Don Sparpaglione ricorda come nacque la conferenza di Don Orione tenuta all’Università Cattolica di Milano, il 22.1.1939.
“LA C’È LA PROVVIDENZA!”
Don Sparpaglione ricorda come nacque la conferenza
di Don Orione tenuta all’Università Cattolica di Milano, il 22.1.1939,
e fa un bilancio critico sulla discussione
a riguardo del tema della “Provvidenza” nel Manzoni.
La Divina Provvidenza spiega tutto.
Essa è il dito di Dio nell’Universo e il balsamo della vita”.
1. LA CONFERENZA DI DON ORIONE ALL’UNIVERSITÀ CATTOLICA (1)
Il nostro Fondatore tenne due conferenze all’Università Cattolica del Sacro Cuore, al suo secondo ritorno dall’America. Ebbero entrambe un successo straordinario di pubblico e di consensi da parte di amici, benefattori, intellettuali, studenti, lavoratori e umili rappresentanze popolari, alle quali egli rivolgeva particolarmente la sua parola calda e affascinante.
La prima di esse ebbe per tema la Carità e fu un entusiastico commento del Vangelo e dell’Inno di San Paolo contenuto nella I Epistola ai Corinti. Non poté esimersi dalla seconda, qualche tempo dopo.
Garantisco che non lo faccio per vanità nel riferirne in prima persona, ma per mettere in luce alcuni particolari che onorano la virtù di don Orione. C’è forse del male se ne provo soddisfazione? Su, allegri!
Una mattina mi convocò nella sua stanzetta e mi disse: “Senti, vogliono che io parli di nuovo all’Università del Sacro Cuore e mi fissano per argomento La Divina Provvidenza”.
Gli Amici, con a capo il sen. Stefano Cavazzoni, la cui ammirazione per don Orione non sarà mai sufficientemente rilevata, intendevano: La Piccola Opera della Divina Provvidenza.
“Io – continuò Don Orione – penso di trattare sì della Provvidenza, ma nel Manzoni, e ho bisogno di un titolo che indichi l’argomento e i suoi limiti”.
Mai, Don Orione, avrebbe sopportato l’idea di parlare di sé e della propria congregazione.
“Il titolo è nei Promessi Sposi – io osservai - «La c’è la Provvidenza», e mi pare che esprima e compendi quanto lei desidera”.
“Benissimo! Ti do tre giorni di tempo per aiutarmi a prepararla, questa nuova conferenza”.
Superata una certa preoccupazione, composi nel tempo da lui fissato uno schema, sul quale egli umilmente si esercitò con assidua applicazione e, col solo testo dei Promessi Sposi alla mano, tenne il suo discorso nell’aula Magna dell’Università, la sera del 22 gennaio 1939. (2)
Nel viaggio di ritorno, in terza classe, incontrò nello stesso vagone i miei alunni del corso superiore dell’Istituto Dante, che avevano assistito alla conferenza (io non c’ero); e avviata la conversazione, domandò loro argutamente: “E così, vi pare che abbia recitato bene la lezione del vostro professore?”. Lascio a chi legge ogni commento. Certo la santità di don Orione splende anche in questi minimi dettagli.
Alcuni giorni dopo alla Casa del Paterno, che noi insegnanti del Dante eravamo soliti frequentare per motivi vari, don Orione mi diceva che il marchese Filippo Crispolti, l’esemplare critico e attivista cattolico et quidem manzoniano scelto, gli aveva osservato che si doveva parlare del romanzo non come “poema della Provvidenza”, come lui l’aveva definito nella conferenza, ma come “poema della Fede nella Provvidenza”.
Ma poi sorridendo conveniva con me che una simile distinzione e contrapposizione non reggeva, perché Provvidenza e fede nella Provvidenza sono due aspetti d’una medesima inscindibile realtà.
MANZONI GIANSENISTA?
Penso che il Crispolti intendesse soltanto dire che i Promessi Sposi non costituiscono un’apologia dei dogmi né una esaltazione specifica di essi, da lasciare ai teologi e magari ai sommi contemplativi. Questione quindi di sola proprietà di termini e semplice sfumatura. E forse egli voleva salvaguardare l’arte del capolavoro contro l’affermazione di Benedetto Croce che lo giudica opera oratoria e non di poesia.
A prescindere dalla questione dei generi, ormai superata attraverso la dichiarazione dello stesso Croce, che fece ammenda della propria critica negativa, e non meritando eccessiva considerazione le tesi forzate populisticamente dal Gramsci e dal Moravia, dobbiamo invece rimuovere dal pensiero come dalla vita del Manzoni l’accusa di giansenismo.
Prima di dare un giudizio in merito, occorre ricordare che il giansenismo è un fenomeno religioso di portata varia ed eterogenea rispetto al dogma cattolico. C’è un giansenismo ereticale che investe il pensiero teologico ed è condannato dalla Chiesa. E c’è un giansenismo più sfumato che non oltrepassa la linea dell’ortodossia, né costituisce un deterioramento della fede in alcun senso.
Francesco Ruffini in un suo voluminoso e serio studio afferma esplicitamente che è riscontrabile in lui una forte venatura di eterodossia in campo religioso, morale e politico.
Quasi nessuno degli altri critici osa tacciare il Manzoni di eresia, pur ammettendo “evidenti” infiltrazioni giansenistiche, mai però in fatto di dottrina teologica. C’è chi desume giansenismo dalla conversione dell’Innominato, ritenuta “un miracolo” della grazia “efficace ed irresistibile” (la predestinazione, quindi l’assenza del libero arbitrio da parte dell’uomo). Così pensa Achille Pellizzari. C’è chi si rifà alle tendenze giansenistiche dei due zelanti maestri spirituali del Manzoni neoconvertito, Eustachio Degola, genovese, e mons. Luigi Tosi, lombardo, nominato poi vescovo di Pavia; i quali avrebbero determinato le sue scelte. Ma sappiamo che il giudizio del Manzoni si tenne sempre libero e immune da qualsiasi plagio, e quanto alle questioni teologiche egli si affidò integralmente al magistero della Chiesa.
Leggere e meditare la sua lettera al sacerdote Antonio Cesari dell’8.9.1928, dove si scagiona dall’accusa (o diceria) d’essere legato alle opinioni del Quesnel e dei “suoi partigiani” (giansenisti). Per lui, “ogni dottrina opposta a quella della Chiesa è falsa a priori […] C’è il mezzo di non errare in ciò che è necessario sapere: credere cioè quello che la Chiesa insegna; qui so che ho ragione di sottoscrivere in bianco, qui credo a chi ha un carattere unico di certezza nel conoscere e di veracità nell’insegnare, una promessa d’infallibilità data da Chi è solo infallibile per Sé”.
Indiscutibile la sua ammirazione per Pascal e per i grandi Portorealisti, ma senza compromessi per la propria fede.
MANZONI E L’INFALLIBILITÀ DEL PAPA
Mentre noi chierici in Sacris al Paterno (dicembre 1925) ci preparavamo chi all’Ordinazione sacerdotale, chi agli Ordini maggiori o minori (voglio ricordare con me Orlandi, Del Rosso, Di Pietro, i due Parodi, Vigo, Ghiglione, Moncalieri, Piccinini), don Orione, che ci avvolgeva spiritualmente di commossa tenerezza, venne tra noi una domenica mattina nella sala dove ci riunivamo attigua alla cappella e rivolgendosi a me, nel corso d’una conversazione improntata a grande familiarità e confidenza, disse con quel suo tono arguto e affettuoso: “Il Manzoni, che aderì al dogma dell’infallibilità del Papa soltanto dopo la proclamazione (10. 7. 1870), se fosse stato uno dei vescovi presenti al Concilio Vaticano I°, avrebbe espresso voto contrario”. Io, sorridendo come se egli scherzasse, mi opposi a quella affermazione, citando ad sensum il brano della lettera ad Antonio Cesari, precorrente di 42 anni il Concilio Vaticano.
“Voglio vederla” – disse don Orione.
In due minuti corsi nell’aula dello studio comune, cercai “Manzoni apologista” di don Antonio Cojazzi, salesiano, e glielo presentai a pag. 151, dove è riportata la lettera al piissimo don Cesari con quest’altro brano conclusivo: “Con la Chiesa dunque sono e voglio essere in questo come in ogni altro oggetto di fede: colla Chiesa voglio sentire esplicitamente, dove conosco le sue decisioni; implicitamente dove non le conosco; sono e voglio essere con la Chiesa, fin dove lo so, fin dove veggo, e oltre”.
Ma don Orione non si diede per vinto, certo per consolidare la verità: “Qui si parla della Chiesa – disse – e non del Papa”.
“Benissimo, - replicai con giovanile baldanza – adesso introdurremo anche il Papa”. E lessi a pagina 159: “Scrive il figliastro Stefano Stampa: Manzoni sosteneva l’infallibilità del Papa, anche prima che fosse decisa dal Concilio Vaticano. Dichiarava infatti: Vorrei sapere chi mai ha messo in dubbio che Leone X non fosse infallibile nella Bolla contro Lutero”” (tra i 12 Inni Sacri da comporre figura anche “La cattedra di San Pietro”).
Qui don Orione, afferrato il libro, postillò, con tanta energia da incidere e strappare con la matita la pagina: “La più parte ieri e oggi”.
Chi volesse consultare il libro con l’autografo ne faccia ricerca tra i miei scartafacci e troverà che tutto corrisponde ad unguem.
Apparentemente la sua ostinata difesa d’una tesi così ardita (l’eterodossia del Manzoni) non si riuscirebbe a spiegarla a meno di considerarla un puro e semplice accorgimento dialettico per giungere più sicuramente alla verità. Ma io ci vedo, ora più di prima, il suo grande amore al Papa come motivo ispiratore. Cresciuto da fanciullo nell’atmosfera delle lotte e delle discussioni che avevano per oggetto e per bersaglio il potere temporale della Chiesa, si era consacrato risolutamente al servizio del Vicario di Cristo totaliter; secondo l’ideale che informò l’intera sua vita, fino a suggerirgli un voto di speciale obbedienza per sé e per i suoi religiosi più anziani.
Papalino d’un blocco granitico, vedeva nel dissenso dai criteri della Santa Sede un atto d’indisciplina e, pur senza estendere il concetto d’infallibilità alla questione romana (che interessa da un punto di vista storico e contingente e non già sub specie aeternitatis), riteneva un buon cristiano moralmente legato all’obbedienza anche in questa materia, che aveva rapporti così intimi con l’attività spirituale della Chiesa e che ad ogni modo metteva a prova la “fedeltà” di un credente. Del resto per conoscere il suo pensiero e i suoi sentimenti al riguardo, e prima della Conciliazione dell’11 febbraio 1929, basta meditare la preghiera di Ausonio Franchi da lui fatta sua in adesione totale.
D’altra parte conosceva la rettitudine, l’equilibrio morale del Manzoni, il più puro tra i cattolici nell’auspicare Roma capitale d’Italia e forse unico tra i liberali a possedere una fede religiosa così integra e profonda. Certo avrebbe preferito vedere il Manzoni assertore dei diritti della Chiesa, non solo nella da lui riconosciuta legittimità storica del potere temporale (Notizie storiche sull’Adelchi), ma anche in ossequio ai dettami politici di Pio IX.
Tornando a quei giorni prenatalizi soffusi di tanto gaudio, l’amabilità di don Orione verso di noi si manifestava in confidenze particolari. Una sera ci convocò tutti nella sua stanzetta e tirò fuori da certi cassetti alcuni astucci riccamente confezionati con raso e velluto, che custodivano una importante serie di medaglie del pontificato di Pio IX, affidata temporaneamente a lui come postulatore (o vice) della sua causa di beatificazione.
SUL CONCETTO DI PROVVIDENZA NEL MANZONI
Quanto alla vexata quaestio del giansenismo manzoniano che impegna, oltre il Ruffini, il Trompeo, il Pellizzari, il D’Ovidio, lo Scherillo, lo Zottoli, il Citanna, il Galletti, il Magenta, l’Omodeo, il Russo, il Momigliano, tutti i più o meno allineati su posizioni “giansenistiche”, ma in misura diversa e, per alcuni, impercettibile, sbaglia Ernesto Codignola che, pure escludendo ogni traccia ereticale nell’opera e nella vita del Manzoni, asserisce però come dimostrata “inoppugnabilmente la sua (del Manzoni) indipendenza e profonda ripugnanza ai motivi centrali del cattolicesimo post tridentino”. La vecchia tesi del Sailer condivisa da Eugenio Levi e dal Negri.
In queste visuali, tutt’altro che definitive e persuasive, viene coinvolta, almeno implicitamente, l’idea della Provvidenza. Né può essere diversamente, quando a interloquire sono studiosi di grande autorità e taglio critico, ma non sempre bene iniziati al discorso teologico e religioso, quindi morale, di differenti estrazioni culturali (storicisti, positivisti, agnostici, materialisti, marxiani,) con alcuni dei quali il dialogo potrebbe anche risultare impossibile.
Attilio Momigliano per primo definì il romanzo manzoniano “il poema della Provvidenza”, in ciò seguito dallo Zottoli, dal Belloni, dal Faggi, dal Fossi, mentre il De Lollis accoglieva la definizione, ma derivandone interpretazioni negative e fuorvianti. Per alcuni di questi critici, Nicolini, Moravia, Gramsci, l’idea di Provvidenza che regge la società costituisce il limite invalicabile del Manzoni credente e moralista, precluso a una interpretazione autentica e reale della storia, ma, almeno secondo il Nicolini, grandissimo in arte.
Si creano così equivoci e confusioni, come, in altro campo della cultura e in altre circostanze storiche, divenne oggetto di spietata rampogna la definizione di Pio XI su “L’uomo della Provvidenza”, e quella del card. Schuster su “la pioggia di grazie di santa Teresa di Lisieux” sui 200 ragazzi uccisi con le maestre nel bombardamento aereo di Gorla il 3 ottobre 1944.
Per De Lollis, la Provvidenza affermata nel romanzo è una “scoperta” del Manzoni, che nell’Adelchi appare ancora impregnato di pessimismo giansenistico: “Il vero accaduto viene sempre direttamente – egli dice – dalla Provvidenza. Dunque non da toccare o sostituire”. (Sarino Armando Costa – Giuseppe Mavaro, L’opera del Manzoni nelle pagine dei critici, Le Monnier, Firenze, 1962, Firenze, p. 250).
In queste discussioni sui rapporti tra Storia e Provvidenza si avverte un che di nebuloso, di opaco, senza possibilità d’una chiarificazione esatta sia sul pensiero del Manzoni, sia sul concetto di Provvidenza.
Il Manzoni, sotto il palese influsso del pio e grande Rosmini, definisce la Provvidenza “un ordine universalissimo il quale abbraccia la serie intera e il nesso di tutti gli effetti che sono e saranno prodotti da ogni azione e da ogni avvenimento, e comprende il tempo e l’Eternità” (Dialogo dell’Invenzione).
Ne consegue che la provvidenza, che tutto controlla, vuole o permette, non impedisce la libera azione dell’uomo, ma anche dal male ricava sempre il bene. “La Provvidenza – amava ripetere don Orione – sa scrivere diritto sulle nostre righe storte”.
Ciò che importa è di crederla operante per sperimentarne l’efficacia. Intera rimane la responsabilità nel male, come il merito nel bene da noi compiuto; ma i due termini: ordine voluto da Dio e libero arbitrio dell’uomo, sono da unificare nel concetto pieno di Provvidenza.
Per riassumere e concludere evitando equivoci, aporie, contraddizioni, antinomie, sofismi et similia (che ricorrono fatalmente quando non si lavora su principi indiscutibili, ma sull’aleatorio e sulle sabbie mobili di sistemi acefali, ignorando il valore e il significato della provvidenza, come realtà e come fede), mi riporto a due autori che, senza affastellare troppe cartelle sull’argomento dell’ortodossia manzoniana, fanno il punto giusto su di essa, con risultanze, a favore, ineccepibili.
A demolire la tesi “giansenistica” (al di là dei meriti di altri studiosi più di lui impegnati) contribuisce molto efficacemente Pio Bondioli con lo splendido volume Manzoni e gli Amici della Verità (Istituto di Propaganda, Milano).
A invalidare l’affermazione di un presunto assenteismo del Manzoni dalla Chiesa post tridentina provvede con la sua amabile limpidezza di stile mons. Cesare Angelini.
Lasciando alla ricerca di ognuno l’acquisizione delle prove addotte dal Bondioli, riferisco alcune osservazioni dello scrittore-poeta già rettore dell’Almo Collegio Borromeo e il più rappresentativo dei “devoti manzoniani”, tornato a Dio sul finire di settembre 1976, il giorno stesso in cui da Gerusalemme, col vescovo di Tortona Luigi Bongianino, io gli inviavo un affettuoso saluto.
“Il fatto più imponente nel mondo dei Promessi Sposi – scrive Angelini – è quello della Provvidenza […] il motivo che opera senza interruzione, il filo che non si spezza mai, e suscita, pur nei momenti più bui, una ridente speranza, una riposata fiducia. C’è sempre qualcuno lassù che vede e provvede, che sa quello che fa, e c’è per tutti, specialmente per i poveri. la solenne certezza su cui riposa la forza del libro; che prende perciò respiro ampio, movimento di poema”. Nulla di strano, anzi un fatto naturale, (aggiungo io) che le parole di due popolani semianalfabeti, Renzo e Lucia, fioriscano addirittura dal cuore e sulle labbra di un Papa, Giovanni XXIII, in alcuni suoi colloqui con la folla in attesa. Le grandi verità sono semplici e conquista di semplici.
“Fu detto – continua Angelini – che il modo di essere religiosi dei Promessi Sposi non appartiene al cattolicesimo, ma alla pietas d’ogni tempo e forma (Eugenio Levi). E niente è meno esatto. Il mondo manzoniano è naturalmente cattolico […]. Il cattolicesimo del Manzoni è così legato a un sicuro complesso di materia tridentina che è impossibile non vederlo” (Pagine critiche, p. 253).
Ad abundantiam voglio anche citare Natalino Sapegno tra i modernissimi, che ribadisce questa verità: “La morale cattolica la senti dappertutto, come un elemento e una luce delle cose e degli avvenimenti, una nota che li compie e li arricchisce, e non mai come qualcosa d’imposto o di sovrapposto, come una morale appiccicata ed estranea al movimento spontaneo del racconto"”(225).
Certo il Manzoni nel romanzo non fa (e non deve fare) l’apologista. Lo era già stato nella “Morale Cattolica”, che del romanzo forma il substrato, il fondo ideale, e tornerà a farlo nel “Dialogo dell’Invenzione” e bel “Saggio sulla Rivoluzione Francese”, composto nella senilità vegeta, attenta e straordinariamente vigile. Neppure può innalzare, in un romanzo storico e popolare, il canto alla Divina Provvidenza, dalla creazione alla redenzione e alla Glorificazione in Cristo dell’Umanità rinnovata. Ché non è questo il suo assunto, alla Milton o alla Chateaubriand.
Ma, torniamo all’Angelini: “Dio resta il Dio trascendente del cristo e della Chiesa: poiché ferme convinzioni religiose hanno avuto, in questo caso, la fortuna d’incontrare un’arte potente e ferma”.
Era questo certamente anche il pensiero di Filippo Crispolti quando osserva a don Orione: “Poema della fede nella provvidenza”, l’immortale romanzo.
Confratelli e Amici, religiosi e studenti: Perché – vi domando – perché don Orione amava tanto il Manzoni?
NOTE
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* Don Domenico Sparpaglione (1903-1992), orionino, fu per lunghi anni accanto al Fondatore dal quale ricevette sempre stima, affetto, stimoli all’impegno culturale. Professore, letterato e grande esperto del Manzoni, pubblicò tra l’altro La bisaccia di Fra Cristoforo, Ed. A.G.I.S., Genova, 1952; Elogio della carità. San Paolo, Manzoni, Don Orione, Edizioni Don Orione, Tortona 1968; Guida al Manzoni, Ed. Don Orione, Tortona. Scrisse la prima biografia di Don Orione giunta alla 9a edizione (Il Beato Luigi Orione, Ed. Paoline, Roma, 1998). Scrisse questo articolo per la rubrica “Giovani sempre!” della rivista “La Piccola Opera della Divina Provvidenza”, ma non venne mai pubblicato.
1. Manoscritto di Don Orione, Le lettere, Paravia 1947, p. 21.
2. Cfr. G. Venturelli, “La c'è la Provvidenza!”. Conferenza di Don Orione all'Università Cattolica di Milano, 22 gennaio 1939. Note su Don Orione e il Manzoni, “Messaggi di Don Orione” 5(1973) n.18.
Armida Barelli era presente alla conferenza di Don Orione e lasciò scritto questo ricordo. “Il 22 gennaio del 1939 Don Orione venne all’Università Cattolica e svolse una conferenza sul tema: «La c’è la Provvidenza!». Il titolo letterario destò un po’ di meraviglia in quanti conoscevano l’apostolo della carità, ma la meraviglia cessò appena l’oratore cominciò a parlare. Sì, parlava proprio l’apostolo della carità, il Sacerdote, l’uomo di Dio e parlava della Provvidenza come solo i Santi ne sanno parlare. >BR> Immaginavamo anche che alla fine egli avrebbe rivolto all’uditorio un appello invitandolo ad essere generoso verso il Piccolo Cottolengo che allora cominciava a sorgere a Milano; ma egli vi accennò brevemente alla fine, come cosa incidentale e secondaria. Quello che gli premeva mettere in rilievo era l’amore infinito e provvido di Dio per tutte le creature: tutto riceviamo da Dio, tutti abbiamo ricevuto da Dio e tutti dobbiamo dare a chi ha meno di noi, a chi non ha niente. La conferenza fu un inno alla Divina Provvidenza e il canto della carità.
Il giorno seguente Don Orione venne a visitare la sede del Consiglio Superiore della G. F.: visitò gli uffici, si interessò dei fini e degli sviluppi della nostra organizzazione, disse parole di lode e di incoraggiamento, benedisse dirigenti e impiegate dei singoli uffici. Quante avevano immaginato di trovarsi davanti ad una persona straordinaria videro un Sacerdote umile e semplice che aveva Dio nelle pupille”; in Don Luigi Orione, fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza, Emiliana Editrice, Venezia, 1940, p.49-50.