Questo sito utilizza cookie per le proprie funzionalità e per mostrare servizi in linea con le tue preferenze. Continuando a navigare si considera accettato il loro utilizzo. Per non vedere più questo messaggio clicca sulla X.
Messaggi Don Orione
thumb
Pubblicato in: Giovanni Paolo I nel ricordo di Don Diego Lorenzi ,

Il Segretario particolare, Don Diego Lorenzi, orionino, consegna in un memoriale la sua esperienza accanto ad Albino Luciani, prima patriarca di Venezia e poi Papa per 33 giorni. Ne esce un ritratto del “Papa del sorriso”, colto nel vivo della quotidianità e dei fatti accaduti, affascinante e imprescindibile per chi voglia conoscere e imparare la lezione di quest’uomo.

Il vivere quotidiano con una persona non solo ci fa cogliere quello che l’individuo è, esprime e pensa, ma spesso è rilevante per stabilire altri aspetti della personalità che a volte non hanno modo di venire fuori e di cui ci si può rendere conto solo con una frequentazione fatta di tempi più lunghi.
È l’avventura capitata a un sacerdote dell’Opera di Don Orione, a me, che per due anni e due mesi sono vissuto insieme con Albino Luciani, Patriarca di Venezia prima, S.S. Giovanni Paolo I poi.

Sono già usciti tanti libri (forse troppi) su quest’uomo che ha solcato il cielo della cristianità come una meteora. A questa immagine presa dal mondo astrale, ritengo di poterne accostare, senza forzature eccessive, un’altra evangelica. È di Gesù stesso, il quale parlando del Battista disse: “Giovanni era una lampada che arde e risplende e voi avete potuto solo per un momento rallegrarvi della sua luce” (Gv 5, 35).
Chi, incontrandomi, non conosce la mia storia, e non s’abbandona quindi in esclamazioni roche, mi dà – senza saperlo – un motivo di gioia. Quando invece la gente viene a sapere quello che è successo nella mia esistenza dal luglio del 1976 al settembre del 1978, rispondo, scherzando ma abbastanza convinto: nella mia vita ho fatto anche questo. Ho avuto la gioia, la fortuna, la responsabilità di stare vicino ad un uomo santo quale era Albino Luciani, servendolo con molta dedizione e molto rispetto per due anni a Venezia e due mesi scarsi a Roma.


COSÌ MI CHIAMÒ A FARGLI DA SEGRETARIO

Ho incontrato per la prima volta il patriarca Albino Luciani nel dicembre 1973, quando inaugurò una nostra istituzione per handicappati a Chirignago. A favore di quella fondazione, mesi dopo, avrebbe compiuto un gesto per il quale sarebbe stato applaudito da alcuni e criticato da altri. Mise all’asta il suo anello per devolverne il ricavato a vantaggio di quella nostra istituzione che faticava a muovere i suoi primi passi, essa stessa handicappata per mancanza di mezzi.
Nel 1975, i miei superiori dell’Opera di Don Orione mi mandarono quale cooperatore nella parrocchia di San Pio X che ci è affidata in Marghera. E lì, nel gennaio del seguente anno, incontrai nuovamente il patriarca Luciani, in visita pastorale alla comunità. Alla fine della prima giornata, gli diedi un passaggio fino a piazzale Roma. Durante il tragitto, tanto per dire qualcosa, avendo saputo che nel luglio successivo si sarebbe recato a Philadelphia per il Congresso eucaristico internazionale, osai dirgli: ‘Eminenza, siccome un po’ di inglese lo so, mi permetto offrirmi come accompagnatore e portatore della valigia’. La risposta ora non la ricordo. So che in breve arrivammo alla stazione e il discorso fu chiuso.
Alla fine di giugno di quell’anno, mi ritrovai con i sacerdoti della diocesi a Paderno del Grappa, dove si svolgeva l’annuale convegno di pastorale. Alla fine di un pranzo, il patriarca mi si avvicina dicendo: ‘Si ricorda della sua offerta di accompagnarmi a Philadelphia?’. Pensai in quel momento ad un rimprovero per la mia sfrontatezza. Ma subito egli aggiunse: “Io a Philadelphia non vado. Vorrei però, che lei venisse con me non a portarmi la valigia, ma per prestarmi il servizio di segretario particolare”. Rimasi muto per qualche istante e infine gli risposi: “Qui ci sono i miei diretti superiori. Se crede, ne parli con loro”. Ed egli subito precisò che la proposta i superiori già la conoscevano. A quel punto soggiunsi: ‘Nella mia vita mi sono costantemente lasciato guidare dagli avvenimenti, ritenendo che in essi era Dio che agiva, per disporre di me nel suo piano. Non le chiedo neppure un giorno per pensarci sopra: se vuole, accetto anche subito’. Così iniziò l’avventura di segretario particolare di Albino Luciani. Con molta onestà, oltre che semplicità, nel formularmi la proposta, il patriarca aveva anche soggiunto queste scarne parole: “Lei (mi dava infatti ancora del lei), accettando di essere mio segretario, avrà una vita monotona. Si dovrà interessare di rispondere al telefono, di lavorare alla macchina da scrivere, di sbrigarsela con i poveri che vengono a chiedere qualche cosa, di guidare l’automobile, di farmi da cerimoniere nelle funzioni religiose”.
Non mi disse, e neppure mi fece intendere, che sarei stato un segretario-filtro o suo rappresentante. Semplicemente gli sarei stato un familiare, un compagno di giornata, un commensale, col quale scambiare qualche parola.


DUE ANNI CON LUI A VENEZIA

Poco prima di essere eletto Papa, Luciani scrisse un articolo apparso su “Il Gazzettino” del 22 luglio 1978. Vi si legge: “Là, nel bel mezzo della strada, in ufficio, in fabbrica, ci si fa santi, a patto che si svolga il proprio dovere con competenza, per amore di Dio, lietamente, in modo che il lavoro quotidiano diventi non il ‘tragico quotidiano’, ma quasi il ‘sorriso quotidiano’”.
La sua vita di Patriarca, semplicissima e ritirata, si svolgeva tutta su questa base: lavoro, preghiera, udienze, incontri, qualche viaggio e visite pastorali. Si alzava alle 5.00 (e in Vaticano qualche mattina anche alle 4.30), dedicando subito un’ora e mezzo e forse più alla preghiera personale e alla meditazione. Alle 7.00 si concelebrava (sia a Venezia che in Vaticano). Alle 7.30 colazione, cui seguiva la lettura di alcuni quotidiani italiani. Subito dopo nello studio privato attendeva l’ora delle visite o l’inizio delle udienze. A Venezia riceveva indistintamente tutti quelli che venivano a parlargli e rispondeva personalmente a quelli che gli scrivevano. Alle 12.30 si pranzava. Timido e riservato nell’arco della giornata, a tavola parlava con le suore che, alternandosi, lo servivano.
Quasi ogni giorno, mentre una delle religiose ci portava la zuppiera del primo, egli diceva: “Cosa ci racconta, Suora?”, intendendo coinvolgere con rara delicatezza chi, senza uscire di casa, aveva lavorato per noi. Dopo pranzo, si concedeva un breve riposo e alle 14.30 era ancora nel suo studio privato, fino alle 20.00, quando si cenava. Alle 20.45 si ritirava nella camera da letto dove, ritengo, concedeva più tempo alla lettura che a preparare interventi, omelie o discorsi.
Recitava da solo il Breviario e il Rosario. Dava molta importanza alla preghiera frequente. Scrisse una volta: “La nostra vita deve essere una lampada, che fa chiaro; nella lampada la fiamma sono le buone opere: pazienza, dolcezza, carità verso Dio e il prossimo; la cera o l’olio, che producono la fiamma, è la preghiera. Le due cose non si possono separare”. La meditazione, l’esame di coscienza, la preghiera assidua, il vivere francescanamente fissando su Dio, unico e sommo Bene, il pensiero e il conversare con Lui, verificando ed elevando sotto il suo sguardo affetti e propositi per trasformare il tragico quotidiano in sorriso: questa fu la sua forza, perché “amare Dio è un viaggio con il cuore verso Dio”, come disse il 27 settembre 1978. “Viaggio – proseguì – anche misterioso perché io non parto se Dio non prende prima l’iniziativa”.
L’ho accompagnato in numerose visite e celebrazioni nelle parrocchie, nelle comunità religiose, in avvenimenti civili. La sua parola era in ogni caso semplice, ben misurata, sostanziosa, edificante. Quando poteva – e lo faceva abbastanza spesso, come avvenne anche durante le udienze generali da Papa – si serviva di brevi dialoghi con interlocutori improvvisati, bambini e ragazzi in particolare.
Un ricordo. Si era nel 1977, ed il Patriarca Albino Luciani era in visita pastorale a Caorle (Venezia). Nel pomeriggio, l’antico duomo romanico era pieno di alunni delle elementari. Ne chiamò sei nella zona dell’altare maggiore, poi disse ai tre maschietti: “Tu sei pentimento; tu sei ascolto; tu sei ringraziamento; ed a tre bambine: “tu sei offerta, tu sei comunione, tu sei memoria”. I sei, poi, dovettero ripetere il “nome” loro assegnato: successivamente, furono schierati in quest’ordine: pentimento, ascolto, offerta, memoria, comunione, ringraziamento. Il Patriarca, allora, rivoltosi a tutti, illustrava la ricchezza e la varietà della celebrazione eucaristica, che – soprattutto ai bambini – può apparire povera e poco attraente. Fu seguito con attenzione, tanto era convincente. Anche a me, quell’approccio fatto con la palese speranza di effetto duraturo, ha fatto e continua a farmi bene”.


PRIMA DELLA ELEZIONE

La sera del 6 agosto 1978, la notizia della improvvisa scomparsa di Papa Montini, era giunta al Patriarca al Lido di Venezia, dove si trovava da qualche giorno. Il mattino seguente rientrò in sede e, richiesto dal direttore del quotidiano locale di scrivere qualcosa che riguardasse il successore di Paolo VI, iniziò il suo articolo così: “Il cardinale Konig, arcivescovo di Vienna, ha detto poco tempo fa che, al prossimo conclave, il cardinale eletto dovrà essere costretto a suon di bastonate – in senso metaforico, s’intende – ad accettare l’elezione”. Mentre dattilografavo il manoscritto, dissi a me stesso: E chi potrà accettare percosse sulla schiena senza ribellarsi, se non un vero umile? E “humilitas”, non è da 22 anni il motto e la stella, alla luce della quale il Patriarca di Venezia vive ed accetta gli avvenimenti?
Pochi giorni dopo, il 10 agosto partimmo in automobile per Roma. Ospite dei Padri Agostiniani, a pochi passi della Basilica di San Pietro, il cardinale Luciani trascorse due settimane in grande raccoglimento. Accettò due inviti: domenica 21 era a pranzo nella Curia generalizia dell’Opera Don Orione e, la sera del giovedì successivo, celebrò nella cappella dei Religiosi della nostra Congregazione di Don Orione in Vaticano e si intrattenne a cena. Ricordo che si dilungò in un’omelia piuttosto lunga. Poi si intrattenne anche a cena.
Personalmente, Luciani indicò esplicitamente, di ritorno da un suo viaggio in Brasile qualche anno prima, un suo possibile candidato: il cardinale Aloisio Lorscheider. Probabilmente, vedeva in lui felicemente congiunte una mentalità fondamentalmente europea, sicura dottrinalmente, e le nuove acquisizioni spirituali e pastorali che quel Cardinale aveva maturato in America Latina.
Durante quei giorni non fu – come si disse malignamente di altri cardinali – vettore di consensi; neppure si pronunciò in favore di un futuro pontefice dalla “leadership tosta ed aggressiva”; né, infine, fu inventore di candidature. Seppe, invece, da un giornale di essere giudicato “scolorito”; io penso che, di fronte a questo aggettivo, egli avrà sorriso e si sarà detto, come tante altre volte: “Bisogna avere pazienza”. A scuola, una volta, c’insegnavano che il bianco (indubbiamente un colore sbiadito) risulta da tutti i colori dell’iride messi insieme e fatti girare vorticosamente. Non è così? Non sarà stato anche il lui il risultato dei doni dello Spirito Santo assommati insieme?


LA ELEZIONE

Mi trovavo in Piazza San Pietro quando il Card. Felici diede l’annuncio della elezione con la formula latina ripetendo due volte il termine “Dominum” prima di aggiungere “Albinum Lucani”. Nei primi ricordi questo è un particolare importante, perché nel mentre il card. Felici ritornava stranamente su quella parola “Dominum”, mi son trovato d’istinto in cuor mio ad incitarlo ad andare avanti, a completare la formula canonica: dài, su… sbrigati!
Parrà strano, eppure mi aspettavo quel nome ‘Albinum’. Perché? Il motivo è spiegato già in ciò che tentavo di dire prima. Me l’aspettavo per la somma di virtù cristiane che avevo riscontrato nell’uomo. E più volte mi ero trovato, in precedenza, a pensare che quella somma di virtù dovesse essere offerta in ostensione al mondo intero. Bisogna ricordare, infatti, cosa sono stati quei mesi del 1978: il travaglio, le vicissitudini, per esempio, del popolo italiano preso di mira dalle Brigate Rosse. Il caso Moro sanguinava ancora. Ebbene, tra me stesso ritenevo che se il mondo avesse voluto tirare il fiato, guardare un po’ in alto, distendersi un attimo e riprendere coraggio…, avrebbe dovuto guardare il volto di quest’uomo, mite e umile, avrebbe dovuto ammirarlo, gustarselo perché meritava, per ciò che egli era riuscito a costruire in risposta ai carismi che il Signore certamente gli aveva dato.
Della sua probabile elezione al soglio pontificio, indirettamente, mi ricordo di avergliene fatto cenno. Solo la mattina del giorno che poi sarebbe entrato in conclave, nel portargli in camera i soliti 3 o 4 quotidiani, gli dissi: “Eminenza, in questi due anni ho cercato di essere il più possibile discreto e non mi son permesso dirle alcunché. Mi consenta oggi di confidarle una previsione: domani, a quest’ora (che avrebbe poi coinciso press’a poco con il termine della seconda votazione), lei avrà già un gruzzolo di voti a suo favore, perché – aggiunsi – non potranno non far Papa il più santo”. Quando ebbi finito, egli mi obiettò: “È difficile misurare la santità degli uomini”. E soggiunse: “Comunque, se faranno me, rifiuterò”. Quest’ultima frase non la sentivo per la prima volta. Essa ricorreva abbastanza spesso quando qualcuno lo avvicinava per fargli delle previsioni che lo imbarazzavano. Al che egli era solito reagire con un sorriso e fermezza insieme, facendo appello alla costituzione di Paolo VI “Regimini Ecclesiae”, la quale prevedeva che l’eletto potesse rifiutare il peso propostogli. E lui, che nelle parole del Papa aveva fiducia, con tranquillità e convinzione, quasi esorcizzando l’eventualità fattagli balenare dinanzi, assicurava: “Se le cose dovessero andare in questo modo, dirò: cari cardinali, mi dispiace, sceglietene un altro”.
Eppure, poi, come disse nel suo primo famoso Angelus: “Giunto il momento, ho accettato…”. Disse proprio così. Chissà cosa successe in quei momenti in lui! Entriamo qui nel campo della Grazia.
Probabilmente per tentare di capire qualcosa, occorre riannodarsi alla tensione di fedeltà che pervase la vita intera di quest’uomo. Fedeltà all’invito di Dio, al cenno di Dio, che ogni volta lo trascinava dove egli certo non prevedeva. Ed anche in quell’occasione avrà accettato avendo visto nel voto dei cardinali la volontà di Dio su di lui.
Il suo atteggiamento interiore prevalse sulle considerazioni esteriori. Al Signore che gli chiedeva di volta in volta di fare l’insegnante o il superiore in seminario o il vicario generale o il vescovo, prima a Vittorio Veneto, poi a Venezia, infine a Roma…, egli deve aver risposto ogni volta: ‘Si, mi dispiace, ma accetto’. E mi piace immaginare che quando accettò di fare il Papa, Dio possa avergli detto: “Forza! Tieni duro solo per un po’ di tempo, solo pochi giorni. Non ti preoccupare”.


DOPO LA ELEZIONE

Nel tardo pomeriggio del 26 agosto, al balcone della Loggia di San Pietro apparve simpatico, sudato e armato di allegria, il nuovo Pontefice Giovanni Paolo I. La Chiesa riprendeva il cammino guidata da un veneto, che sorrideva come Giovanni XXIII. Il Papa del sorriso fu subito chiamato. Di lui, piacque immediatamente la semplicità, la modestia, virtù che anche la stampa si affrettò a mettere in luce.
Io, che ero in piazza San Pietro, pensavo a Dio, che, improvvisamente, aveva bruciato ad Albino Luciani, sulle rive del Tevere, i vascelli della riservatezza e del nascondimento, nei quali era vissuto come fossero il suo habitat naturale per decenni, e gli aveva intimato di prendere il largo, di consegnarsi al mondo intero, sfidando le incognite e le acque infide. Egli aveva obbedito e si era mosso – disse il giorno dopo - “tenendo la sua mano in quella di Cristo, appoggiandosi a Lui”. Sorprese tutti il doppio nome. Certamente sulla scelta di esso avranno influito fattori, che potrei definire affettivi. E, nonostante che i giornali si affrettassero a titolare: “sarà più Giovanni che Paolo”, dall’apostolo nato a Tarso mutuò non solo le parole ma soprattutto l’animo con cui egli si era presentato ai cristiani di Corinto: “Quando sono venuto tra voi, fratelli, l’ho fatto con semplicità, senza sfoggio di parole dotte…, mi presentai a voi debole, pieno di timore e di preoccupazione… Vi ho predicato ed insegnato non con abili discorsi di sapienza umana”.
Vidi per la prima volta Lucani nelle vesti di Papa la sera della elezione, verso le 21,30. Entrai nella sala dove egli si trovava a colloquio col cardinale Segretario di Stato, accostati. entrambi ad un grande tavolo. Quando mi vide, mi venne incontro e, mentre io m’inchinavo a baciare l’anello, mi disse: “Le tue parole si sono dimostrate esatte… Puoi andare a riposare. Ci vediamo domani”. È stata la sua prima giornata da Papa; la prima di altre trentadue, con le quali comporre un varco insuperabile ormai nella vita della Chiesa.
Subito, immediatamente dopo l’elezione, cominciò la sua attività ordinaria. Già al pomeriggio della domenica 27 mi disse: “Senti, c’è da scrivere a mons. Bosa per l’incarico di amministratore apostolico”. E messosi al tavolo di lavoro, vergò il testo, che poi io battei a macchina. Ma già verso le 17,30 si sentì chiamare dalla piazza da un gruppo di giovani (partecipanti alla tendopoli mariana del Divin Amore), e poiché questi insistevano, egli molto semplicemente si affacciò alla finestra a porgere un saluto. Quello stesso pomeriggio, poi, telefonò al vescovo di Belluno, e cominciò ad incontrare il card. Villot e mons. Caprio, sostituto della segreteria di Stato.
Poi vennero quei 33 benedetti giorni. Ricordo qui solo un episodio che mi sorprese. Giovanni Paolo I ricevette, qualche giorno dopo l’elezione, l’omaggio dei Cardinali nella sala del Concistoro. Io gli ero a fianco. Giunto il cardinale Bafile, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, il Papa gli disse: “Mi raccomando, Eminenza, la causa di beatificazione di Don Orione”. Probabilmente era a conoscenza che la causa era praticamente conclusa. Sarà Giovanni Paolo II, in seguito, a beatificare Don Orione nel 1980.


QUELLA MORTE DOPO 33 GIORNI

Mons. Antonio Mistrorigo, vescovo di Treviso, in una intervista, mise in bocca al patriarca Luciani un’espressione che deve aver raccolto in uno dei non pochi incontri avuti con lui, e che anch’io gli sentii dire in un’occasione: “A volte domando al Signore che mi porti con sé”.
Dio ci chiede, comanda e s’impone. Ma alla fine ripaga chi gli ha donato obbedienza, esaudendo le sue richieste. Alla nostra obbedienza, Dio risponde con la sua disponibilità, accettando quanto gli andiamo chiedendo. Non ci sarebbe da stupirsi che sia avvenuto così anche per Albino Luciani. D’altra parte, è solo a questo livello di fede che noi possiamo cercare risposta adeguata a un determinato genere d’interrogativi. Già, gli interrogativi, il più grande ed il più concorde che mai, fu quello che milioni di persone si posero in simultanea la mattina del 29 settembre 1978, verso le ore 7,30 quando la Radio italiana e 1'ANSA diedero l'annuncio della scomparsa, seguita dal bollettino medico, il cui testo ufficiale così iniziava: “Stamattina, verso le ore 5,50, il segretario (non se ne dava il nome) non vedendo il Santo Padre in cappella, dove era solitamente presente a quell'ora, entrò in. camera e lo trovò morto, in atteggiamento di uno intento alla lettura, etc.”.
Le reazioni le venni a conoscere nei giorni successivi con una rapida scorsa alla stampa nazionale, ma non dissimili saranno state le altre, nei vari continenti. Per me, a mente calda e comprensibilmente scossa allora, ma anche in seguito, non fu una forzatura né una soluzione semplicistica e neanche un affrettato "chiudere la partita", il ritornare a quel suo domandare a Dio affinché lo portasse con Sé: richiesta che - a mio parere - doveva essere diventata insistente per non dire petulante, data la grande confidenza che esisteva tra lui e Dio, già dai primi giorni seguita all’elezione. Come gli avrà risposto l'Eterno? Senza interventi particolari, o visioni o messaggi angelici, ispirandolo nelle quattro catechesi dei successivi mercoledì a ricordare ai presenti ed ai lontani dalla sala Paolo VI altrettante virtù di matrice cristiana: l’umiltà, la fede, la speranza e la carità; “amare – concludeva - è un viaggio anche misterioso perché io non parto se Dio non prende prima l’iniziativa”. E Dio la prese “quando il silenzio fasciava tutte le cose”, dice la liturgia nella notte di Natale.
Un drammaturgo veneziano, di poca fama, ha immaginato che un messaggero divino, bussò alla porta della camera di Papa Luciani e gli disse: “Dio ti ha esaudito e ti aspetta, seguimi”. E uscirono insieme, senza fare alcun rumore. Gli occupanti del palazzo apostolico, le guardie svizzere e gli agenti di vigilanza in servizio fino alle 5,30 avrebbero potuto annotare: “Notte tranquilla, neanche una battito di ali di natura sospetta”.
Ma così dicendo, ignoro quelle che si chiamano cause seconde, di cui Dio può essersi servito prima di inviare in terra il messo celeste. Ecco, allora, il momento per ricordarle. Dopo le udienze di quella giornata - l’ultima delle quali al Card. Segretario di Stato Villot – eravamo a tavola per la cena, che egli iniziò, già seduto, dicendo a noi due segretari: “Strano… sto sentendo delle fitte al petto… noto tuttavia che stanno riducendosi per intensità”. La mia sorpresa fu condivisa da Mons. Magee che si premurò di dire: “C’è sempre un medico di guardia a disposizione, nulla costa convocarlo”. Fummo dissuasi dal farlo e – devo aggiungere per correttezza, quasi per scusa – che mai in passato, con lui, mi ero permesso di contraddirlo. La mia inesperienza, poi, di sintomi premonitori di problemi cardiaci legati a quelle fitte, giocò una parte notevole, nel proseguire della cena.
Terminata la cena, e dopo che ebbe un colloquio telefonico con il Cardinale di Milano, Giovanni Colombo, lo accompagnammo in camera da letto e padre Magee, non dimentico di quanto dettoci a tavola, gli indicò una peretta che pendeva sulla testiera del letto dicendo: “Santo Padre, se stanotte Le servisse un aiuto qualsiasi, premendola, potrà raggiungerci”. Si mostrò persuaso e (lo costatammo al mattino seguente) lo lasciammo alla lettura di un suo scritto risalente agli anni in cui era vescovo di Vittorio Veneto. Comprensibile per me, conoscendone le abitudini: era la notte tra il Giovedì e il Venerdì ed urgeva trovare uno spunto per l’Angelus della Domenica ormai prossima. Ecco i fogli ai quali si accenna nel comunicato citato sopra.
Anch’io mi ritirai nella mia camera nell’appartamento pontificio. Il mattino dopo avrei dovuto partire per il Veneto per celebrare un matrimonio e così dedicai quel momento di calma per preparare alcuni appunti per l’omelia.
Quanto avvenne il mattino seguente ormai è cronaca e storia a tutti conosciuta. Io fui svegliato da Suor Vincenza Taffarel, la quale avendo notato che il Papa non aveva ritirato il vassoio con il caffè lasciato fuori della camera, aveva forse bussato e socchiuso la porta scoprendo che il Papa era morto. Accorse alla mia stanza: “Venga, venga che è morto il Papa!”. Accorsi alla camera del Papa. Mancavano 5 minuti alle 6. C’era già l’altro segretario Magee. Dopo un attimo di smarrimento fu subito chiamato per primo il Card. Villot e poi prese in mano lui la situazione. Accorsero altri ecclesiastici di Curia, il medico Buzzonetti che intonò la Salve Regina, la nipote Lina Petri che lavorava in Sala Stampa vaticana.
Erano passati appena 50 giorni dalla morte di Paolo VI e tutte le procedure legate alla sede vacante furono attivate dal Card. Villot, che fu il primo ad entrare nell’appartamento privato. Fu abbastanza facile rivestire il Santo Padre con i paramenti sacri, prima che verso le 12 venisse trasportato nella sala Clementina. Padre Magee ed io fummo invitati cortesemente a lasciare libero l’appartamento dovendo essere apposti i sigilli a tutte le porte; il futuro eletto sarebbe stato il primo autorizzato a toglierli.

IL TEMPO DI UN SORRISO

Il suo pontificato durò solo 33 giorni. Il tempo di un sorriso.
Il Cardinale Albino Luciani sulla cattedra di Pietro fu per molti una sorpresa. Le sue prime mosse da Papa furono tutte improntate alla più semplice umiltà. Dalla loggia di San Pietro, il giorno seguente l’elezione, lasciò da parte il “Noi” maiestatico, e iniziò a raccontare con tono famigliare: “Ieri mattina io sono andato alla Cappella Sistina a votare tranquillamente. Mai avrei immaginato quello che stava per succedere…”. Non volle portare il “triregno”. La prima solenne cerimonia non volle fosse chiamata “intronizzazione” ma “inizio del servizio pastorale”. Quando un Prelato vaticano si presentò per chiedergli la forma del suo stemma, istintivamente egli rispose: “Lo stemma? Ma sono cose da medioevo”. Poi, accettò uno dei tre bozzetti preparati in fretta per lui.
La prima solenne cerimonia non volle fosse chiamata “intronizzazione” ma “inizio del servizio pastorale”. Quasi con ingenua dolcezza si intratteneva con i fedeli nelle udienze generali, intrecciando dialoghi, ricordi di vita quotidiana e buona dottrina come farebbe ogni buon catechista o parroco. Ricercò l’ascetica della semplicità e della concretezza. Un giorno era sul giardino pensile del Palazzo apostolico, in Vaticano. Fece una sosta per guardare il panorama di Roma lasciando gli appunti di un discorso importante su un tavolino. Una folata di vento glieli seminò sui tetti sottostanti. “Aiuto!”, esclamò sorridendo. E poi, a Suor Vincenza accorsa, aggiunse: “Vede, Suora, la fine che fanno le parole… anche quelle del Papa. Sono i fatti che contano!”. Anche un po’ d’ironia, in questo genere di fatti può far bene.
Ricordo che il patriarca Luciani, un giorno, mi disse: “Quand’ero sacerdote e predicavo, la gente osservava che nelle prediche non dicevo nulla di particolarmente interessante. È bastato che diventassi vescovo e portassi una mitria in testa, e subito quelle stesse prediche erano trovate belle, e c’era chi osservava: senti come parla bene, questo vescovo…”.
Ricordo ancora un gesto di squisita delicatezza verso la mia congregazione. Il 29 agosto di quell’anno 1978 avrebbe dovuto presiedere le celebrazioni al Santuario della Madonna della Guardia in Tortona. Non potendovi intervenire, inviò un suo messaggio autografo dicendo: “Spiacente di non potere in persona venerare la Madonna a Tortona, come previsto, invio una grande benedizione a Mons. Vescovo e alla città. Roma, 28.8.1978”.

UN SORRISO CHE VENIVA DA LONTANO

C’è stato chi ha ipotizzato un “segreto” del sorriso di Luciani. Questo sorriso ha rappresentato un fatto nuovo, un tratto inedito della personalità pubblica di un Papa, ma era un tratto molto noto e abituale della personalità di Lucani.
Ho avuto modo di rivedere molte foto del Patriarca apparse su "Gente Veneta", il settimanale cattolico di Venezia, e scattate tra il 1971 e il 1978 e ho potuto ancora una volta costatare come il sorriso sulle labbra di Albino Luciani fosse una costante anche prima dell’agosto del 1978. Ciò che forse, al riguardo, va notato è che già nel suo primo apparire sul balcone esterno della loggia vaticana, più che un sorriso, era un riso aperto, aperto su 360 gradi: si dice così? La qual cosa a me sembrava costituisse un aspetto assolutamente nuovo e sconosciuto prima. Questo fatto gli ha procurato quel titolo di “Papa del sorriso” che nessuno mai gli toglierà e che io condivido solo in parte, perché può essere un modo, anche involontario, ma comunque assai restrittivo di giudicare il pontificato di Luciani.
Non possiamo non rilevare, infatti, come oggi il nostro ridere sia per lo più frutto di sguaiatezza o di scempiaggine, come anche può risultare semplicemente una posa, da assumere per dovere. Ritengo invece che, per valutare più propriamente quest’insolito aspetto di Giovanni Paolo I, sia necessario porsi su un’altra lunghezza d’onda, quella che ha consentito un’intesa spontanea, immediata della folla di tutto il mondo col nuovo Papa.
Ricordo, al riguardo, il commento di un giornalista americano, menzionato dal card. Baggio, in una sua conferenza del 1979, in seguito alla morte di Papa Luciani e in previsione del successivo conclave: “Non aveva alcuna importanza che il Papa che si stava per eleggere fosse italiano o no, diplomatico o pastore, conoscitore o meno di lingue, liberale o conservatore; nemmeno contava che fosse un erudito e nemmeno che fosse un santo: bastava che sapesse sorridere. Solo un uomo così avrebbe incarnato la visione cristiana della speranza”. Ecco in queste parole mi pare di riconoscere l’interpretazione più vera ed impegnativa del sorridere del Papa Giovanni Paolo I.


DISCRETO

Luciani, per quel che lo riguardava, amava rimanere nascosto, non osservato. Ciò gli succedeva in treno, ed era contento quando poteva tornare per esempio da Roma, studiando e lavorando, senza essere riconosciuto. Per questo, provvedeva a sfilarsi l’anello e mettere in tasca la croce pettorale, rimanendo semplice prete in mezzo agli altri.
La stessa cosa, talvolta, gli capitava anche in vaporetto. Poteva succedere d’incontrarlo, da solo, lungo le calli che procedeva lestamente. Sì, perché – e questo è un aspetto che pochi conoscono – il patriarca Luciani aveva costantemente fretta nelle sue cose. Pur non arrivando mai in ritardo, si faceva fretta per partire e, pur provvedendo con scioltezza a quanto doveva, era sollecito nel rientrare. Poteva succedere, ripeto, di vederlo incedere con passo frettoloso, rasente il muro, raschiando quasi la veste alle spalle… Se poteva non apparire in mostra, preferiva.
Un altro esempio. Se si passano in rassegna i numeri de “L’Osservatore Romano” usciti in concomitanza alla celebrazione del Sinodo del 1977 sulla catechesi, non si troverà riportato nessun suo intervento pubblico. Eppure, egli consegnò un contributo di quattordici cartelle alla segreteria del Sinodo; e un giorno mi capitò di sentirgli dire che, in diversi punti delle sintesi emerse a conclusione del Sinodo, aveva trovato l’eco anche del suo contributo.
Quando andava nelle parrocchie era cordiale e semplice con la gente, ma cercava di non arrivare mai troppo prima o di fermarsi dopo. Per le visite pastorali accettava tutti gli impegni che i parroci gli proponevano. Ecco, diciamo che era schivo, molto schivo. Riascoltando le registrazioni dei suoi discorsi, all’Angelus o in altre circostanze, si potrà cogliere in taluni punti un certo tremolio della voce, dal quale però immediatamente si riprendeva. È probabile che il fatto vada correlato allo spettacolo di persone che aveva dinanzi a sé. Non è infatti che lui amasse i bagni di folla. Così, l’emozione l’ha preso più di qualche volta. Ma occorre anche osservare che di fronte alla verità che andava detta e che egli riteneva fosse necessario affermare, non c’era timidezza che lo imbavagliasse”.


SEMPLICE

Il nuovo Papa, vicinissimo al cuore ed all’amore di San Paolo, utilizzò subito un parlare semplice, colorito, arguto ed immaginifico, che gli conquistò subito le simpatie degli ascoltatori. Soprattutto gli indotti furono entusiasti della mancanza di retorica ed enfasi, cui ci hanno abituato politici, amministratori ed agitatori di varie estrazioni.
Poniamoci, allora, alla ricerca del perché della sua scelta a favore di un linguaggio puntigliosamente quotidiano ed essenziale. Ho scelto alcuni suoi testi. Nel 1961, già Vescovo da tre anni, confessava: “Ho commesso anch’io in gioventù peccati di forma alata, di lirismi, di magniloquenze verbali… Poi mi sono convertito e adesso cerco di emendarmi e fare penitenza dei miei trascorsi”.
In un’altra occasione: “Alcuni vescovi somigliano ad aquile, che planano con documenti magistrali ad alto livello…; io appartengo alla categoria dei poveri scriccioli, che sull’ultima rama dell’albero ecclesiale squittiscono soltanto e cercano di dire qualche pensiero su temi vastissimi”. La scelta di scrivere sul rametto “Il Messaggero di S. Antonio” un articolo quasi ogni mese, fu criticata con varie argomentazioni. Egli le ascoltò, poi continuò ad insegnare da quel pulpito popolare, perché preferiva parlare (e cito parole sue) “alla povera gente” e si augurava che questa, “assieme alle ricette di cucina, potesse trovare anche quelle evangeliche”.
Ritorna, ancora una volta, la virtù sulla quale Luciani lavorò, per farsi trovare sempre all’ultimo posto. Ma da esso lo scomodarono la prima volta nel 1944, quando lo elessero Vicario generale di Belluno e Feltre, e soprattutto, quando venne promosso Vescovo di Vittorio Veneto: “Me ne sarei stato tanto volentieri in mezzo ai libri” ripeteva spesso, ma dovette ubbidire. Giovanni XXIII volle personalmente consacrarlo vescovo e la cerimonia ebbe luogo nel dicembre 1958: subito dopo, lo ricevette in udienza. Sentiamo Luciani, che racconta: “Lei, Monsignore – gli disse Papa Roncalli – , viene dalle cattedre di teologia: adesso però metta al primo posto l’attività pastorale. Si tenga basso e parli semplice”.
Quando, nel pomeriggio del 26 agosto 1978, Dio chiese a Luciani il più grosso sacrificio, di sedere sulla cattedra di Pietro a Roma, Egli accettò sulle sue fragili spalle il peso del Pontificato con un sì che portava, in quel vespro di sabato un timbro mariano: c’era, in esso, tutto l’“Ecce Ancilla” ed il “Fiat” della Madonna. Ma c’era anche la risposta di Pietro, che avremmo sentita nella liturgia pre-festiva alla lettura del Vangelo: “Signore, lo sai che io ti amo”! Tre giorni dopo, Giovanni Paolo I disse ai cardinali: “State vicino a questo povero cristo, diventato Vicario di Gesù Cristo”.
Bisogna, comunque, stare attenti a non banalizzare la sua semplicità nel tratto e nel parlare. Ad osservare bene, essa era un mezzo assai efficace per rendere tutti partecipi – anche i piccoli e i meno dotti – della sua vasta cultura. E questa, a sua volta, era un mezzo per riproporre le grandi verità di Dio. Una santa astuzia e una evangelica furbizia non lo hanno mai abbandonato, anzi, lo hanno aiutato a vedere presto, largo e lontano, sia persone che avvenimenti. Fu un Vescovo, un Patriarca e un Papa dotto, semplice, ma disincantato e astuto! In tempi nuovi, esaltanti e difficili, come il nostro, ci vogliono uomini così fatti e responsabili.

MITE E UMILE

San Paolo scrivendo agli Efesini, raccomandò: ‘Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore, maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi’. Nel vivere quotidianamente accanto a Luciani, ho potuto notare che quest’uomo aveva preso queste parole come programma, come meta raggiungibile di vita cristiana, sacerdotale, episcopale. Pian piano, stando con lui, sono venuto a scoprire che quelli che Paolo chiama i doni dello Spirito Santo, sono stati per Luciani lo scopo della sua esistenza cristiana, sacerdotale, episcopale. Un prendere sul serio Cristo quando avverte: imparate da me, perché io ho mitezza e umiltà.
Quello che Gesù qui prospetta è più di un consiglio, è un ordine. Dice infatti: ‘imparate da me’. Stando con Albino Luciani, ho potuto ammirare soprattutto questo: il suo porsi semplicemente alla sequela di Cristo, mite e umile di cuore. Che se poi sul significato dell’umiltà del cuore gli esegeti possono accapigliarsi, non ritengo che ciò possa avvenire su quello di mitezza. Essa è una virtù umana della quale assai poco si parla, eppure è così immediata, così recepibile dagli altri.
Senza dubbio questa è la lezione che ho appreso da Albino Luciani e che, molto probabilmente, finché campo mi rimarrà davanti, senza che la possa rimuovere. Ormai mi trovo a dar poco credito ai non rari maestri che salgono su tribune anche insigni, e che disquisiscono magari sulla promozione e sulla liberazione dell’uomo, mentre inciampano su questo gradino dell’umiltà e della mitezza. Sì, lo ammetto: ormai sono condizionato da quello che ho visto.
E il mio modo di ragionare può riuscire anche sciocco, ma sono persuaso che, a fatti avvenuti, non si possa non cogliere nel disegno di Dio, allorché egli scelse il mite ed umile Albino Luciani, l’intenzione di indicare una strada evangelica irrinunciabile per i cristiani di oggi. Ripeto: quando mi capita di vedere qualcuno, fedele o anche ecclesiastico, che non è mite e che non è umile, mi chiedo: ma questo dove vive? Così, come dopo la scomparsa di Luciani mi sono sorpreso più volte a pensare che la sua vita e la sua morte sono servite davvero a poco, se continuiamo a fare discorsi di arrivismo e di carriera.
Quello che vidi in lui nei due anni che gli fui accanto a Venezia continuò con tutta naturalezza anche nei 33 giorni trascorsi in Vaticano come Papa, in stretta coerenza con se stesso e con l’intera impostazione della sua vita. Ritengo che non per caso il tema della prima udienza del mercoledì sia stato l’umiltà. Se lei prende il testo di quel discorso, potrà notare che ad un certo punto il Papa dice: “bassi, bassi”; ed io ricordo che accompagnò quelle parole con il cenno della mano. Il medesimo tema lo possiamo riscontrare nel testo del secondo Angelus, quello pronunciato domenica 3 settembre, qualche ora prima di dar inizio solenne al suo pontificato.
Sono certo che chi si trovava in quel momento in piazza San Pietro non poteva non sentire accapponarsi la pelle. Quel giorno la Chiesa celebrava San Gregorio Magno, e Giovanni Paolo I ricorda che questo suo predecessore non voleva essere eletto Papa, al punto che per farlo accettare dovette intervenire anche l’imperatore. E riporta dei passi di due lettere di Gregorio, scritte una volta accettata l’elezione a Papa. Il primo appartiene ad una lettera indirizzata all’amico Leandro, vescovo di Siviglia: “mi vien da piangere, più che parlare”. E alla sorella dell’imperatore, Gregorio scrive: “l’imperatore ha voluto che una scimmia diventasse leone”. E subito Luciani aggiunse: “Si vede che anche a quel tempo era difficile fare il Papa”. Durante quell’Angelus mi trovavo inginocchiato dietro al Papa che parlava dal balcone dello studio, e tra me pensai: qui c’è tutto Luciani. Con quella citazione, che a non pochi dovette risultare alquanto strana, egli indirettamente ci voleva dire: quello che è avvenuto mille e cinquecento anni fa per Papa Gregorio, oggi si riattualizza. Non più l’imperatore, ma Dio ha voluto che una povera persona come me diventasse Papa. Humilitas, dunque, sì nello stemma episcopale, ma più estesamente nella vita di Luciani”. UNA LEZIONE INDIMENTICABILE Quel mattino dopo la morte di Papa Luciani, uscivo anch’io con poche valige e tanti ricordi ed un cumulo di esperienze spirituali ed umane che tornando in Congregazione (la Piccola Opera di Don Orione) mi hanno tenuto e mi tengono ancora buona compagnia. Ma la più discreta ed illuminante è quella di Albino Luciani che, nel luglio di due anni precedenti, mi aveva chiesto – in un testo autografo - di prestargli per un po’ di tempo il servizio di segretario particolare. Due anni e due mesi, possono essere riassunti in un po’ di tempo. Non il tempo di un sorriso, ma di una lezione da riproporre ancora alla cristianità ed all’umanità. Pare che ce ne sia bisogno.



Allegato

DON ORIONE STRATEGA DELL’AMORE

Appunti del discorso del Patriarca Albino Luciani pronunciato a Venezia - Ca’ Giustinian, il 9 dicembre 1972.

La calda e scintillante commemorazione dell'On. Bargellini ha fatto rivivere Don Orione davanti a noi. Fanciullo, egli aiuta il padre a selciare le strade; adolescente, sta un po' coi francescani, un po' con Don Bosco, entra in seminario, giovane chierico diventa fondatore prima ancora che prete. Fondatore con un primo ragazzo piangente allogato in un solaio: prete “facchino della Provvidenza”, che arriva talvolta a casa senza le scarpe donate ai poveri; che viaggia sui treni senza orologio, con zoccoli da campagnolo, col cappello dai riflessi verdastri.
Parte di quel denaro, donato due volte e scivolante, è arrivato, attraverso le mani sue e dei successori, per diverse vie, alla diocesi di Venezia. Nel 1919 al vetusto Istituto San Girolamo Emiliani alle Zattere; nel 1921 all'Istituto Berna trasferito poi e ingrandito a Bissuola; nel 1922 all'Istituto La Fontaine del Lido; nel 1923 all'Istituto Ludovico Manin a Lista di Spagna; nel 1956 a Marghera con la parrocchia San Pio X e opere annesse (Casa del lavoratore. oratorio, asilo, Centro per le operaie); ultimamente a Chirignago con la Fondazione Bisacco-Palazzi per subnormali e tarati mentali.
La diocesi di Venezia esprime a mio mezzo la sua profonda riconoscenza per tante opere di bene a favore del popolo, di giovani, studenti e operai. A favore di tutti noi sta poi la vita luminosa di Don Orione, la sua posizione esemplare davanti a Dio, ai suoi fratelli poveri, alla Chiesa ed a Venezia.
Noi veneziani mai potremo dimenticare l'affettuosa stima, di cui circondarono Don Orione San Pio X e il Card. La Fontane. Ci staranno innanzi specialmente le seguenti sue righe: “Ed io vi dico, o figliuoli miei; se siete a Venezia e volete fare del bene, fatevi veneziani il più che potete, e fin che si può, e ciò fate per la carità di Gesù Cristo; e fatevi veneziani per meglio riuscire ad educare e salvare gli orfani veneziani. Anzi, quando vi sia occasione, esaltate Venezia, che veramente merita e sempre fu cattolica… E vedrete che farete del bene”.

Lascia un commento
Code Image - Please contact webmaster if you have problems seeing this image code  Refresh Ricarica immagine

Salva il commento