Basta dare un’occhiata a chi tirava i fili dell’economia e della politica in Europa. I cattolici erano contrari a quella unità d’Italia che s’identificava nella concezione laica e liberale e, per molti versi, anticlericale dello Stato. Fu allora che i movimenti cattolici si organizzarono e diedero vita all’Opera dei Congressi, palestra di tante belle figure di laici e sacerdoti impegnati nel sociale. Non dimentichiamo che il capo del governo, on. Antonio Starabba, marchese di Rudinì, nelle circolari che a pioggia inviava ai prefetti, definiva i cattolici “nemici della patria” e permetteva che a Milano il gen. Bava Beccaris rispondesse con cariche di cavalleria e con le cannonate agli operai che protestavano per il rincaro del pane.
L’Opera dei congressi finì la sua esperienza con la creazione dell’Unione popolare.

L’on. Antonio Boggiano Pico, nato a Savona il 31 agosto 1873, si impegnò appassionatamente fianco a fianco di Giuseppe Toniolo, una delle figure di maggior spicco. È materialmente impossibile seguire l’attività di Boggiano Pico, ma dovette essere veramente fervida oltre la norma se la mamma, Virginia Corsi, si sentì in dovere di scrivergli: “Il tuo scopo non è e non deve essere che quello di fare del bene, ma il troppo zelo fa danno a te e alla causa che vuoi servire. Tu sei giovane e pieno di intraprendenza e ti lasci trascinare dal tuo entusiasmo...”.

Antonio Boggiano viene da un ceppo saldo che il padre Nicolò ha temprato durante una vita quasi centenaria trascorsa la maggior parte sui mari, sostenuto da una pietà robusta. Ultranovantenne si sveglia di soprassalto ed esclama: “C’è uno in casa che sta male: datemi il rosario”. E difatti si stava spegnendo a ventun anni Virginia, la sua diletta nipote, figlia del nostro Antonio. La madre, anch’essa Virginia, apparteneva alla famiglia Corsi che godeva di notevole prestigio nella società sabauda e che nei meandri genealogici si rifaceva addirittura a quel mostro di memoria che fu Pico della Mirandola. Per questo particolare, il nostro Boggiano Antonio, con tanto di decreto luogotenenziale, ottenne di aggiungere al cognome Boggiano quello di Pico. Amabile civetteria o rigore storico?

Il lettore si è già accorto che il dilungarmi su aspetti importanti sì, ma non funzionali ai fini del ritratto storico che ne vorrei fare, sia pur in povera misura, è una gherminella per sottrarmi alla improba fatica di percorrere scrupolosamente le tappe della multiforme attività di Boggiano Pico.
Diciottenne va a Roma per gli studi in legge, avendo come condiscepolo il futuro Pio XII; a ventun anni è laureato. Durante gli studi è l’anima di movimenti giovanili, di pubblicazioni, vere palestre per un futuro che si presenta molto animato. Passa poi a Pisa alla scuola del Toniolo; a Genova, poi, via via, per varie cattedre universitarie che mai però gli affievoliscono l’impegno cristiano sociale, anzi lo rendono più agguerrito ed entusiasta. Ricordo il suo determinante apporto alle “Settimane sociali”.

Dopo il riassetto dell’Opera dei Congressi e della Azione cattolica, nascono le Settimane sociali che erano incontri su un’idea centrale sociale, che dominava l’assemblea e terminavano con indicazioni, indirizzi, impegni.

Le Settimane sociali furono una vera ed autentica fucina di politici convinti e preparati, che intendevano la politica come una missione, un servizio da rendere con spirito cristiano. Boggiano Pico non si tirò mai indietro, dove c’era lui c’era il fervore, la voglia di impegnarsi. Fu tra i fondatori del Partito voluto dai cattolici per una presenza più qualificante nella vita politica e come parlamentare propugnò leggi di grande spessore sociale.

Nei banchi della Camera trovò Stefano Cavazzoni, altra figura di cattolico impegnato, di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo della morte, anche lui grande amico di Don Orione. Ci fu poi il periodo di impotenza del governo che, in pratica, diede via libera al fascismo. A chi voleva imbarcarlo nella avventura, instaurata in modo brutale, egli rispose: “Ben si ricordi che, come non mai non valsero, così mai non varranno né lusinghe di uffici e di onori, né il timore di perderli, a farmi deviare nella mia condotta da quell’indirizzo che risponde ai miei sacri sentimenti di Fede”.

E ritornò al suo studio di avvocato in Via S. Lorenzo a Genova. L’avv. Rapallo, che sarà suo collaboratore, confessa che di pratiche legali ce n’erano pochine, di poco conto e di persone che volevano farsi patrocinare gratuitamente. Ma questa situazione non durò molto perché la versatilità in diverse specialità lo porta ai vertici dell’ambiente forense ed ebbe una discreta parte nella preparazione ai patti lateranensi che tendevano ad appianare il dissidio fra chiesa e stato. Sposò la baronessa Carmen De Wedel Jarlsberg e da lei ebbe Virginia, Guglielmina, Fabrizio, Franca Lisa, Mercedes, Valdemaro, Gian Galeazzo.
Ma... e Don Orione cosa c’entra?
In corso Magenta a Genova, su una casa c’è una lapide che ricorda la morte di Antonio Boggiano Pico. Tra le foto conservate c’è anche quella della sua salma solenne e serena e vicino un comò con un’immagine della Madonna e di Don Orione. Tanto basta per affidare alla memoria dei suoi religiosi la figura di Boggiano Pico.

Il Fondatore, il 19 dicembre 1937, è nell’aula magna dell’Università Cattolica di Milano dove gli amici presentano alla città la sua opera per incoraggiare la costruzione del Piccolo Cottolengo. Il sen. Cavazzoni si lascia un po’ andare negli elogi per far colpo sull’uditorio e suscitare simpatie per l’iniziativa. Don Orione ad un certo punto non ne può più e sbotta: “Non gli credete! Tutto quello che il senatore ha detto è una bugia, io non ho fatto niente; è la Provvidenza che ha fatto tutto: io e i miei siamo degli stracci, un sacco di stracci, capite!”. E le sue mani tremanti malmenavano convulsamente la povera talare sul petto ansante; e gli occhi accesi erravano sull’assemblea sorpresa e commossa ad implorare clemenza.

Altre volte Don Orione parla della sua opera definendola un pasticcio. Pasticci combinati da lui, pasticci che ancora combiniamo noi, superando di gran lunga il maestro. Ma chi lo toglieva dai pasticci, dai fastidi, dalle grane di ogni genere? I Boggiano Pico che la Provvidenza ha sempre messo sui passi suoi e di quelli dei suoi figli.

A questo punto dovrei interrogare i muri dello studio dell’onorevole in via San Lorenzo per sapere le volte in cui Don Orione salì le scale per confidargli i suoi crucci, per avere lumi per la sua opera. Boggiano Pico non si tirò indietro e Don Orione gli fu gratissimo per tutta la vita. Gli si propose di essere ambasciatore a Bruxelles ma rifiutò perché aveva l’impressione che l’Opera di Don Orione avesse ancora bisogno di lui.

L’arcivescovo di Genova, card. Minoretti, mal consigliato dai soliti, è li lì per sospendere “a divinis” Don Orione perché inguaiato per troppa generosità nelle sue opere di bene. Boggiano Pico, interpellato dal prelato quale collaboratore di Don Orione, ascolta attentamente i capi di accusa e poi si limita ad osservare: “Eminenza, lei senza dubbio ha un motivo canonico per prendere un provvedimento così grave. Si ricordi, peraltro, sua Eminenza, il giudizio che la storia ha dato all’Arcivescovo di Torino che ha sospeso “a divinis” Don Bosco”. Tanto bastò per far cambiare idea al Cardinale.
Fu suo l’intervento fatto presso il suo antico condiscepolo Eugenio Pacelli, Pio XII, in difesa del Piccolo Cottolengo. Il Papa si fece consegnare il decreto che diffidava di utilizzare la denominazione “Cottolengo” alle opere di carità e la questione prese altra piega.
Più di queste righe maldestre, la lettera della figlia Guglielmina sintetizza i rapporti fra i due. È del 15 ottobre 1965.

“Il Babbo è uscito di casa e, per la prima volta, per un viaggio da cui non tornerà mai più. La ringrazio della sua ultima visita, e lei ben la ricorda, quando il Babbo le disse che si sentiva della famiglia di Don Orione. Ieri in S. Lorenzo ho pensato ad un’altra data, quando in quello stesso posto dove avevano collocato Don Orione, l’Amico suo ha riposato per il funerale. Proprio lì, in S. Lorenzo, dove il Babbo nella sua lunga carriera, aveva sostato in preghiera migliaia e migliaia di volte. Lì vicino infatti era il suo studio dove Don Orione veniva a trovarlo, e mentre i due amici si comunicavano le ansie da una parte, i consigli dall’altra, veniva delineandosi e formandosi quell’Opera grandiosa che è oggi il Piccolo Cottolengo di Don Orione. Un grazie a Don Orione certo che ha gettato quel piccolo seme e ha trovato un cuore e una mente pronti a riceverlo. Un grazie a Dio per tutto il bene che l’Opera ha offerto occasione di fare al Babbo. E, per questo bene fatto, di lassù ne farà dell’altro”.
Amici di Don Orione (Genova), gennaio 2002.

 

 

 

 

 

IL CONSERVATORIO SAN GIROLAMO DI QUARTO

Via del Camoscio era un fabbricato di buone proporzioni ma oltre ai poveri di Don Orione vi erano altri quattordici appartamenti. Don Orione scriveva a Don Sterpi il 9 novembre 1925, giorno della firma del contratto d’affitto del Conservatorio di Quarto: ”l’acquisto della Casa di Genova subisce ritardi perché il proprietario non vuole impegnarsi a darla libera da quattordici inquilini neanche fra due anni“. Il fondatore aveva chiesto alle suore di accontentarsi per loro di meno spazio ma, nonostante tutta la buona volontà, ormai la casa, oltre gli inevitabili problemi di sopportazione reciproca col vicinato, non reggeva più.

Chi narra è una testimone, anch’essa suora. Sarà un caso o un tocco provvidenziale che la sinfonia orionina genovese ha come orchestrali le Piccole Suore Missionarie della Carità? Scrive dunque suor Rosaria: “Fui una delle privilegiate scelta fra le prime. La superiora era suor M. Vittoria. La casa era molto ampia, ariosa e bella con le corsie piene di luce e porticati meravigliosi, capace di ospitare alcune centinaia di persone. Là c’era posto per tutti: uomini, donne, bambini e bambine, normali e subnormali (vi furono temporaneamente anche le sacramentine cieche).
In pochi mesi la casa fu piena. Le bocche da sfamare erano tante e i mezzi finanziari venivano a mancare. La Superiora preoccupata ne parlava con Don Orione e la risposta era sempre la solita: “Non temete; pregate e abbiate fede”. Ma intanto i debiti aumentavano. Suor M. Vittoria che, poveretta, non era abituata a queste cose perché a casa sua aveva non solo il necessario ma anche il superfluo, era assai allarmata e cominciava a dubitare di Don Orione e questa sua sfiducia si riversava anche su tutte noi.

Arrivò Don Orione e suor M. Vittoria lo investì dicendogli che non era il modo di accumulare tanta gente senza prima pensare a come mantenerla; che la fede non era sufficiente e che era stanca di fare certe figure con i fornitori; che se non provvedeva, ella se ne sarebbe andata, piantandolo lì con i suoi poveri. Don Orione l’ascoltò in silenzio, col capo chino e con grande umiltà.

Povero Padre, aveva l’aria tanto triste! La sua risposta a tutti quei rimbrotti fu la solita: “Non vogliate temere della Provvidenza, preghiamo e preghiamo tanto e abbiate fede”. Passò poi la notte a pregare in chiesa e il mattino dopo, celebrata la messa, ripartì.

In quello stesso giorno ero di turno in portineria. Suona il campanello, apro, entra un signore un po’ strano, tutto soprappensiero. Senza dir nulla, si inoltra lungo il vasto porticato, guarda a destra e a sinistra, poi torna indietro e mi dice: “Ma voi che suore siete? Chi avete in questa casa?”. Mi disse che doveva portare un’offerta ad un istituto (mi fece anche il nome che ora non ricordo più), ma arrivato davanti alla nostra casa, un forza misteriosa gli impedì di proseguire il cammino e dovette arrestarsi. Mentre stupefatto non sapeva rendersi conto di ciò che gli stava succedendo, alzò gli occhi verso la porta e vide la scritta che indicava la nostra opera. Cominciò a leggere e mentre leggeva una forte ispirazione gli diceva: entra e lascia lì la tua offerta.

Era assai commosso ed io più di lui. Proseguì a parlare perché voleva conoscere meglio la nostra opera. Ad un certo punto tirò fuori una busta e fece l’atto di consegnarmela. Gli dissi di attendere che sarei andata a chiamare la superiora. Con il cuore che mi batteva forte forte perché non potevo contenermi dalla gioia, la pregai di venire subito in portineria perché un visitatore la voleva. Mi rispose: “Ma va... sarà un altro fornitore che viene a chiedere di essere pagato”.

Ci volle un po’ per convincerla ma alla fine venne in portineria e la presentai a quello strano visitatore ed uscii. Quando quegli se ne andò e la superiora aperse la busta si mise a piangere dalla commozione ed io con lei perché nella busta c’era una forte somma, sufficiente non solo a saldare i debiti ma anche un sopravanzo. La superiora rese poi noto a tutte le suore il grande miracolo compiuto dalla Provvidenza e chiese scusa del poco buon esempio che ci aveva dato.
Da quel momento svanirono tutti i dubbi su Don Orione, aumentò la stima e l’amore per lui e nei nostri animi ritornò la letizia e la serenità.

Dove si trovava la casa di Via del Camoscio?
Arrivando in Corso De Stefanis, all’altezza dello stadio sulla destra si diparte Via Bertuccioni e poco dopo ci si trova quasi di fronte alla chiesa di Santa Margherita. Da lì s’inerpica Via del Camoscio. Dopo una cinquantina di metri si passa sopra un viadotto e lì, sulla sinistra, sorgeva quel casone evidenziato nella foto del numero precedente con un cerchietto.

Tutta quella zona è scomparsa perché la collina è stata sbancata e sono sorti nuovi insediamenti. Per mettere in comunicazione il Viale Centurione Bracelli e Piazza Guicciardini, Via del Camoscio è stata sezionata e poi ricongiunta con il viadotto di cui sopra. Dall’archivio abbiamo dissepolto ancora una simpatica foto di quel che c’era ed ora non c’è più.
La casa di Via del Camoscio veniva chiusa l’11 dicembre 1933, con una santa Messa alla quale Don Orione invitava gli amici. Gli ospiti furono sistemati al Paverano.

Non possiamo chiudere il discorso sugli inizi del Piccolo Cottolengo genovese senza ricordare che il 1° novembre 1933, nove giorni dopo essere stata accolta tra le suore in Tortona, veniva mandata in via del Camoscio certa Lucia Cavallo, una giovane che scriveva fra i suoi appunti: “Farmi santa a costo di qualunque sacrificio: costi quel che costi”. Vi rimarrà neanche un mese perché spostata al Paverano.
Ritornata a Tortona per il noviziato, rientrerà a Genova nel 1936 col nome di suor Maria Plautilla. Oggi è Serva di Dio e si è in attesa di proclamarla santa.
Amici di Don Orione (Genova), novembre - dicembre 2001.

 

 

 

 

 

DON ORIONE CAPPELLANO DI MENSA DI CASA GAMBARO

La famiglia Gambaro merita un monumento in qualche istituto orionino in Genova. Essi si possono definire com/pagni di Don Orione nel senso etimologico del termine: persone che si dividono il pane fra loro in amicizia, naturalezza, familiarità e bonarietà. Egli arrivava a volte ad aggiungere alla sua firma: “Don Orione, cappellano di mensa di casa Gambaro”. Un fatto gustosissimo viene bene perché unisce assieme le figure dei Gambaro di Don Orione e di Don Vincenzo Minetti, apostolo genovese della gioventù. Lo racconta con verve lo stesso Don Orione ai suoi studenti. Don Minetti, lo diremo in seguito, per erigere un santuario alla Madonna della Guardia a Monte del Gallo presso il Vaticano, si era indebitato fino al collo e ricorse al suo amico Don Orione che già altre volte lo aveva aiutato. Racconta egli:
– Qui non ci sono soldi, gli dico. Io non conosco Genova, lei sì; andiamo insieme a cercarli.
Al pomeriggio non avevamo un becco d’un quattrino e alle quattro scadevano le cambiali. Alla domenica non potevano protestarle, ma il lunedì dopo sì. Dico a Don Minetti:
– Io sono stanco; vado a mangiare un boccone.
Vado dai Gambaro e mi viene incontro un giovane della famiglia che mi tempesta di domande.
Figlio mio – dico – non ho tempo per risponderti perché mi scadono delle cambiali per la somma di 70 mila lire.
– Poh! – dice lui – io ci fumo sopra una sigaretta.
Così dicendo ci fumò sopra una sigaretta. Mangio in fretta perché volevo andare a far su un po’ di soldi per Don Minetti.
– No, dice la signora, lei deve rimanere perché tra poco arriva un medico a visitarla.
Io alzo gli occhi e vedo l’immagine di san Giuseppe adorna di fiori (la signora si chiamava Giuseppina), e dico fra me:
– Tu hai il profumo dei fiori ed io quello dei debiti...
– Senta, continua lei, di quanto ha bisogno?
– Ho bisogno di 70 mila lire per Don Minetti.
– È tutta lì la somma?
– No, andiamo oltre le 400 mila.
– Ebbene, prosegue lei, qui ci sono le 70 mila più altre 300mila lire e passa.
Mi rivolgo ancora a S. Giuseppe e gli dico:
– Caro S. Giuseppe, come sei diventato bello!
Poi chiamo Don Minetti per telefono e gli dico:
– Senta diciamo tre Ave Maria per telefono. Le dice lei o le dico io? Ho i soldi per pagare tutte le sue cambiali e per stavolta lasci perdere il Miserere e canti il Te Deum.
Don Minetti era solito ringraziare Dio col Te Deum quando non gli davano niente perché così aveva occasione di mortificarsi; e invece quando riceveva delle buone offerte, per non montare in superbia, diceva il “miserere”.
Questi erano i Gambaro! Pochi svolazzi, ma cose concrete

Fu suor Rosa Giuliani della congregazione delle Brignoline, ad indirizzare Don Orione ai Gambaro. Scrive Maria Gambaro che la loro casa di via Solferino 2, divenne la Betania del sacerdote. In quel momento storico le congregazioni religiose non erano riconosciute dallo Stato e quindi non potevano possedere nulla. Per ovviare a questo inconveniente il senatore Boggiano Pico, avvocato di vaglia, aveva consigliato Don Orione a costituire delle società civili. Tra i componenti del consiglio di amministrazione di quella che era a Genova, il secondo della lista, dopo il presidente, è sempre Giuseppe Gambaro, figlio di Edoardo. Questo significa la grande fiducia che egli riscuoteva.

Edoardo Gambaro aveva in moglie la marchesa Giuseppina De Ferrari. Ebbe due figli Maria e Giuseppe, detto Pippo. Maria rimase nubile con una forte vocazione alla vita religiosa. Pippo sposò a sua volta Gina il cui cognome non sono riuscito a trovare nelle carte in mio possesso.
I loro figli furono: Edoardo, Federico, Franco, Mario, Giovanna. Con tutti i componenti della famiglia Don Orione intreccia commoventi vincoli di amicizia. Abbiamo una serie di lettere rivolte a tutti, ma in modo particolare a Pippo e al figlio Federico, che chiama familiarmente Fede.

Li portò ancora piccoli bambini a Roma dal Papa e, facendo il resoconto al padre di quella giornata memorabile, si dilunga nel descrivere i volti sereni dei fanciulli che, stanchi morti, stanno riposando tranquilli sotto il suo occhio vigile. Federico deve aver dato preoccupazioni ai genitori per l’instabilità del carattere e per gli studi che portava avanti di malavoglia.

Don Orione se lo porta nel suo istituto di Novi Ligure, ordinando al direttore di seguirlo perché non perdesse l’anno scolastico. Fallito questo tentativo, lo vuole mandare nell’altro istituto che ha aperto a Rodi pensando che fosse più facile fargli ottenere quel benedetto diploma.
Nelle lettere sono disseminati principi pedagogici, sentimenti paterni e fraterni. Don Orione ripeterà sempre: non vi dimenticherò mai, non passa giorno che non preghi per voi.

Dall’America scriveva più ai Gambaro che a tutti i suoi religiosi messi insieme. “La sua famiglia è quella che ho raccomandato di più!”. “Caro Fede: prego per i tuoi esami. Sta buono!” Poi, ancora dall’America, scrive a Franco: “Caro Franco prendo carta, penna e calamaio come l’oste della luna piena del Manzoni. Sto abbastanza bene se non fosse per il mal di cuore. Ma non mi toglie il buonumore. Evvia, siamo giovanotti di 62 anni... Se hai lavoro e sei di buonumore fuma una sigaretta alla mia salute, perché io prego e perché la tua officina abbia lavoro e tu sia sempre di lieto animo. Ed ora non una predica, no, ma una parola in confidenza grande e in un orecchio, a te solo, eccola: Tu gusteresti la pace del Natale se andrai a farti una buona confessione e a ricevere Gesù, caro Franco: va dunque! Ho finito, la parolina buona è detta: niente predica. Sono stato o no discreto?”. Alla morte della signora Giuseppina Don Orione confidò di averla pianta come la sua mamma.

Pur riuscendo molto difficile, si potrebbe tentare di elencare i gesti di generosità che i Gambaro tutti hanno avuto per Don Orione, cominciando dalle 13 mila lire che essi pagarono come affitto del primo anno della casa che Don Orione aprì a Genova in via del Camoscio, ma non saremmo sulla pista giusta per capire il tipo di rapporto Don Orione e i benefattori.

Essi diventano parte di sé, della sua vita, di quanto ha di più caro. Il 14 agosto 1927, vigilia dell’Assunta, scriveva a Pippo Gambaro e signora: “Grande conforto per noi, caro indimenticabile mio benefattore ed amico in Cristo, l’averci nostro Signore lasciati figli di tanta Madre, di quella benedetta, che a Lui fu Madre... Ah, mio caro signor Gambaro! Beati quei genitori che offrono i loro figli nelle mani della Madre del Signore e nostra! Ella, mio ottimo signor Gambaro, e la sua distinta Signora, abbiano viva fede nella santa Madonna: la Madonna vi farà aspettare, si farà pregare, vi farà bussare e picchiare al suo cuore, ma poi è la Mamma, è la Mamma che Gesù ci ha dato e non vi negherà nulla per i vostri cari figlioli. Coraggio in Domino, e umile preghiera e fiducia grande nella Santa Madonna! I miei poveri pregano per lei, per la sua Signora, per i figli che Dio vi ha dato. Non temete: riusciranno bene. Ho pregato per voi: fate quanto vi scrivo dai piedi della santissima Vergine e i vostri figlioli riusciranno molto bene. Avrete delle pene e grandi ma l’ultima a vincere sarà la Madonna. Deh! Preghi per me, che io sia divoto sincero della Madonna. Preghino dunque, lei e la sua Signora, che io, miserabile peccatore, cerchi in ogni cosa Dio. Metto lei, caro mio amico e benefattore, e la sua buona Signora e i loro cari figlioli nelle mani della Santa Madonna e mi vogliano perdonare questa troppa confidenza e libertà in Domino. Vi scrivo da povero ciabattino, ma dai piedi della Madonna: chiudete gli occhi sui miei stracci: fate un atto di fede nella Divina Provvidenza, e Amen”.
Amici di Don Orione (Genova), novembre 2001.

 

 

 

 

 

LA FANTASIA DEL BENE

Don Orione comincia la sua avventura genovese e riesce a far emergere l’insospettabile capacità di bene in chi lo incontra. Raccontiamo tre storie.


IL LABORATORIO MATER DIVINAE PROVVIDENTIAE

La contessina Eugenia Bianchi di Lavagna con le sue amiche Clotilde Arbocò, Clelia Machiavello Mazza ed altre ancora, impiantarono subito una specie di cintura di salvataggio, sollevando le suore da disparati impegni e con l’approvazione di Don Orione chiamarono la loro attività: “Laboratorio Mater Divinae Provvidentiae”.

Facevano di tutto: guardaroba, animatrici, commissioniere, parrucchiere, sorelle e madri. In altre parole hanno tradotto in pratica quello che diceva S. Paolo: “Mi sono fatto tutto a tutti”. Era sufficiente scoprire con gli occhi della carità qualche bisogno perché queste benefiche persone si mettessero subito all’opera.

Tutte le case di Don Orione in Genova hanno avuto la presenza materna di queste signore. Anche oggi occorrerebbe una aggiunta di fantasia a quanti vorrebbero frequentare il Cottolengo ma non sempre se la sentono di aggirarsi per i reparti. C’è il riassetto della biancheria, c’è la corrispondenza e il rapporto con i benefattori, c’è il trovarsi insieme per scaldarsi di entusiasmo, c’è... Ma se si dice tutto dove va la fantasia?


LA CONTESSINA EUGENIA BIANCHI DI LAVAGNA

Eugenia Isetti, invece bazzica negli alloggi comunali, anni trenta, alla Volpara, a Borzoli, in via Moresco. Erano le zone “in” di Genova perché popolate da famiglie ricche di figli e di miseria. Non sembrava sufficiente alla signora Isetti provvedere un pasto giornaliero alla masnada di frugoletti che vorticava in quei rifugi e perciò, dopo uno degli storici incontri di via Bosco, si rivolse a Don Orione per l’altro grande problema, quello della scuola, che essi non potevano frequentare perché provvisti soltanto di vestiti al limite della decenza.
Allora vennero allestite delle camere dove i bambini si mettevano vestiti buoni per presentarsi a scuola; finite le lezioni riprendevano i loro straccetti per ritrovare i buoni il mattino dopo. Assieme al vestito c’era poi la merenda, il sussidio: una vera provvidenza. Per attuare questa iniziativa, vennero interessati diversi benefattori, fra i quali Achille Malcovati, già menzionato di recente su questo bollettino.
Il 3 marzo 1940, pochi giorni prima di morire Don Orione mandava una immaginetta alla signora con scritto: “Alla distinta e brava Comandante, signora Isetti, ed a tutta la sua famiglia con ogni benedizione. Don Orione”.


GIUSEPPA MARIA ARA

I nostri vecchi sfidavano l’ironia, ma avevano idee chiare sul nome da dare ai figli. Della signora Ara già ne parlammo più volte perché è una figura singolarissima. Essa aveva alcunché di solenne e di austero col suo sottanone e fazzolettone neri che l’avvolgevano tutta. Per più di trenta anni è rimasta all’entrata di Staglieno, come una statua dimenticata fuori dal recinto. Il patriarca Giacobbe, come tutti i suoi avi, riteneva i figli una benedizione. Ad uno di essi che veniva a moltiplicargli le bocche da sfamare, diede il nome Giuseppe: Dio aggiunge.
Se da una parte quel nome poteva andare bene alla signora Ara, dall’altra non era azzeccato perché le offerte che lei implorava ai visitatori di Staglieno non era un’aggiunta, un sovrappiù, ma spesso il necessario per i poveri di Don Orione.
E, con la richiesta dell’obolo, c’era la buona parola, la preghiera, l’immaginetta, il conforto della partecipazione al lutto. Ora una figura del genere scandalizzerebbe i più, quasi che chiedere un aiuto per gli altri fosse una vergogna nazionale.

Ho letto da qualche parte, e chiedo scusa non poterlo riportare alla lettera, che tutte le volte che la chiesa si affanna a voler stare dietro ai tempi, perde il treno e tutte le coincidenze; tutte le volte che rimane se stessa diventa punto di riferimento.
Non dico di rimettere ai cancelli dei cimiteri delle préfiche, neppure di intruppare file di orfanelle che non ci sono più dietro agli odierni illacrimati funerali per muovere a pietà. Dico soltanto che ci è venuta meno la fantasia del bene ed abbiamo dato in gestione quella certa fiamma al consiglio di amministrazione con tanto di collegio dei revisori dei conti. Per forza poi questi non tornano.

Amici di Don Orione (Genova), dicembre 2001.

 

 

 

 

 

VIA BARTOLOMEO BOSCO

A. LA CAMERETTA DI DON ORIONE
C on lettera del 13 novembre 1925, protocollo 1399 il presidente F. S. Mosso, dopo l'approvazione dell’amministrazione degli Ospedali civili di Genova, concedeva in affitto per tre anni il conservatorio S. Girolamo di Quarto. Il 25 maggio 1928, con raccomandata AR, il medesimo Presidente dava disdetta dell'affitto, pregando Don Orione di lasciare libero l'immobile per il 30 novembre dello stesso anno. Si chiudeva così una bella ma breve parentesi e se ne apriva un'altra tuttora florida ed operante: quella di S. Caterina di Via Bosco.

Al di là di quello che l'immobile può significare per l'esercizio dell’assistenza ai miseri, esso riveste una importanza unica per chi ha raccolto lo spirito di Don Orione. Non sapremo mai cosa sia avvenuto nella stanzetta del Pammatone dove il nostro riceveva le persone, alle quali schiudeva orizzonti di misericordia, di carità, di grazia, di conforto, di incoraggiamento.

Le testimonianze che ci restano sono sufficienti per ritenerla come un sacrario. Quando era in Italia ogni giovedì veniva a Genova e si metteva a disposizione di tutti. Per trovare un attimo di pausa Don Orione si rifugiava su un materasso sistemato nella carbonaia. La superiora della casa, Suor Stanislaa, perché le persone non andassero a scovarlo anche lì, ordinava a fratel Ambrogio Pavesi di far la guardia davanti all'uscio. “Cosa fai qui!?”, gli disse Don Orione contrariato, una volta che scoprì il tipo di servizio che il religioso gli prestava. “Me l'ha detto la Superiora”. Tanto bastò per zittire il Fondatore.

Su tutti gli episodi che hanno costellato i giorni di Don Orione in Portoria mi piace ricordare quello raccontato dell'avvocato Giuseppe Sciaccaluga.
“Parlammo delle mie vicende familiari, della Prima Comunione della mia quartogenita Maria Grazia, di un intervento cui avrebbe dovuto sottoporsi mia moglie e di altro ancora. Al momento del congedo volle donare a mia moglie una corona del rosario, ai miei figli delle medagliette della Madonna della Guardia. Voleva, poi, evidentemente, regalare anche a me qualcosa, ma per quanto cercasse nelle sue capaci tasche non trovava nulla da offrirmi. Rimase per qualche istante perplesso, poi, come parlando a se stesso, disse queste parole “.... e all'avvocato cosa possiamo dare?”. Avrà avuto l'impressione che rimanessi deluso o, forse, ed è questa la mia interpretazione del gesto subito dopo da lui compiuto, per non mancare di carità verso di me. Fu un attimo. Staccò da un occhiello della veste la catenella di metallo scuro alla quale teneva attaccato il suo povero orologio e me la porse. Commosso e confuso l'accettai. La catenella che era stata vicina al cuore di un santo era cosa mia: più preziosa di qualunque altro tesoro”.
Il figlio Piero, ora avvocato pure lui, è quel bimbetto passato alla storia per una simpatica foto che lo ritrae mentre riceve una delle famose medagliette distribuite con principesca munificenza da Don Orione.

Il professore Carlo Castello parla di una conversazione tenuta con Don Giuseppe Siri, ancora semplice professore di religione al liceo Doria, per organizzare con i suoi studenti un ritiro minimo. Castello gli suggerisce di sentire Don Orione perché già ne aveva organizzati di simili a Villa Solari, e che si trovava proprio in quel giorno in Via Bosco, per uno dei suoi soliti incontri del giovedì con gli amici genovesi. Siri vi andò e descrisse, poi da cardinale, l'incontro come sapeva fare lui in una memorabile pagina. Castello, sbirciando dalla porta socchiusa, riuscì a sentire come iniziò il colloquio. Don Siri si inginocchiò ma Don Orione gli disse: “Ma cosa sta facendo! Sono anch'io sacerdote come lei!”.
Il prof. Castello chiude così il suo brano: “Dell'ultimo mio incontro con Don Orione ricordo la data precisa l’11 febbraio 1940: la sua ultima venuta a Genova. Lo accompagnai in Via B. Bosco e, già sofferente di cuore, faceva fatica a salire le scale, alquanto ripide, per arrivare in cappella. Mi permise di aiutarlo, appoggiandosi al mio braccio. Ad un certo momento, per prendere fiato si fermò e, volgendo verso di me il suo sguardo sofferente, mi disse: “Carlo, quanto vorrei ancora poter ardere!”. Mi ripetè tre volte: ARDERE.
Il facchino della Divina Provvidenza, come amava definirsi Don Orione, sempre e in ogni luogo ardeva del fuoco acceso dal Cristo per portare quanti incontrava a Dio.


B. SACRARIO DI VITA E DI MEMORIE
Le canzoni che rimangono più impresse di solito hanno una venatura di malinconia, forse perché ti ricordano qualcosa che ora è vivo soltanto nel ricordo. La canzone prende lo spunto dallo smaltimento delle rovine che i bombardamenti avevano provocato a Piccapietra. Il passante sente i colpi di piccone rintronare nel cuore più che nel cervello perché quello che scompariva era il quartiere della sua fanciullezza. Risente l'odore del basilico nel pesto per le trenette; rigusta le minestrine inventate dalla mamma; rivede la nicchia dalla quale la Vergine osservava indulgente le coppiette riparate nelle rientranze dei portoni.

La furia devastatrice della guerra, il 22 ottobre e il 6 dicembre 1942, riduceva ad un inferno di fuoco e di rottami il cuore della città. La sede del Piccolo Cottolengo in via Bosco non fu risparmiata. Dalla terrazza del Paverano si potevano vedere le fiamme elevarsi proprio dove tante ammalate erano in preda all'angoscia e al pericolo. Fortunatamente il vento cambiò direzione e il fuoco risparmiò le poverette. I religiosi di Don Orione, accorsi noncuranti del pericolo, le trovarono tutte, strette attorno alle suore, che cantavano e pregavano a voce alta per sovrastare il rumore dei sibili, degli scoppi, e dei crolli e le portarono a Paverano e, successivamente in altre case più sicure.

Il fatto non sfuggì all'ammirazione delle autorità che lo vollero perpetuare con un gesto munifico. Il 24 ottobre 1948 il faroard. Siri benediceva una lapide con l'estratto della deliberazione del Comune, fatta l'8 febbraio 1944, quando ancora infuriava la guerra.

Ecco alcuni passaggi: “Premesso che, a seguito delle incursioni nemiche del 22 ottobre e 6 dicembre 1942, è stato pressoché distrutto lo stabile di proprietà municipale, sito in via Bartolomeo Bosco n. 2B, che il Comune, fin dal 1928, aveva concesso gratuitamente in uso al “Piccolo Cottolengo Genovese” fondato e diretto dal venerato Don Luigi Orione, perché l'Ente anzidetto vi svolgesse la sua caritatevole opera di raccolta e cura dei più miseri relitti della società; che dello stabile suddetto si è salvata soltanto la parte in cui si trovavano i modestissimi ambienti della direzione, dove Don Orione riceveva i reietti e gli infermi; ....che la Civica Amministrazione, sicura interprete del sentimento popolare, già dopo la scomparsa del Fondatore dell'Opera, aveva divisato di concedere perpetuamente una sede al “Piccolo Cottolengo Genovese” e che, allo scopo di dare una pratica attuazione a detto sentimento, il Comune stesso aveva pensato di donare all'Istituto anzidetto, l'intero stabile in oggetto, e ciò prima che lo stesso venisse colpito e in gran parte demolito dalle incursioni nemiche; che sebbene tale edificio sia ora materialmente semidistrutto, dal punto di vista economico conserva sempre intero il suo valore, in quanto lo Stato provvidamente ricostruisce a proprie spese gli stabili danneggiati dalle offese belliche... il Comune di Genova ha donato, come dona, al Piccolo Cottolengo della Piccola Opera Divina Provvidenza (Don Orione) Ente Morale con sede in Genova, con l'obbligo di destinarlo in perpetuo a sede e a beneficio del detto “Piccolo Cottolengo” perché in esso si continui a svolgere l'attività benefica per cui è stato fondato, l'intero edificio di proprietà Comunale sito in Genova, Portoria via Bartolomeo Bosco, civico 2B, tanto nella consistenza dei locali rimasti ancora abitabili, quanto quelli che, distrutti dalle bombe, saranno ricostruiti a cura dello Stato... il Comune di Genova si impegna nel caso di ricostruzione dell'edificio donato, da parte propria o per parte di terzi, di incorporare o prescrivere che vengano incorporati nel nuovo edificio i locali superstiti, quali sono attualmente, con ingresso separato, affinché il loro insieme costituisce, nella sua povertà materiale e nella sua spirituale grandezza, il Sacrario della figura, della vita e dell'Opera di Don Luigi Orione, a venerazione dei posteri. Una lapide marmorea vi sarà murata a ricordare, alto monito di cristiana bontà, la fervida dedizione dello scomparso Don Luigi Orione, verso le creature più umili...”.

Anima di questa, e tante altre iniziative di bene, fu il Grand'Uff. Aldo Gardini Preside della Provincia di Genova, tanto munifico quanto schivo. Nei locali dell'istituto di Paverano si era messa una targa con il suo nome a ricordo di altro gesto di generosità. Egli chiamò il responsabile e gliela fece togliere. Quest'ultimo, eseguendo l'ordine, si vendicò mettendone un'altra recante il motto “Flos memoriae marmore perennior”. Ossia: “Il fiore del ricordo è più perenne di una lapide di marmo”.

Amici di Don Orione (Genova), febbraio 2002.

 

 

 

 

 

LE SUORE

Don Orione quando parla di suore potrebbe sembrare scorbutico e selvaggio. Per spiegare il tipo di spiritualità che voleva per chi si apprestava a far dono di sé senza nessuna riserva o l'ombra di contropartita, fa sua la teologia dello straccio di suor Benedetta Frey. Uno straccio, comunque lo usi, è sempre straccio. Il modo di esprimersi era la scorza ruvida, la valva squamosa che nascondeva l'alta considerazione che egli aveva per loro e il timore che qualcosa del sublime ideale venisse in qualche modo offuscato.

Chi potrebbe infatti cogliere in pieno la portata di una esistenza tutta spesa per amore di Cristo? Mentre per i chierici Don Orione esigeva un congruo tirocinio, le suore erano promosse sul campo. Difficile parlare delle suore che furono e sono gran parte del Piccolo Cottolengo perché appena si accorgono di essere oggetto di interesse diventano lo straccio accuratamente nascosto nel ripostiglio.

1. LA MADRE

Costanza Bertolotti, suor Maria Stanislaa, venne spedita su due piedi a dirigere il Cottolengo Genovese. La chiamavano la suora della preghiera, ma anche la donna saggia e di governo. Di lei diceva Don Orione: “Se quando vado a Genova io trovo tante persone che mi fanno beneficenza e vengono a chiedere una benedizione, questo lo devo a suor Maria Stanislaa”. È stata una intelligente collaboratrice di Don Orione che, alla devozione, ha unito una forte personalità che le permetteva di prendersi la libertà di dissentire anche dal suo Fondatore: “Don Orione, lasci perdere”, disse, quando egli voleva intervenire drasticamente per difendere la sua congregazione contro un tale che la stava danneggiando gravemente. Don Orione seguì il consiglio e non ebbe a pentirsene. Carica di lavoro e di incombenze, dimenticava tutto quando qualcuna delle ospiti era prossima a morire e l'assisteva materna fino all'ultimo.

2. L’INNOMINATA

Il professor Isola ebbe modo di incontrare tante suore e di tutte conserva un ammirato ricordo. Di una, senza nominarla traccia il profilo e confessa di aver gettato uno sguardo furtivo nel libriccino di appunti di lei. Vi legge: “Devi essere operosa come l'ape; non un attimo della tua giornata deve essere infruttuoso; e, quando ti sentirai stanca, fa un piccolo sforzo di buon volere e troverai nuove energie; e, quando anche queste saranno spese, una preghiera ed un altro sforzo te ne daranno ancora. E se, alla sera, ti coricherai avendo assolto il tuo compito così come io te lo addito... allora io userò misericordia ai morenti in quella notte”.

3. L’INCOMPLETA

Luisa Verardo: un'orfanella che in Paverano ha trovato il suo nido. Allegra, spigliata, aiutava le sue compagne e sapeva di ricamo e di cucito. Allo schiudersi della giovinezza volle seguire la strada delle buone suore. Dovette troncare il noviziato per essere ricoverata a S. Tecla. Avvertiti prossimi i passi di sorella morte, chiede di poter emettere i voti religiosi anche se l'iter formativo è incompleto. Venne portata sul suo bianco lettino nella cappella del sanatorio dove fa la professione religiosa tra la commozione di tutti i presenti. Ventun anni: ora Luisa è suor Sista, ma soltanto per qualche giorno quaggiù; il resto degli anni, dal 14 giugno 1947 fino in fondo dell'eternità.


4. LA BENNATA

Luigina, martoriata dalle fitte della meningite, nello spasimo invoca la superiora che accorre e sa attingere dal cuore le parole per un attimo di sollievo. Offesa pure nella parte sinistra del corpo, squassata dagli assalti della malattia, nell'acme della sofferenza agita il braccino destro. Suor Bennata, inginocchiata accanto al letto, stacca il Crocifisso dal suo petto e glielo mette in pugno da brandire come un vessillo. Tratto tratto allunga la mano tremante di tenerezza per ravvivare i capelli della piccola martire, madidi del gelido sudore della morte e le sussurra parole come di madre per consegnarla all'eternità.


5. LA VENERABILE, Suor Maria Plautilla.

Lucia Cavallo ha venti anni quando decide di consacrarsi al Signore nel servizio dei più poveri. Inferma da tempo, spossata dalle fatiche, chiede di vedere per l'ultima volta le sue vecchiette. Venne portata in reparto a braccia su una sedia. Mai incontro fu più commovente! Morirà il giorno dopo, festa della Madonna del Rosario, supplicando la consorella che l'assisteva: “Questa mattina non mi lasciate sola”. Già, perché nella Bibbia, l'incontro con lo sposo prevede il corteo.
Quattordici anni prima, al momento di farsi suora, scriveva: “Farmi santa a costo di qualunque sacrificio. Costi quel che costi”. Suor Maria Plautilla, serva di Dio, sposa di Cristo.
Che tipi queste nostre suore!

Amici di Don Orione (Genova), febbraio 2002.

 

 

 

 

 

 

MARZO 1933: L’ACQUISTO DEL PAVERANO

Fino al 1933 le sue istituzioni in Genova erano apparse limitate, anguste, quasi frammentarie.Don Orione si rendeva conto che il Piccolo Cottolengo avrebbe avuto possibilità di maggior penetrazione e sviluppo nel contesto della carità cittadina se acquistava una sede centrale di spicco per dimensioni e posizione, che divenisse l’anima di un corpo complesso, quali i felici incrementi iniziali davano a sperare.Nel maggio 1929 il vice parroco di Santa Fede, la parrocchia di corso Sardegna, scriveva a Don Orione, a nome del parroco Mons.Fortunato Cordiglia: “Il 1º luglio il Paverano avrà altra destinazione. Il mio Prevosto e lo stesso Arcivescovo di Genova Mons.Minoretti vedrebbero volentieri in quell’Istituto i Figli della Divina Provvidenza” (da “Don Orione e Genova: cinquant’anni di storia”).

Don Orione non era insensibile alla proposta di rilevare il Paverano.Pregava e faceva pregare. Così, un pomeriggio decise una visita alla Madonna della Guardia, sul Figogna. Il rettore Mons. Malfatti, suo grande amico, lo accolse con gioia e lo invitò a fermarsi poiché il mattino seguente anche lui doveva scendere in città. Don Orione rispose che doveva rientrare e si incamminò giù per la discesa.Quale fu la meraviglia del monsignore quando, il giorno dopo, fece la consueta visita alla cappella dell’Apparizione poco distante dal santuario e vi trovò don Orione che vi aveva passato la notte in preghiera, per chiedere la grazia di conoscere la volontà di Dio in ordine alle sue opere in Genova.
Fu così che Don Orione mise sotto pressione gli amici Boggiano Pico, Pippo Gambaro, Angela Solari Queirolo, Alfonso Dufour, l’avv.to Domingo Rapallo, il cav.Enrico Blondet, il conte Agostino Ravano e il rag.Sciaccaluga.Ci voleva un buon “brain trust”, una concentrazione di cervelli per inquadrare il problema e trovare la soluzione ottimale per le parti in causa. Finalmente l’intesa fu raggiunta.Ma sovrastava il tutto una grande visione di fede quale soltanto un santo poteva avere: “Non ti impressionare per nulla, scriveva a Enrico Sciaccaluga, vada bene o male.Coraggio! Noi serviamo Gesù Cristo nei poveri, e la Chiesa nei suoi poveri.E poi stiamo lieti nel Signore”.Non era roba da poco! Dopo vari aggiustamenti si arrivò alla firma dell’accordo.
Don Sciaccaluga, testimone oculare, racconta.
“Era la sera dell’8 marzo 1933, nella Casa paterna di Tortona.Fui invitato a scrivere a macchina la lettera di impegno che accompagnava lo schema di accordo.Finii di scrivere ma Don Orione non firmò.Mi invitò a portarmela dietro l’indomani mattina, 9 marzo, al Santuario della Guardia dove gli servii la S.Messa.Al termine egli recita una “speciale” Salve Regina, aggiunge altre preghiere ai santi patroni Pietro e Paolo, al Cottolengo e per le anime dei defunti.Finalmente, sulla mensa stessa dell’altare, ancora vestito dei paramenti sacri, fattosi il segno della croce, appone la firma all’importante documento che per tutta la celebrazione era stato sull’altare. Con questo Sciaccaluga torna a Genova.

Il 12 marzo il Preside Gardini tiene una relazione al Rettorato della città: “A Genova tutti conoscono ed apprezzano quella eccellente creazione della Piccola Opera, che risponde al nome di ‘Piccolo Cottolengo’ – egli dice, e continua – nessuna sorte più degna poteva dunque toccare al vecchio Istituto di Paverano, che quella di ritornare al patrimonio dei poveri”. Il Rettorato ascolta compiaciuto ed approva. Il 13 marzo 1933 viene firmato l’accordo e Don Orione versa la prima rata; il 15 marzo la seconda rata.Da notare che siamo nel pieno della novena di S.Giuseppe.Fu in questa occasione che il tesoriere sollevò delle obiezioni data l’ora, per prendere in consegna la notevole somma che Don Orione andava a pescare nelle profonde saccocce della veste.Poi, squadrandolo ben bene, comprese che se non l’avesse presa al volo, avrebbe dovuto sospirarla per un po’ perché quella avrebbe trovato subito altro impegno similare.

Raccontando l’avvenimento ai suoi chierici Don Orione diceva divertito: “Tutti gli anni San Giuseppe ci viene a trovare con qualche grazia.Lo scorso anno mi ha fatto la grazia di farmi ammalare (tutti ridono).Sicuro! Non è forse una grazia questa? Quest’anno ecco invece un’altra grazia.Ieri sono stato a Genova e ho fatto il contratto per l’acquisto del Paverano.Sono quasi due milioni.Non vi spaventate per così poco perché posso dire di averli già in mano...”.
Ma di questo vale la pena parlarne più diffusamente.
Amici di Don Orione (Genova), marzo 2002.

 

 

 

 

 

 

ANGELA SOLARI VEDOVA QUEIROLO

Di questa benefattrice richiamiamo brevemente la figura per inserirla nella carrellata che stiamo facendo delle opere di Don Orione in Genova.

Luigi Queirolo, affermato ingegnere, che tra le altre aveva costruito gran parte delle case di Salita Sant’Anna, è gravemente ammalato. Gli capita per mano un foglietto propagandistico di un prete che cerca aiuto per i suoi poveri.Chiama la mamma e le dice: “Quando non ci sarò più aiuta questo prete, dagli la mia parte”. La mamma, Angela Queirolo, che aveva già perso tragicamente altri due figli, entrò così nell’orbita di Don Orione e gli fu vicino fin dagli inizi della sua attività in Genova, aiutandolo in tutti i modi. Don Orione poteva sembrare per certi aspetti un rustico, ma aveva un animo sensibilissimo.Al signor Canepa, come già abbiamo detto, scriveva: “Voi dovreste venire con me, vicino a me, perché sento il bisogno che preghi con me e mi consigli nel Signore...Vi terrei come un padre...”.

Alla notizia della morte della Queirolo da Buenos Aires, il 25.9.1936, manda questo telegramma: “Impossibile esprimervi la mia profonda afflizione: come fosse morta mia madre”. Certo aveva bisogno di aiuti, ma sentiva la necessità di un padre e di una madre.Confidandole di non essere stato bene, egli continua: “in questi giorni che non potevo lavorare e quasi neppure pregare, sa signora Queirolo, che cosa facevo? Leggevo e rileggevo le lettere della Signora Angela Solari Queirolo, madre del Piccolo Cottolengo Genovese, così che posso dire di saperle a memoria, e fin gli a capo, e fin le virgole.Quando ritorno, Lei mi darà l’esame e vedrà che dovrà darmi dieci e lode...”.

Già abbiamo detto dell’acquisto del Paverano.Gran parte della somma necessaria gliela diede la Queirolo. Racconta sempre Don Orione: “Ero già alla stazione di Genova quando mi raggiunge Sciaccaluga per dirmi che la Signora mi cercava. Per un attimo ebbi paura che si rimangiasse la promessa che mi aveva fatto di darmi mezzo milione.Arrivato a casa sua mi dice che, se fossi andato l’indomani, mi avrebbe fatto trovare pronto un milione intero. Non vi sembra strano che, dopo che acquistiamo un manicomio, dobbiamo anche pagare due milioni (tutti ridono)?”. Quanto mancava all’intera somma gli venne consegnato da un misterioso personaggio che gli lasciò in busta chiusa un’offerta pari a quanto occorreva.

Ricordando la scomparsa della “buona, indimenticabile Madre dei cari poveri, e un po’ anche – un po’ tanto – Madre mia in Cristo” scrisse: “Che ella poi abbia tanto sofferto la mia lontananza, anche questo è un vivo dolore per me. Ora dal cielo, ove la spero, essa comprenderà tutto e i motivi delicati per cui tirando avanti un mese dopo l’altro – per non farla soffrire di più – ho cercato di nasconderle le mie tribolazioni: forse sarebbe morta prima, di dolore”.
Amici di Don Orione (Genova), aprile 2002.

 

 

 

 

IL PAVERANO: SI INCOMINCIA

Il Paverano ha una storia di tutto riguardo che ha i suoi inizi circa il 1100. Fu sede di priorato di canonici mortariensi, una fondazione di monaci di Mortara, città lombarda.Divenne in seguito sede del noviziato dei Gesuiti; passò poi agli Scolopi.Tra le sue mura vissero gloriosi personaggi, ma nulla poterono contro la furia rivoluzionaia che prese l’avvio in Francia alla fine del 1700. L’antica chiesa venne ridotta a macerie e l’edificio passò in mani private.Nel 1853 la Gazzetta di Genova dava notizia che alcune anime generose avevano accolto colà “...infelici accattoni, che, gementi sotto il peso della miseria, vanno traendo, neghittosi, per le vie della città, una meschina e stentata esistenza”.Come si vede, siamo capaci di fare dell’ottima prosa sulle sventure umane. Fu in quegli anni che andò in uso il detto “andà a Pavian” per significare cadere in miseria nera.

Il “Ricovero di mendicità”, passava nel 1911 nella nuova sede della Doria e il Paverano si apriva alle “mentecatte”, provenienti dall’ospedale psichiatrico, allora in via Galata, destinato alla demolizione.Oggi i termini sono più signorili, ma dicono le stesse cose.In Paverano dispiegarono le loro doti illustri neuropsichiatri come Morselli e Cerletti.Nel 1931 si inaugurava la nuova clinica a S.Martino e lo stabile, messo in vendita, venne acquistato dalla Provvidenza per l’interessamento di Don Orione e con i soldi della signora Angela Solari ved.Queirolo, proprio nel giorno di San Lorenzo, protettore di Genova e dei poveri. Ma di questo già se ne è parlato più volte.

Il Paverano divenne sede del Piccolo Cottolengo Genovese che continua la sua storia di bene, adattandosi alle esigenze dei tempi e contando sempre sulla generosità dei genovesi che mai ha deluso. Più che ad un alveare, si potrebbe paragonare il Piccolo Cottolengo ad un formicaio. Certo ci sono state e ci sono tuttora persone di una generosità grandiosa, addirittura intere famiglie di insigni benefattori, ma il Cottolengo si regge sui gesti di una fiumana di gente semplice che vuol dividere col bisognoso i suoi beni. Inoltre credo che Don Orione abbia appreso dall’animo genovese l’arditezza dei progetti unita alla concretezza del metodo.

Per quanto possa conoscere, credo che non esista nel mondo orionino una struttura grande ed articolata come quella genovese. Abbiamo più volte parlato dell’avv.to Boggiano Pico che diede alla nascente Congregazione della Piccola Opera della Divina Provvidenza il supporto giuridico. Abbiamo nominato ripetutamente i signori Canepa, Gambaro, Ravano, Dufour, Odero ed alte persone ancora, esperte nel campo degli affari e dell’industria. C’è poi una miriade di professionisti che hanno voluto bene a Don Orione.Da questi egli apprese l’arte dell’alpinista: finché non ti senti sicuro col primo piede, non muovere il secondo. A capo della grandiosa struttura del Cottolengo Genovese Don Orione mise subito un...genovese: il rag.Enrico Sciaccaluga, divenuto in seguito suo sacerdote e primo economo generale dell’Opera.Aveva due occhietti dai quali sprizzava furbizia e intraprendenza. La dote comune a Don Orione e a Don Sciaccaluga, e che forse stiamo perdendo, era l’arte di rendere partecipi i benefattori al punto che questi pensavano di essere stati, quali erano realmente, gli artefici di tanto bene.
Diceva Don Orione, e lo sapeva bene Sciaccaluga: “Quelli che dicono che Don Bosco e il Cottolengo fossero contenti di far debiti non sanno quel che dicono o non dicono tutto. Non è vero che essi fossero contenti nel far debiti, no! Detta la cosa così, debbo dire che non è proprio vero. Essi sapevano distinguere molto bene, con santa saggezza, tra debito e debito. Figlioli miei in Gesù Cristo crocifisso, vogliate credere alla mia dolorosa esperienza: non fate debiti specialmente con le banche”.

Il Piccolo Cottolengo intrepretò egregiamente i tempi e tenne sempre aperte le sue porte alle necessità dei fratelli e delle sorelle.Seppe industriarsi in tutti i modi per attraversare momenti difficili, ricorrendo anche alle residue risorse fisiche e morali dei propri assistiti. Sull’esempio della Piccola Casa, l’immensa istituzione voluta da San Giuseppe Cottolengo a Torino, attrezzò l’istituto di forno, pastificio, reparto tessile e di maglieria, sartoria e tutte le attività che rendono autosufficiente una struttura del genere. Nel campo medico non fu da meno. Si arrivò alla sala chirurgica, a quella radiologica e di analisi chimica. I ricoverati, allora non si vergognavano di chiamarsi così, si rendevano utili in tutti i modi.
Veramente il regno di Dio nel Cottolengo si era realizzato perché ognuno diventava per l’altro e braccio e occhio e orecchio e piede e lingua.

I tempi cambiano, le esigenze si moltiplicano.Qualcuno mostra perplessità per i lavori svolti in continuazione e che qualche volta sostituiscono o modificano ambienti da poso riattati.Quel che prima andava bene ora non va più; quel che prima ci bastava e ci avanzava, ora non basta più. Norme severe di igiene, di sicurezza, ed altre non definibili, obbligano le strutture come le nostre ad un adeguamento continuo.Ci creano tanti pensieri e fastidi ma è anche vero che rendono la vita agli ospiti più vivibile.
Amici di Don Orione (Genova), aprile 2002.

 

 

 

 

 

SALITA ANGELI

L’opera di Don Orione in Genova ha strutture di notevole mole ma la casa di Salita Angeli rimane nell’inconscio come il nido da dove si è spiccato il volo. Di Tommaso Canepa ne abbiamo parlato fino alla sazietà, qui lo vogliamo ricordare per la sua ostinazione di mettere la propria casa a disposizione di Don Orione. Con il card. Minoretti la diocesi di Genova potè godere un periodo di tranquillità operosa ed anche Don Orione prese animo e cominciò a muoversi con maggior scioltezza. Non aveva la benché minima fretta di utilizzare la Casa del Canepa perché in pratica ne poteva già disporre a piacimento. Nel 1930, il quattro gennaio moriva Tommaso ma la figliola Concetta e il marito Vincenzo Garibaldi continuarono, direi con maggior impegno che derivava loro dal ricordo del defunto, a tenere aperta la porta di casa a Don Orione, che la utilizzava soprattutto per l’ultima sosta dei suoi religiosi destinati ad imbarcarsi per il sud America.
La casa gode di un panorama stupendo e, pur essendo nel centro, è al riparo della frenesia cittadina.
È un piacere ammirare da lì le strutture portuali, sentire il fischio dei vaporetti che guidano in entrata e in uscita i colossi del mare. Si era là quando il Rex, il fiore all’occhiello della nostra marina, attentava al record della traversata atlantica; da lì si ammiravano i gioielli della nostra cantieristica rinata dopo il disastro bellico: l’Andrea Doria, l’Augustus, la Giovanni e Sebastiano Caboto ed altre ancora, che animavano la nostra fantasia. Salita Angeli era il balcone ambito.

Dovendo lasciare il conservatorio di S. Girolamo di Quarto, Don Orione vi alloggiò lì dodici vecchietti e poi assemblò vari tipi di umanità. Vi mise alcuni subnormali, oggi si dice ipodotati, orfanelli che frequentavano l’asilo e le elementari comunali, i tommasini che erano i ragazzi con qualche propensione vocazionale, chierici che, oltre all’assistenza e alla scuola ai ragazzi, aggiungevano la frequenza al seminario diocesano. Ovviamente il tutto fatto con prudenza ed avvedutezza.
Questa santa mescolanza era un provvido sistema educativo assistenziale che cresceva alla solidarietà, favoriva la serenità e donava a tutti il senso umano della convivenza.

Le suore erano le sagge e materne dirigenti. C’era poi il buon canonico Raineri che era l’anima ilare, ritagliata su misura per l’amalgama di tanto campionario. Divenne una sezione delle ragazze dal Piccolo Cottolengo e, per breve tempo, piccolo seminario. Don Orione la voleva come casa di preghiera e soltanto l’intuizione di un santo poteva avere questo pensiero tenerissimo: sulle banchine del porto sottostante si consumavano tanti drammi dovuti alle forzate separazioni degli emigranti, tante lacrime amare e inconsolabili rigavano i volti e di chi partiva e di chi rimaneva. Dall’alto un mannello di anime, toccate anch’esse dal dolore e dalla sofferenza, avrebbe pregato per tutti loro.
Ora la casa langue; c’è un qualche sussulto dell’antica vitalità che tuttavia non riesce a soffocare il pianto per tante memorie.
Amici di Don Orione (Genova), maggio 2002.

 

 

 

 

 

SOMMARIVA SALVATORE: DIO NON C’È

Salvatore Sommariva se n’era andato da ragazzo nelle Americhe e dopo aver fatto fortuna tornò nella sua Genova. Saputo di quella casa sul porto, vi andò in incognito. Guardò, visitò e si commosse per la carità che in quella casa regnava. Lasciò una prima generosa offerta. Don Orione disse a suor Caterina di andarlo a ringraziare con due orfanelli. Nell’accomiatarsi disse la religiosa: ”I piccoli pregheranno Dio per lei”. ”Dio non c’è” le rispose brusco il commendatore.
Venutolo a sapere, alla prima occasione Don Orione si presentò a lui e gli disse: ”Guardi che io sono il prete di quelli che non vanno mai in chiesa”. E poi ci infilò dentro anche il discorso che suo padre era stato un ardente garibaldino. Garibaldi in sud America, da dove rientrava Sommariva, era ancora una leggenda. Si instaurò una fraterna amicizia ed è inutile dire che Salvatore ritrovò Dio.

Tra i due c’era indubbiamente qualcosa in comune del carattere; tutti e due molto concreti che, alle parole volevano seguissero i fatti. Tutti e due con l’animo del trafficante anche se a livelli diversi: l’uno in beni immediati, l’altro pagabili alla scadenza. In una lettera mandata il 19 settembre 1933 a Don Sterpi, Don Orione mostra la sua strategia. Sommariva villeggiava a Crocefieschi e ci arrivava col mezzo più economico, sparagnino com’era. Don Orione scrive così: ”A costo di qualunque nostro sacrificio, bisogna che non lasciamo deluso il signor Sommariva, e il favore, perché riesca gradito e dia buoni effetti, va fatto subito. Accetterai dunque il paralizzato. Ti fai il segno della croce, invochi col cuore la Divina Provvidenza, gli trovi subito un posto a Salita Angeli: trovi qualche buon uomo di quelli che già abbiamo a Salita Angeli, che possa prendersi cura di aiutarlo (non suore) per vestirsi e sue necessità e tutto è fatto. Qualcuno, giovane o vecchio, dritto o storto, ci sarà; magari gli passeremo un po’ di tabacco o qualcosetta a tavola, ma con un po’ di buona volontà da parte di qualcuno dei già ricoverati si provvede al bisogno. Fatta la cosa la comunicherai immediatamente a nome di Don Orione al signor Sommariva, esprimendogli il piacere di dargli la notizia. Ti mando per questo una speciale benedizione.
L’altro, quello dell’arciprete, lo prenderemo al più presto. Bada bene: tra l’arciprete e il Sommariva pare non corrano buoni rapporti; se vai a Crocefieschi, meglio non farti vedere con l’arciprete. Attendo qui assicurazione pel paralizzato di Sommariva, e quanto prima puoi”.

Letta così la lettera si presterebbe a qualche considerazione, ma non ci dobbiamo dimenticare delle condizioni di settanta anni fa che non sono minimamente da paragonare alle attuali. C’è però un particolare che ci fa capire il profumo agreste della vicenda: Don Orione a Crocefieschi era di casa fin dal lontano marzo 1906. Gli abitanti di quel borgo, gente passionale, si erano beccati un interdetto dal vescovo e la chiesa venne chiusa: niente battesimi, niente funerali, niente matrimoni. Il motivo era che il vescovo aveva spostato altrove il prete del luogo che i paesani stimavano moltissimo. ”Se non può rimanerci lui, non ne vogliamo altri”.

La situazione rischiava di incancrenirsi ed allora venne inviato Don Orione a rimettere pace. Si fece persino crescere un po’ di barba per sembrare più posato e solenne. Egli riuscì a riportare il sereno e suggerì al vescovo anche il nome di colui che avrebbe dovuto sostituirlo senza creare ulteriori problemi.

C’è poi un altro fatterello riportato da ”Leggende dell’Alta Valle Scrivia” ed ha per protagonista Gilberto Govi. L’artista era solito visitare i ristoranti tipici e quel giorno aveva prenotato a Crocefieschi. Nel pieno dei preparativi del pranzo giunge al ristoratore una telefonata, con tutta probabilità del Sommariva, che gli chiedeva di riservargli un tavolo perché avrebbe avuto la visita di Don Orione e non sapeva come fare, perché la donna di servizio era impossibilitata. Fu un giorno memorabile! Pur avendo preparato per gli illustri ospiti tavoli discreti e separati, essi vollero unirli e Gilberto Govi, che poteva sembrare ruvido e stundaio, trattò don Orione come vecchio amico.

Quando Don Orione morì, il suo successore Don Sterpi non ebbe cuore di dirlo al commendatore perché già tanto provato dalla malattia e lo confortò assicurandogli la viva riconoscenza di lui e dei suoi orfanelli.
Anche la città di Genova fu oggetto della ”cristiana munificenza” del Sommariva, in onore del quale pose una delle enormi statue che adornano l’ospedale di San Martino. Il Sommariva fece costruire il padiglione dei cosiddetti ”Raggi”, il primo sulla destra che si incontra subito dopo l’entrata, prima di immettersi nel viale centrale.
Amici di Don Orione (Genova), maggio 2002.

 

 

 

 

 

ALFREDO DIVANO

Nel libretto ”Salita Angeli 69” di Albino Cesaro, dal quale abbiamo razziato le notizie riguardanti il Piccolo Cottolengo di Salita Angeli, gran spazio occupa la figura di Alfredo Divano. La sua culla fu l’asilo materno in via della Castagna in Albaro. Compiuti i tre anni la signora Teresa Ravano lo fece accogliere nella casa di Salita Angeli. La presenza saltuaria della mamma della quale non abbiamo notizie, anziché distendere sul volto i tratti della spensieratezza, lo hanno reso maturo anzitempo. È quasi legge di natura: la privazione di un bene dovuto accentua lo sviluppo di altre doti. Lasciando perdere tanti particolari che potrebbero sembrare agiografici, di Alfredo voglio dire la sua morte singolare. La suora che lo ha assistito ne ha tenuto un diario dal quale possiamo trarre questi appunti.

Alfredo aveva manifestato a Don Orione il desiderio di diventare sacerdote e per questo era passato nella famiglia detta dei Tommasini. Il 22 aprile 1939 viene ricoverato al Gaslini. Lo assistevano suor Margherita Pederzolli e l’infermiera Margherita Calcagno. Un ragazzo che donava i giocattoli agli altri non era cosa comune e che poi si sottoponesse a cure dolorose quietandosi perché esortato ad accettarle per amore di Gesù era davvero una cosa singolare.

Una volta viene sorpreso in terrazzo a prendere il sole. ”Che fai?”, gli chiedono. ”Prego per i preti”. Aggravandosi il male, venne avvertito Don Orione che subito accorse. È il 26 ottobre 1939. Don Orione gli amministra il viatico, l’olio degli infermi e lo riveste dell’abito degli apostolini. Si sparge la voce e la sua camera diventa meta di pellegrinaggio di dottori, di infermiere, di suore e di visitatori. Mezz’ora prima di morire perse anche la vista ma i braccini divennero più agili ed il volto pallido si animò come fosse in presenza di soave visione. Volle abbracciare tutti, compreso il Crocifisso. Cominciò a far segni non compresi dai presenti. Giunse il frate e subito si accorse che erano i gesti della celebrazione della messa: il Dominus vobiscum, il versamento del vino dall’ampollina, l’elevazione dell’Ostia e del Calice, la distribuzione della Comunione e la benedizione finale. Questa con una variante: la diede come un vescovo, ripetendola tre volte. Morte più bella non poteva desiderare. Era il 15 novembre 1939.
Qualche giorno dopo Don Orione andava a trovare un suo chierico, anch’egli ricoverato al Gaslini assieme ad un altro religioso e disse: ”Raccomandatevi a quel bambino di Salita Angeli, che è morto come un santo ed è morto celebrando la santa Messa”.

Beh, non so se a voi, ma a me certe cose mi caricano e nello stesso tempo mi stizziscono. Ma come, abbiamo avuto fra noi veri santi, nel nostro caso, veri Angeli e ce li facciamo scivolare via come fosse la cosa più normale. Se non stiamo attenti si finisce per perdere il ricordo delle persone che hanno fatto l’Opera di Don Orione, soprattutto i nostri ricoverati. Si, proprio ricoverati, perché così venivano chiamati e nessuno di loro si sentiva offeso per un termine che però diceva una carica di umanità e, soprattutto, di condivisione.

Preti, suore, chierici, ospiti non avevano titoli o qualifiche. Essi hanno condiviso con i ricoverati, con i cosiddetti ”buoni figli e buone figlie”, tutta la loro vita, fino all’ultimo istante scoccato per loro, come per i ricoverati, in un camerone al riparo di un improvvisato paravento. E che corteo solenne e singolare la loro entrata in cielo, accompagnati non più da una sgangherata fila di ipodotati, ma da anime che, grazie anche a loro, avevano riacquistato la primitiva leggiadria!
Tutti sappiamo della possibilità di bambini prodigio e non ci meravigliamo più di tanto. È storicamente provata l’esistenza di bimbi santi, bambini che sono stati capaci di vivere l’esperienza di Gesù nella loro breve vita, con intensità straordinaria.
Caro Alfredino, ti abbiamo messo sventatamente nel campo 46, fila 11, fossa 39 di Staglieno: non farci caso, scusaci e prega per il Cottolengo, per l’Opera del tuo amico Don Orione e riempi il vuoto lasciato dal tuo sognato sacerdozio, con altri animati dai tuoi medesimi ideali.
Amici di Don Orione (Genova), maggio 2000.

 

 

 

 

 

 

19 marzo 1924: Nascita del Piccolo Cottolengo Genovese – Via del Camoscio

Il 1924 fu un anno memorabile nella storia mondiale, europea, italiana e… orionina. Nel gennaio moriva a Gorkij Lenin. Di lui s’è già detto quasi tutto. In America invece il mese dopo moriva T. W. Wilson, 28° presidente USA, ispiratore della Società delle Nazioni e della Dichiarazione dei diritti umani. In Italia il ministro fascista delle finanze De Stefani poteva annunciare il pareggio di bilancio. Lo diceva con compiacenza, anche se i salari degli operai non gongolavano per niente.
I mesi successivi sarebbero stati decisivi per il regime che stava radicandosi in Italia e che avrebbe toccato l’apice della crisi con il delitto Matteotti. La grande storia, quindi, veleggiava alto. Un’altra storia, certamente non delle medesime dimensioni, anzi, aveva inizio a Genova. Il 19 marzo, giorno di San Giuseppe, Don Orione apriva un facsimile di cottolengo in Via del Camoscio. C’erano tutti gli ingredienti per la riuscita: una gran miseria, uno sparuto mannello di malmessi, un paio di suore smarrite, un bel gruppo di amici che non avrebbero più lasciato Don Orione e la Divina Provvidenza, nella persona del suo inviato speciale S. Giuseppe.

La racconto così alla garibaldina perché anche Don Orione sembra averla presa in questo modo. S’è già detto del fatto, ma piace ricordarlo ancora per quel tratto di follia che accompagna sempre le grandi imprese. Don Orione era già conosciuto a Genova, ma non si decideva ad aprire una delle sue opere. Probabilmente egli, con fine rispetto alla Chiesa, nn voleva dare preoccupazioni alla diocesi che già da anni soffriva dell’assenza del suo pastore. Gli amici gli affittarono dal Sig. Ferrarini una casa a tredici mila lire annue. La vigilia di San Giuseppe, a Tortona, egli scende in cucina per cercare suor Stanislaa. La religiosa è a letto, un po’ indisposta. Venuto a sapere di Don Orione ella si alza e va a prendere ordini. “C’è da andare a Genova ad aprire una casa domani”. “Bene, andrò domani”. Di nuovo: “No domani, vada subito, col primo treno”. Probabilmente la religiosa si morse il labbro per non soggiungere: “Signorsì”. E partì su due piedi.

L’inaugurazione fu una funzione all’insegna della semplicità. Grazie al parroco del luogo che scrisse la cronaca di quel giorno, no oggi possiamo edificarci di un fatto che sa tanto di fioretto francescano.
Alla sera, partiti gli ultimi amici, una signora chiese alla suora come avrebbe provveduto per il domani. Non ci fu bisogno di parole. La signora Giuseppina capì al volo e le allungò cinquanta lire.
“Il regno dei cieli è come il granello di senapa, è come un pizzico di lievito, è niente”. È proprio vero, comincia piccolo piccolo, come un essere umano: se cominciasse già fatto, dove sarebbe la meraviglia? Nasce piccolo piccolo perché lo devi crescere tu, lo dobbiamo nutrire e difendere insieme.

Ora il Piccolo Cottolengo ha preso altre dimensioni e non è il caso di fare confronti nostalgici. Il ricordo delle origini ha per noi un unico significato: ricuperarne lo spirito. Come poi il sogno, la vision, si dice oggi, negli anni prenderà corpo sarà ancora la Provvidenza a condurci per mano perché il suo progetto non venga contraffatto.

Auguri, Piccolo Cottolengo Genovese! Ottanta anni nella bibbia sono come un soffio. Chissà per quanti altri anni dovrai udire lo sciabordio del tuo mare.

“Amici di Don Orione”, Mensile del Piccolo Cottolengo di Don Orione – Genova,
N.3 – Marzo 2004

 

 

 

 

QUARTO- Castagna

Il Piccolo Cottolengo di Quarto Castagna è una delle stelle luminose che brillano nel cielo della carità di Don Orione in quella che lui ha definito la città di Maria, Genova. Diamo una scorsa panoramica a questa carità che nel nome di Don Orione si espande a macchia d’olio per la città di Genova dove cuori generosi condividono i suoi ideali e le sue imprese. Non nomino i tanti benefattori, amici di Don Orione e per il grande numero e per timore quasi di deprezzare l’obolo della vedova lodata dal Signore e ricordata dal Vangelo degli apostoli.

Il 19 marzo 1924 Don Orione accende il fiammifero che provocherà il grande incendio di amore ai poveri e ai sofferenti: prende in affitto una casa in Via del Camoscio 2 nei pressi di Marassi.
Il 4 novembre 1925, dal Comune di Genova, affitta il vecchio ospedale S. Girolamo di Quarto dei Mille che viene dismesso.
Nel 1928, in cambio del S. Girolamo, il Comune offre a Don Orione la casa di Via Bosco e il sig. Canepa la villa di Salita Angeli.
Il 21 aprile 1930 il Card. Minoretti, alla presenza di tante autorità civili, benedice la prima pietra di Castagna. Nel 1936 si completerà il primo padiglione e nel 1986 (50 anni dopo) il secondo.
Il 13 marzo 1933 Don Orione firma il compromesso con il Comune di Genova per l’acquisto del Paverano e il 30 novembre Don Sterpi ne prende possesso.
Nel maggio 1939 con la benedizione del Card. Boetto viene inaugurata l’opera benefica per nobili decadute in una Villa di grande pregio artistico storico in Molassana.
In fine, dopo la morte di Don Orione, l’11 ottobre 1940 si conclude l’acquisto del Villaggio della carità di Camaldoli, balcone stupendo e panoramico sulla grandiosa città di Genova.

Col passare degli anni altre opere si sono aggiunte, Barabini di Teglia, la monumentale Abbazia del Boschetto, Bogliasco, ecc… Ma soprattutto si sono consolidati e adattati alle esigenze dei tempi i vasti complessi del Piccolo Cottolengo Genovese e questo sempre con l’aiuto di cuori generosi.
Dopo la breve panoramica tracciata torniamo a parlare del bel complesso di Castagna che conforta oltre duecento fratelli e sorelle provati dalla vita.

Oggi Castagna si presenta a chi percorre Corso Europa tra Quarto e Quinto, all’altezza dello svincolo autostradale di Nervi, come un grande fabbricato composto da due complessi congiunti tra loro, di stile diverso, realizzati in tempi diversi e attorniati da tanto verde che si affacciano sul mare di Quarto. Completa l’ambiente un ampio cortile ornato di fiori, delizia degli ospiti delle lunghe giornate estive ma anche nelle ore di sole invernali per la dolcezza del clima. All’entrata ti accoglie luminoso il volto sorridente e il gesto ampio, benedicente di don Orione, statua bronzea realizzata in questi ultimi anni dallo scultore milanese Pietro Zegna. Ai piedi della statua una scritta del Padre dei poveri del 1933 che ti rasserena: "La porta del Piccolo Cottolengo non domanda a chi entra se abbia un nome, ma soltanto se abbia un dolore".
L’opera sociale di Castagna si inserisce nel solco della carità cristiana scaturita dal cuore senza confini di Don Orione che il Papa Pio XII definisce “apostolo della carità, padre dei poveri, benefattore dell’umanità dolorante ed abbandonata… “ e Giovanni Paolo II parlando della sua opera la proclama “meravigliosa e geniale espressione della carità cristiana… “.
L’iter di questa realtà non è terminato, restano due reparti da mettere a norma secondo le esigenze moderne e il nuovo ascensore a servizio degli ospiti provati nel fisico. Per questo ascensore, nello spirito di Don Orione, abbiamo lanciato un appello alla generosità dei genovesi che non si smentisce mai… e i lavori, con l’aiuto della Provvidenza, proseguono il loro cammino.

Chiudiamo questo articolo riportando da pagine già scritte i momenti storici, vivi, del nascere dell’opera di Quarto e non dimenticare la generosità e i sacrifici di tante persone travolte dall’entusiasmo di Don Orione.
“Un’altra opera sbocciava intanto a Quarto Castagna dove, per la generosità dei fratelli e sorelle Ravano, venne messo a disposizione del Piccolo Cottolengo un vasto terreno prospiciente il mare, con case coloniche e uliveti (70.000 mq.)
Si imponeva la costruzione di Castagna per far posto ad altre persone in necessità. Fu preparato dall’architetto ing. Maurizio Bruzzo un grandioso progetto, realizzato solo in parte. Il 21 aprile 1930 il Card. Minoretti – presenti le maggiori autorità cittadine - benedisse la prima pietra di un padiglione capace di 200 posti letto.
I lavori però non poterono subito cominciare, anche perché mancava la strada di accesso al terreno. Furono i chierici di Don Orione a costruire il raccordo per l’allacciamento con la via Romana, e la nuova strada venne dedicata al Beato Giuseppe Benedetto Cottolengo. Qualche anno dopo si dette mano al cantiere e furono ancora sacerdoti e chierici della Piccola Opera della Divina Provvidenza – fattisi già manovali nella costruzione del Santuario della Madonna della Guardia di Tortona – a prestare volenterosi la loro fatica come muratori, sotto le direttive del sig. Michele Bianchi “capomastro della Provvidenza”.
È in quegli anni (1936/37) che il beato martire Don Francesco Drzewiecki, ordinato sacerdote il 6 giungo 1936, venne inviato a Quarto Castagna, responsabile dei chierici ivi impegnati nel lavoro e nello studio
Lo spettacolo di quei singolari lavoratori in sottana riuscì a qualcuno di stupore, ai più di edificazione. Anche la stampa sottolineò con ammirata compiacenza il fatto: “A Quarto dei Mille – riferiva un foglio del tempo – vi sono i muratori in sottana: sono i Figli della Divina Provvidenza, i preti dei poveri, degli orfanelli, dei vecchi, dei malati, che disciplinano lo spirito con la santa fatica, alternano allo studio il lavoro manuale. Hanno i calli sulle mani, maneggiano picchi e badili; portano calcina, mattoni, cemento, cantando…”.


Altro brano di fonte diretta ci fa intravedere come la parola di Don Orione conquista i cuori dei suoi benefattori…
“Ben presto questa “tenda” (Via del Camoscio 2) fu insufficiente per soddisfare tutti i richiedenti e Don Orione ottenne in affitto dal Comune – nel 1925 – l’antico ospedale di San Girolamo di Quarto.
Tre anni dopo, il Comune, dovendo sistemare l’Ospedale di Pammatone, fu costretto a richiedere i locali dati in affitto per alloggiarvi i suoi ammalati. Il Sindaco, Seno Broccardi, offrì in cambio lo stabile municipale di via Bartolomeo Bosco. Il 25 marzo, festa dell’Annunziata,, celebrò così per l’ultima volta la Messa nella Cappellina che stava per lasciare. Nell’omelia non manca dal manifestare il suo rammarico nel dover lasciare, per forza maggiore, quella casa dal clima tanto adatto per i suoi ricoverati. Il rammarico di Don Orione è subito raccolto e al termine della Messa, mi avvicinai a Don Orione offrendo in dono un appezzamento di terreno, poco lontano.
Don Orione va immediatamente a visitare il posto, lo trova di suo pieno gradimento: era un vasto terreno prospiciente il mare con una casa colonica ed un grande uliveto…”.


“Amici di Don Orione”, Mensile del Piccolo Cottolengo di Don Orione – Genova,
N.3 – Marzo 2004


CONSULTA ANCHE:
DON ORIONE NEL MONDO
Il valore culturale della carità (Card. Tettamanzi)
Università popolare Don Orione a Genova

 

 

 

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