Un importante capitolo di storiascritto durante i turbinosi tempi delle persecuzioni razziali contro gli ebrei. Numerosi religiosi e case della Piccola Opera della Divina Provvidenza si mobilitarono per salvare gli ebrei.
Cenni anche sui rapporti di Don Orione con gli ebrei.
LINKS sul tema:
Minerbi: grande scultore del Novecento, ebreo nelle case orionine
Giuseppe Sorani: un ebreo in convento
L’importanza della “memoria”
Quando le truppe sovietiche, il 27 gennaio 1945, arrivarono presso la città polacca di Oświęcim (più nota con il suo nome tedesco di Auschwitz), scopersero per prime il tristemente famoso campo di concentramento liberandone i pochi superstiti. La scoperta di Auschwitz e degli altri Lager nazisti e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono al mondo l'orrore del genocidio nazista. Ci fu subito la preoccupazione di fotografare, di raccogliere documenti per documentare, per ricordare. Evidentemente non fu per alimentare nuovo odio contro qualcuno, ma per dire: è tutto vero, guardate a che punto siamo arrivati, mai più! Questo è anche lo scopo voluto dalla legge che istituì il Giorno della Memoria: “conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere”. [1]
Lo sterminio, operato negli anni del nazismo, ha colpito diverse categorie di persone, vari popoli, molte nazioni. È indubbio che il prezzo di gran lunga più alto pagato fu quello del popolo ebreo, che non solo fu sterminato ma si volle eliminare in quanto popolo (Shoa’h). Questo è lo specifico orribile della shoah. Il motivo razziale è quello oggettivo ed evidente, ma ce ne furono altri di tipo religioso ed economico non meno determinanti.
Continua oggi un’ipersensibilità civile e anche politica a tutto ciò che sa di razzismo antiebraico. È esagerata? “El que se ha quemado con leche, ve la vaca y llora”. Questo detto spagnolo l’ho ascoltato tante volte in Argentina: chi si è scottato con il latte, quando vede la mucca piange. La ferita della Shoah è impressa profondamente nella memoria e nella sensibilità personale e collettiva degli ebrei e del mondo civile migliore. Al minimo accenno concreto di offesa, di ostilità scatta una reazione fortissima, ben comprensibile. E necessaria.
Il “giorno della memoria” favorisce una terapia preventiva
Il Parlamento italiano, con la legge 211 del 20 luglio 2000, ha stabilito che “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, ‘Giorno della Memoria’, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.[2]
Il giorno della memoria ha il duplice scopo di ricordare le vittime “nonché coloro che, in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. In quegli anni tenebrosi ci furono pagine di solidarietà umana, di ragionevolezza e di carità, scritte contemporaneamente ai terribili fatti di morte, per proteggere la vita degli ebrei e di altri minacciati che costituiscono piccole ma potenti luci di civiltà. Il contrasto tra tenebre e luci, tra odio omicida e fraternità salvatrice, educa a quella quotidianità della responsabilità, personale e civile, nella lotta tra bene e male, tra vita e morte.
“De re nostra agitur”
La frase latina che ci ricorda che “si tratta di cosa nostra”, che ci riguarda tutti. L’antisemitismo riguarda il rispetto dell’uomo in quanto tale, a prescindere dalla sua identità di popolo, di cultura, di religione e di politica. Accettare o anche solo essere indifferenti all’antisemitismo e a qualsiasi forma di odio organizzato significa dire “si può”, mentre la memoria e l’indignazione dicono “mai più”.
Aggiungo ancora una considerazione. L’antisemitismo tocca anche noi cristiani, a volte come protagonisti (sempre meno!) e a volte come destinatari. Il cardinale Georges Cottier ha giustamente affermato che “l'antigiudaismo è di essenza pagana ed è, nella sua mira più profonda, un anticristianesimo”. Israele fa parte della "storia della salvezza". Che Gesù fosse ebreo e che il suo ambiente fosse quello ebreo non è un fatto contingente, culturale. Fa parte del mistero dell'incarnazione. È un evento soprannaturale come lo è la elezione del popolo ebreo quale popolo di Dio e l'irrevocabilità della chiamata e dell'amore di Dio per esso. È a questo livello di "soprannaturalità" che si pone il rifiuto dell'antigiudaismo da parte dei cristiani: "de re nostra agitur". Ci riguarda.
Il tema specifico del nostro ricordo è “Don Orione e la Shoah”. Ci occuperemo degli anni che vanno dal 1938 al 1945. Il 15 luglio 1938 fu pubblicato il Manifesto della razza e qualche mese dopo furono emanate le leggi razziali fasciste (leggi, ordinanze, circolari). Esse furono rivolte prevalentemente contro gli Ebrei. Ebbero una più dura applicazione dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando i tedeschi presero in mano la situazione italiana e giunsero alla deportazione in massa, specialmente degli ebrei della comunità di Roma e di altre città d’Italia. Le leggi razziali furono abrogate il 20 gennaio 1944.
Don Orione e gli Ebrei
Don Orione entrò in contatto con Ebrei soprattutto per motivi religiosi (convertiti) o caritativi (benefattori). Quando egli morì, 12 marzo 1940, non era ancora giunta all’acme l’ondata persecutoria contro gli Ebrei concretizzata in arresti, deportazioni nei campi di concentramento e sterminio di massa. Ma il clima era già ostile e intimidatorio per cui molti emigrarono in nazioni più sicure. Già quando Don Orione si era imbarcato dal porto di Genova, il 24 settembre 1934, per andare in Argentina, gli fu chiesto di aiutare alcuni ebrei a trovare un rifugio sicuro in Argentina.
Tornato in Italia nel 1937, si rese conto della situazione mutata e commenta: “Io non so se siamo alleati o pedissequi o rimorchiati dai Tedeschi: io non lo so. Si sa una sola cosa: che vanno e vengono e passeggiano per l’Italia, come fossero i padroni d’Italia”.[3]
Era a conoscenza del grande esodo di ebrei dall’Italia. In una lettera del 1° marzo 1939, fa sapere dei problemi per l’imbarco di alcuni suoi missionari: “dato il numero grande di passeggeri ebrei, si teme che non faremo a tempo, se più ritardate, perché non ci sarà più posto”.[4]
Egli stesso si interessò per l’espatrio a Montevideo della famiglia dell’avv.to Edoardo Sacerdoti di Augusto, di Milano, scrivendone il 5 luglio 1939 a Don Pietro Migliore. Poi con lettera del 4 agosto 1939, l’affida a Don Zanocchi, a Buenos Aires, riconoscendo che “Le disposizioni legislative italiane hanno resa, direi, impossibile moralmente la loro vita qui, onde hanno potuto ottenere di venire in Argentina. Caro Don Zanocchi, Ve lo raccomando quanto so e posso, e Vi dico che avrò come fatto a me quanto potrete fare per questo mio carissimo Amico”.[5]
Testimoniò Don Giuseppe Zambarbieri: «Non c'era sventura cui Don Orione non si sentisse come spinto a porgere sollievo. Quando si scatenò violenta la persecuzione contro gli ebrei, intervenne a loro favore, riuscì a salvarne molti, offrendo un rifugio; ad altri seppe porgere almeno una parola di paterna comprensione, quando era materialmente. impossibilitato a fare di più.»[6]
Nel Diario del Piccolo Cottolengo di Milano è riportato un episodio che indica l’atteggiamento di Don Orione. “Giorni fa giungeva composta dalla mamma e da vari figli, tra i quali uno di sei mesi. La superiora era incerta se accettarla per mancanza di posto perché non si sentiva di prendere un lattante che, dovendo dormire nel dormitorio comune, la notte avrebbe disturbato le ricoverate. Don Orione l'ha rimproverata: «Avreste il coraggio di dir di no alla Madonna con Gesù Bambino? Mettete dei letti in parlatorio, in chiesa se occorre, ma non chiudete la porta a donne indifese, lontane dalla patria e a bambini innocenti». Vistala esitante, si volse ad un sacerdote della casa, dicendogli: «Se proprio non c'è posto trasportate provvisoriamente il SS. Sacramento in sacristia, e mettete dei letti in chiesa». Allora la Superiora si è data d'attorno. per sistemare in corridoio alcune ricoverate sane e mettere in una camera quella povera donna russa coi suoi figlioli”.[7]
Il confratello Don Fausto Capelli ricorda che erano entrate nell’orbita di Don Orione persone ebree importanti come l'ing. Tito Gonzalez,[8] il Sig. Umberto Griziotti,[9] i coniugi Enrico e Carmela Laffe.[10] In alcuni casi la solidarietà umana sfociò anche nella conversione. Don Orione in una Buona notte annuncia: “Domani, andrò a Roma, dove mi fermerò pochi, pochissimi giorni, per battezzare un ebreo… Non è uno che si converte per le disposizioni ultime relative agli ebrei determinate dal Governo; egli è alla vigilia di lasciare l’Italia, e non vorrebbe lasciar Roma, senza aver ricevuto prima il battesimo”.[11]
In altra occasione informa che nella basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma, “ho potuto battezzare un capo degli Ebrei, il comm. Cohen, che ha dato milioni al fascismo. Fui invitato a battezzarlo senza che io sapessi neppure chi fosse... In questi giorni è stato spogliato di tutto perché ebreo. Ricevette il battesimo molto preparato. Qualche giorno dopo gli fu tolta la tessera del fascio ed egli rispose: Ora tengo una tessera ben più preziosa, la tessera di Cristo, che nessuno mi può togliere”.[12]
La persecuzione degli ebrei, a seguito delle leggi razziali, fu una nuova emergenza a cui far fronte con tutti i mezzi, per seguire l’invito di Pio XII: «Salvate gli ebrei, anche a costo di sacrifici e pericoli». In tante case i sacerdoti e i religiosi di Don Orione furono richiesti di proteggere gli ebrei in particolare da alcuni vescovi, come ad esempio dai cardinali Ildefonso Schuster di Milano, Pietro Boetto di Genova, Maurilio Fossati di Torino, che avevano organizzato nelle rispettive sedi dei centri di aiuto.
Ci furono richieste anche dalla Santa Sede, atramite mons. Montini e mons. Tardini, sostituti alla Segreteria di Stato, per portare aiuti di ogni genere a chi ne aveva bisogno. Don Biagio Marabotto, superiore dell’Opera orionina in Polonia, che aveva passaporto italiano e tedesco, fu un provvidenziale corriere della Santa Sede tra Roma e Varsavia.[13]
Don Orione, in Italia, venne a sapere che a Zdunska Wola, in Polonia, una bomba era caduta su una chiesa e scrive: «Non sappiamo niente dei nostri sacerdoti, chierici, suore... Qual è, dunque, il nostro dovere? Raccomandiamo i nostri fratelli e la Polonia al Signore e anche tutto quel popolo martire. Pregare, pregare, pregare! Si sa che là ci sono parecchi milioni di Ebrei: preghiamo anche per gli Ebrei: tutti siamo fratelli!»[14]
“Tutti siamo fratelli!”: è la ragione ovvia del rispetto e dell’aiuto. Ma a quel tempo – e succede ancora oggi – non era ovvio che “tutti siamo fratelli”.
Don Orione, per la sua grande carità, era libero dai condizionamenti nazionalistici, razzistici e anche religiosi, sebbene apparissero normali nel contesto socio-culturale dell’epoca. Rimase famoso a Tortona un episodio, subito dopo l’invasione della Polonia (1° settembre), non aveva esitato a manifestare il suo affetto verso la Polonia invasa dalle truppe tedesche: fece baciare a tutti la bandiera della Polonia stessa sull’altare della Madonna della Guardia; il 4 settembre 1939, accompagnò solennemente i suoi chierici polacchi in corteo, con la loro bandiera, alla stazione di Tortona, in partenza per andare a difendere la patria, invasa dalla Germania nazista. E questo nell’Italia del fascismo schierata a fianco della Germania;[15] appese alla parete della sua stanza una grande bandiera polacca e là fu trovata quando, il 12 marzo 1940, egli morì e là si trova ancora.
Gli orionini in aiuto agli Ebrei
È da molto tempo che raccolgo notizie sul tema dell’aiuto agli Ebrei della Congregazione.[16] Negli archivi non è facile trovare notizie, perché il tema era allora pericoloso e coperto da grande riservatezza.
L’aiuto agli Ebrei durante il tempo dello sterminio costituisce una pagina importante della vita della Piccola Opera della Divina Provvidenza, delle sue case e dei suoi religiosi. Si può dire che quasi ogni casa della Congregazione ha accolto, nascosto, aiutato ebrei durante le leggi razziali.[17] Si costituì una rete di protezione e di salvezza usufruendo di tutte le possibilità di inserimento e di nascondimento nelle diverse opere e attività della Congregazione in Italia, da Nord a Sud, di preti e suore, di attività per ragazzi e adulti, uomini e donne, scuole e opere di assistenza.
Principali centri di questa rete furono Genova, Milano, Torino e Roma. I nomi di alcuni protagonisti sono ormai noti. Don Gaetano Piccinini nell’area romana,[18] Don Enrico Sciaccaluga e Suor Stanislaa a Genova e Liguria, Don Fausto Cappelli e Suor Maria Croce a Milano, Don Giuseppe Pollarolo a Torino,[19] Don Giovambattista Lucarini nel tortonese e alessandrino.[20] Su tutto e su tutti vegliava e incoraggiava Don Carlo Sterpi, allora superiore generale.
A Genova si ebbe un forte concentrazione di esuli ebrei e di perseguitati politici a motivo della posizione geografica della città, porto di mare aperto alle diverse destinazioni e nodo di strade e ferrovie che consentivano di poter raggiungere con minori difficoltà la frontiera svizzera. L’Arcivescovado aveva aperto le porte e il cuore ai perseguitati e alle numerose richieste di aiuto di Ebrei italiani e stranieri. Al segretario, don Francesco Repetto, che chiedeva: «Che debbo fare?», il card. Boetto rispose: «Sono degli innocenti, sono in pericolo, bisogna aiutarli con qualunque nostro disagio». Da quel momento venero mobilitati Parroci e religiosi.[21]
L’Opera di Don Orione divenne un polo operativo sicuro ed efficace nel non facile servizio di protezione e collocamento di ebrei, essendovi una stretta sorveglianza delle pattuglie sulle vie della città. Furono centinaia le persone protette, ebrei soprattutto e poi sempre più per motivi politici. Sulle alture di Genova sorgeva una “costellazione” di opere caritative sotto il nome comune di Piccolo Cottolengo Genovese: Istituto Paverano, Santa Caterina (Via Bosco), Quarto Castagna, Salita Angeli, Casa di Quezzi, Borzoli, S. Caterina a Molassana, Villa Solari, Villaggio della Carità a Camaldoli. Nelle case tutti sapevano che c’erano molte persone nascoste sotto svariati nomi e pseudonimi e con incarichi fittizi, ma solo il direttore conosceva la vera identità degli ospiti, chi li aveva inviati e la loro provenienza.
Collaboravano con don Repetto e don Enrico Sciaccaluga e tre giovani “orionini”: Luigi Carminati,[22] Antonio Chitti,[23] e Ferruccio Fisco.[24] Erano i più esposti ai pericoli perché avevano il compito di andare a prelevare gli ebrei clandestini, indicati dalla Curia arcivescovile, per poi accompagnarli nei luoghi in cui sarebbero stati ospitati. Inoltre, avevano l’incarico di andare a prendere nel Tortonese e nei centri agricoli della pianura padana i generi alimentari da distribuire nei diversi Istituti che accoglievano gli “ospiti”. Si servivano di un motocarro “Guzzi 500” e, in uno di questi viaggi, il 12 aprile1945, Luigi Carminati morì per mitragliamento aereo nei pressi di Isola S. Antonio (Alessandria), a 32 anni di età, vittima della carità che lo spingeva a provvedere al bene altrui.[25]
L’attività, coordinata dal superiore don Enrico Sciaccaluga,[26] vide la solerte collaborazione delle Suore orionine, in particolare delle due superiore delle Case più grandi: Sr Maria Stanislaa Bertolotti (Santa Caterina, via Bosco) e Sr. Maria Innocenza (Istituto Paverano) e di alcune Consorelle, come Suor Bennata e Suor Filippina, coinvolte direttamente nel procurare e distribuire agli occasionali ospiti – famiglie o persone singole, di età e condizioni sociali diverse – gli aiuti, biancheria ed indumenti per il loro fabbisogno personale, essendo spesso provvisti di tutto.
In questo contesto, creò meraviglia il fatto della conversione di una donna ebrea ricoverata al Paverano, indifferente e perfino alla fede da diversi anni. Era nel reparto di suor Maria Plautilla Cavallo, poi dichiarata Venerabile. La giovane suora, senza forzature e con l’esempio di dolcezza e di carità, suggeriva solo qualche parola sulla misericordia di Dio e sul suo amore. Quella donna si ammorbidì nell’anima e chiese di conoscere meglio la fede cattolica. Quando le domandarono come mai avesse deciso di chiedere il battesimo, la signora con spontaneità rispose di essersi convinta non tanto per le parole, quanto piuttosto per l’amorevolezza della suora che di notte si alzava anche più volte per darle un bicchiere di acqua o per qualche altro servizio: «Nemmeno le mie figlie mi avrebbero usato tanta carità». Il rabbino della comunità ebraica di Genova giunse al Paverano per informarsi su cosa avesse fatto suor Maria Plautilla per portare la signora a una decisione tanto importante. «Non ho fatto nulla», si scusò confusa la nostra suora. Ed era vero. “La carità apre gli occhi alla fede” insegnava Don Orione.[27]
Con Genova, anche il Piccolo Cottolengo di Milano fu al centro di una rete di salvataggio di persone in pericolo di vita. Nel periodo della guerra, furono ospitate alcune centinaia di nuove ricoverate: donne anziane e invalide, bambine minorate, orfanelle, ragazze albanesi e giovani profughe provenienti dalla Libia; tra di esse si celavano numerose persone nascoste per motivi razziali o politici.
Leggiamo nel Diario del Piccolo Cottolengo: “15 Gennaio 1944. Il Piccolo Cottolengo è divenuto rifugio anche di ricercati dalla polizia germanica e dalle SS. La nostra porta, come voleva Don Orione, deve restare sempre aperta ad ogni perseguitato”.[28]
La situazione fu pesante e pericolosa anche per il superiore don Fausto Capelli[29] e la superiora Suon Maria Croce Manente. Il Diario riporta: “8 Agosto 1944. Don Capelli deve abbandonare la sede di Milano perché ricercato dai tedeschi. Chi lo abbia denunciato non sappiamo. Avevamo ospitato al Piccolo Cottolengo delle persone ebree perseguitate ed alcune di esse molto ammalate. Si vede che qualcuno è venuto a saperlo. Fortunatamente i Tedeschi arrivarono qui a ricercarlo quando il direttore era a Induno Olona”.[30] Il 12 agosto, il giornale “Avanguardia”, sotto il titolo “Giudei nei conventi di Milano” parla del Piccolo Cottolengo e del suo direttore Don Capelli, che viene additato con altri religiosi al disprezzo dei lettori, preconizzando per questi “collaboratori d’Israele” il campo di concentramento.[31]
Informa don Capelli: “Ci fu allora tra noi chi evitò la deportazione in Germania dandosi alla latitanza. Questa sorte precauzionale toccò anche a Suor Maria Croce la quale, avendo saputo in forma riservata che pure il suo nome era elencato nella lista nera di San Vittore, dovette abbandonare la casa di Milano alla chetichella per nascondersi nel Romitaggio di Ghirla (Varese)”.[32] La giovane postulante Maria Emidia Motta “andava con la bicicletta a portare gli alimentari agli Ebrei nascosti nelle varie parti della città di Milano”.[33]
Con il 30 aprile 1945 ci fu l’euforia per la liberazione, ma continuò l’opera di soccorso, come riferisce il Diario di Milano: “26 Aprile 1945. La guerra è finita. Come prima l'Istituto aveva aperto la porta agli Ebrei cd agli antifascisti perseguitati oggi la va aprendo ai fascisti e ai tedeschi che si trovano nelle medesime necessità. Due feriti, vittime delle reazioni dei partigiani, rimasti abbandonati sul terreno perché creduti morti, si trascinarono nella notte fino alla nostra porta. Possiamo medicarli e ristorarli”.[34]
“2 Maggio 1945. I 100 letti voluti dal Cardinale sono già tutti occupati da donne fasciste con bambini che erano state raccolte nelle carceri di San Vittore ed ora, per desiderio dì S. Em.za. mandate a noi. Una sola mamma romana ha sei bambini, l’ultimo dei quali ha pochi mesi ed è febbricitante e pare in grave pericolo di vita. Fra i nuovi ospiti ci sono familiari di persone altolocate che si cerca di confortare nel miglior modo possibile”.[35]
Solo lentamente la situazione nel Piccolo Cottolengo Milanese andò normalizzandosi. “25 Ottobre 1945. La nostra Casa, che nei mesi scorsi è stata arca di rifugio per altri perseguitati, ora comincia a ripopolarsi di gente conosciuta. Siamo preoccupati, perché abbiamo ancora in casa sinistrati e perseguitati politici. Che non sanno dove andare. Non possiamo metterli in strada: e, per quanto la loro presenza ostacoli l’andamento normale dell’Istituto, vengono caritatevolmente trattenuti”.[36]
Nelle vicende dell’opera di soccorso emergono singole storie e persone che sono emblematiche di quanto vissuto in quei tempi e pedagogiche di valori civili permanentemente validi. Mi limito qui a richiamare l’attenzione su due storie personali, quella dello scultore Arrigo Minerbi e quella di Giuseppe Sorani.
Arrigo Minerbi
Era uno degli scultori più famosi e più gettonati anche dal regime fascista. Arrigo Minerbi era uno scultore ebreo, nativo di Ferrara.[37]
Dopo la morte di Don Orione, gli Amici di Milano desideravano subito averne le sembianze in una statua e si erano rivolti allo scultore Arrigo Minerbi, tramite i coniugi Giannino e Gina Bassetti. Si era nel 1940. Ebbero la pronta disponibilità dello scultore che studiò Don Orione e realizzò la statua in marmo del Don Orione morente, che risulterà essere il suo capolavoro.
Di lì a poco, anche su Minerbi si abbatté la minaccia delle leggi razziali. Don Sterpi lo nascose prima nella casa paterna di Gavazzana, vicino a Tortona, poi, dopo che i tedeschi ne avevano scoperto il rifugio, lo fece trasferire a Roma, affidandolo ad Antonio Tosi.[38] Il viaggio durò tre giorni e tre notti. Quando a Roma, in via Appia Nuova, la vettura viene fermata, con i sei passeggeri, a un posto di blocco tedesco, a tutti controllano i documenti, tranne che al signor Arrigo Della Porta, il nuovo nome di Arrigo Minerbi.[39] Si sentì salvato. Un fratello dello scultore, Gino Minerbi, ch’era stato anche lui nascosto al Piccolo Cottolengo di Milano, mentre tentava di espatriare in Svizzera, sorpreso sulla linea di confine, vi trovò la morte. Anche un altro dei fratelli, prima messo in carcere, morirà.[40]
Arrigo Minerbi narrò il suo arrivo all’Istituto San Filippo Neri, dove fu a lungo ospite fino alla fine della guerra, sotto il falso nome di Arrigo Della Porta.
«Roma, 7 dicembre 1943. Scaricato da un’auto di fortuna, sotto un diluvio d’acqua, fuggiasco con falso volto e falsi documenti, entro all'Istituto San Filippo. Una folata di ragazzi mi investe. Sono centinaia che mi urtano, mi spingono e io m’immergo nell’onda in tempesta… finché una porta s’apre e due braccia fraterne mi accolgono: il naufrago è a riva.
L’ambiente mi apparve dopo i primi giorni alquanto strano. Professori e maestri in soprannumero… Figure alquanto enigmatiche di laici. L’assordante cicaleccio di quegli ottocento ragazzi celava e proteggeva l’opera di sublime carità di quei sacerdoti che rischiavano la vita per salvare i perseguitati…».[41]
Minerbi poté passare in quell’Istituto, con ruolo di professore, i tempi dei rastrellamenti degli Ebrei a Roma. Ricorda che per riconoscenza e per tenersi in attività come scultore volle plasmare, con strumenti di fortuna, una piastrella con il volto di Don Orione, che egli chiamava “la piastrina del soldato”.[42]
Giunse la liberazione e Arrigo Minerbi poté tornare alla sua famiglia e al suo lavoro. È lui che modellò la grande statua della “Madonnina” di Monte Mario a Roma dando alla Madonna i lineamenti del Gesù della Sindone perché – diceva – il primogenito “matrizza”. Morì a Padova nel 1960.
Giuseppe Sorani
Era nato ad Acilia (Roma), il 29 dicembre 1929; la sua famiglia ebrea comprendeva papà Garibaldo, la mamma Emma, 5 fratelli e 2 sorelle. Trascorse l’infanzia ad Acilia ove il papà era il medico della locale stazione sanitaria, molto benvoluto.
Era ragazzo di 14-15 al tempo delle leggi razziali antiebraiche e dell’occupazione nazista di Roma. Sempre conservò uno stretto riserbo su quel tempo. Solo una volta accettò di alzare il velo del riserbo su quanto avvenne.[43]
“Tutti ci siamo nascosti come potevamo, nei paesi, nei casolari – raccontò -. Il papà era medico condotto e la nostra famiglia viveva, benvoluta, alla stazione sanitaria di Acilia. Mamma, Emma, era morta qualche anno prima per le angustie delle leggi razziali del 1938. Io ero un ragazzo di 14 anni e mio fratello Giovanni ne aveva 16. In un primo tempo, papà ci ha nascosti presso qualche contadino che ci conosceva. Dopo lo sbarco di Anzio del 22 gennaio 1944, siamo venuti a Roma, in un appartamentino in via Giovanni Miani, dalle parti di Porta Ostiense, che i miei avevano in affitto; qui siamo rimasti nascosti solo noi due. Papà trovò protezione all'ospedale Fatebenefratelli dell'isola Tiberina, sotto altro nome, alternandosi nel ruolo di medico e in quello di ammalato, a secondo dell'opportunità. Poi, quando c'è stato lo sfollamento di Acilia ed era troppo pericoloso per noi due rimanere nell'appartamento di via Miani, io e Giovanni siamo stati portati all'Istituto di Don Orione di Via Induno, a Trastevere, come orfani sfollati, senza dire niente della nostra realtà ebraica.[44] Fino all'arrivo degli americani e alla liberazione di Roma, il 4 giugno del 1944, sono rimasto a Trastevere”.
Il passaggio più impressionante della testimonianza.
“Ricordo che in quei giorni, dopo l’uscita dei tedeschi da Roma, Don Piccinini mi ha affidato la cura di un ufficiale nazista, ora nascosto lì. Mi ha detto: “Non sappiamo come fare per questo povero nazista”. Era nascosto dietro una tenda e io gli portavo da mangiare. Così per un mese o due, mi pare, fin che passò la tempesta, perché i partigiani avrebbero ammazzati tutti i tedeschi, come reazione. Mi fece impressione che quell'ufficiale fosse ancora convinto della giustezza dell'ideologia nazista; era ancora convinto che gli ebrei dovessero essere tutti fulminati”.
Questo episodio di lui, ebreo, che portava da mangiare a un ufficiale nazista fanatico fu un fatto forte, una parabola che segnò profondamente la sua vita. Lì imparò cosa significano le parole dialogo, rispetto dell’uomo, accettazione delle diversità. Lì imparò, alla scuola di Don Orione e degli orionini, che non altro odio vince l’odio, ma la carità e la verità vincono l’odio. Visse il resto dei suoi anni per togliere il velo delle idee e delle ostilità che separano uomini da uomini e anche credenti da credenti.
Due anni dopo il termine della seconda guerra mondiale, nel 1947, entrò nella Congregazione, emise i voti religiosi nel 1949 e nel 1958 fu ordinato sacerdote orionino. Fu uomo di grande religiosità e cultura, per 12 anni consigliere generale della Congregazione, un appassionato promotore dell’ecumenismo e, in particolare del dialogo ebraico-cristiano. Morì il 19 settembre 2018.
LE MOTIVAZIONI DELL’AIUTO AD OGNI VITA IN PERICOLO
Le notizie raccolte con ricerca accurata, ma non esaustiva, ci danno la misura di come l’aiuto agli Ebrei durante il tempo dello sterminio costituisca una pagina importante e benedetta della vita della Piccola Opera della Divina Provvidenza di Don Orione. Ma giova riflettere sulle motivazioni che hanno animato un tale impegno rischioso, nascosto e sacrificato. Queste vanno oltre la realtà storica concreta e sono un valore culturale per l’oggi e per un domani più umano.
La prima motivazione è il senso umanitario risvegliato nel momento che si vedono persone in pericolo di vita, bisognose di aiuto, di rifugio, di affetto, come lo furono gli Ebrei quando si scatenò l’odio omicida contro di loro, ma come lo furono anche i partigiani della resistenza ricercati come criminali. In pericolo di vita, poi, furono anche gli esponenti del fascismo e i militari tedeschi sbandati fatti bersaglio di vendette omicide. La vita è sacra, la vita di tutti, la vita senza aggettivi (italiano o tedesco, fascista o comunista, nascente o terminale, la vita in pericolo va sempre aiutata.
La seconda motivazione fu la visione e la pratica della carità cristiana inculcata da Don Orione che ripeteva, tanto per ricordare una frase molto nota, “la carità di Gesù Cristo non serra porte; alla porta del Piccolo Cottolengo non si domanda a chi viene donde venga, se abbia una fede o se abbia un nome, ma solo se abbia un dolore! Siamo tutti figli di Dio, tutti fratelli”.[45] Don Orione morì all’inizio del 1940, ma fu spiritualmente istintivo per gli Orionini rivolgere, nel momento del bisogno, la loro accoglienza e le loro cure agli Ebrei minacciati di morte.
La terza motivazione è ecclesiale, molto specifica e stimolante. Gli Orionini si misero in moto in aiuto agli Ebrei perché ciò era voluto dal Papa.
È noto come Pio XII e numerosi Vescovi italiani durante l’occupazione nazista hanno attuato molte iniziative di protezione degli ebrei. Einstein, già nel 1940, riconobbe: “Soltanto la Chiesa Cattolica si oppose alla campagna di Hitler”. Lo storico e diplomatico Emilio Pinchas Lapide ha scritto che la "La Santa Sede, i Nunzi e la Chiesa cattolica hanno salvato da morte certa tra i 700.000 e gli 860.000 ebrei". Golda Meir, a lungo ministro e capo del governo israeliano, alla morte di Pio XII, affermò: "Quando il terribile martirio si abbatté sul nostro popolo, la voce del Papa si levò per le vittime. La vita del nostro tempo fu arricchita da una voce che chiaramente parlò delle grandi verità morali al di sopra del tumulto quotidiano".[46] L’opera di ecclesiastici come Montini e Tardini in Vaticano, il card. Schuster a Milano, Fossati a Torino, Boetto e Lercaro a Genova ha scritto nobili pagine di storia, a fatica tratte dall’oblio in cui la necessaria discrezione le aveva custodite.
Gli Orionini che professano un quarto voto di “speciale fedeltà al Papa” e sono animati da un “sensus Ecclesiae” che li spinge a realizzare “non solo i comandi ma anche i desideri dei Pastori della Chiesa” si attivarono come meglio poterono in soccorso degli Ebrei, dei “fratelli maggiori”, condividendo pienamente le indicazioni di Pio XII e le richieste di collaborazione dei Vescovi nelle città ove operavano.
È significativo che il primo riconoscimento pubblico dell’opera di Pio XII e della Chiesa cattolica in favore degli ebrei perseguitati, dopo anni di polemiche sui “silenzi di Pio XII”, da parte di un rappresentante di Israele sia avvenuto proprio al Centro Don Orione di Roma, il 23 giugno 2011, in occasione del riconoscimento di Don Gaetano Piccinini “Giusto tra le nazioni” e dell’attività della Congregazione.
Destò sorpresa, nel mondo ebraico più che in quello cattolico, quanto detto da Mordechay Lewy, diplomatico di lunga esperienza e ambasciatore di Israele presso la Santa Sede. “A partire dal rastrellamento del ghetto di Roma del 16 Ottobre del 1943, e nei giorni successivi, monasteri e orfanotrofi tenuti da ordini religiosi hanno aperto le porte agli ebrei e abbiamo motivo di pensare che ciò avvenisse sotto la supervisione dei più alti vertici del Vaticano, che erano quindi informati di questi gesti, sarebbe pertanto un errore dichiarare che la Chiesa Cattolica, il Vaticano e il Papa stesso si opponessero alle azioni volte a salvare gli ebrei. È vero piuttosto il contrario: hanno prestato aiuto ogni qualvolta hanno potuto. Il fatto che il Vaticano non abbia potuto evitare la partenza del treno che portò al campo di sterminio, durante i tre giorni trascorsi dal rastrellamento del 16 ottobre fino al 18, può solo aver aumentato la volontà, da parte vaticana, di offrire i propri locali come rifugio per gli ebrei”.
Ritornato al Centro Don Orione il 13 dicembre 2011, in occasione di un incontro dell’Amicizia Ebraico Cristiana, Mordechay Lewy ribadì di “poter dire oggi che stiamo andando nella direzione della riconciliazione tra ebrei e cattolici”, avvertendo che “L'essenza delle relazioni tra mondo cattolico e mondo ebraico, da un lato, e tra e Santa Sede e Israele, dall'altro, è quello di essere cauti nelle parole e ricchi nei gesti".[47]
A distanza di tanti anni, la memoria di quegli eventi terribili e delle splendide pagine di solidarietà possono ancora educare ad atteggiamenti e valori indispensabili per un futuro di fraternità e di pace.
[1] Legge 20 luglio 2000, n. 211, Istituzione del "Giorno della Memoria", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000.
[2] Ibidem.
[3] Buona notte del 13 dicembre 1938; Parola X, 485.
[4] Lettera a don Giuseppe Dutto del 1° marzo 1939; Scritti 29, 249.
[5] Scritti 67, 62.
[6] Positio Don Orione, 735.
[7] La c’è la Provvidenza, Piccolo Cottolengo Don Orione, Milano, 1964, p.112.
[8] Positio Don Orione, 490. Ne parla in Riunioni 1937, p.185.
[9] Positio Don Orione, 491.
[10] Positio Don Orione, 492.
[11] Buona notte del 9 Gennaio 1939, Parola X, 35.
[12] Discorso del 17 Gennaio 1939, Parola X, 39. Dal Diario dell’Istituto di Via Sette Sale, Roma: «10 Martedì: Nel pomeriggio Don Orione accompagnato da Malcovati si porta in casa dell’ebreo che deve battezzare. È uno dei più ricchi di Roma, ha nome Coen, più volte milionario. È amico del Ministro Lantini e Don Orione, per invito di quest’ultimo, si è portato a Roma per battezzarlo. Ci raccontò come dopo la cerimonia si sia messo a piangere dalla commozione».
[13] Don Marabotto prese sotto la sua protezione, tramite don Jan Zieja, cappellano dell’Armata Nazionale Polacca, due ragazzi ebrei che correvano il rischio di morte e li nascose nella casa di Lazniew. Cfr Luciana Frassati Gawronski, Il destino passa per Varsavia, Milano 1985. e Anzelm Weiss, Don Orione incontra la Polonia, in Aa. Vv., Don Orione e il Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 172; Bolesław Majdak, I Religiosi di Don Orione in Polonia durante il triste periodo della seconda guerra mondiale, “Don Orione”, marzo 1972, 12–15.
[14] Flavio Peloso, Francesco Drzewiecki. N. 22666: un prete nel Lager, 2° ed., Borla, Roma, 2008, p. 56. Discorso del 18 settembre 1939, Parola XI p.131. Cfr anche Scritti 78, p.130-131.
[15] Si veda Flavio Peloso, Francesco Drzewiecki. N. 22666, p. 48-52. Nel salutarli disse loro: “Non guardate ai giornali, perché è evidente che, se i giornali italiani parlano male dei polacchi, quelli polacchi parlano male degli italiani. Ma noi dobbiamo essere superiori a queste tristi vicende! […] Non guardate ad essi, perché se la prepotenza di un uomo [Hitler] cerca di mettere lo scompiglio e gettare un’ombra sui due popoli, non gli riuscirà mai di togliere la fede comune, il nostro amore al Papa, la simpatia che i due popoli hanno sempre avuta tra loro”; Parola XI, 109-114.
[16] Flavio Peloso - Giovanni Marchi, Orionini in aiuto agli Ebrei negli anni dello sterminio, in Messaggi di Don Orione 35 (2003), n. 112, 75-106.
[17]Recentemente, è emersa la notizia del riparo dato ad un numeroso gruppo nella Villa Eremo di Arboerio di Varallo Sesia (VC), una casa destinata all’accoglienza di sacerdoti lapsi. Si era al tempo dell'eccidio del Lago Maggiore quando, nell’autunno 1943, furono uccisi 57 ebrei presenti in 9 diversi paesi. Il fatto più noto fu la strage dell’Hotel Meina: sedici ebrei qui ospiti vennero identificati e trattenuti per alcuni giorni in una stanza e poi, in due notti successive (22 e 23 settembre), uccisi e gettati con zavorre nel lago, ad alcune centinaia di metri di distanza del paese. Un cameriere dell’Hotel Meina sentì dai discorsi di due soldati della Leibstandarte che la prossima missione sarebbe stata a Varallo Sesia dove, nell’Albergo Italia, erano rifugiati parecchi ebrei. Il Parroco di Meina avvisò quello di Varallo e immediatamente gli ebrei e gli altri perseguitati si rifugiarono a “Villa Eremo” dell’Opera Don Orione ed ebbero salva la vita.
[18] Don Gaetano Piccinini ricevette un riconoscimento nel 1994 dalla Comunità Ebraica di Roma e dal Benè Berith per la sua opera a salvezza di ebrei romani dalle atrocità nazifasciste anche a rischio della propria vita. Il 21 giugno 2011, è stato onorato dallo Stato di Israele con la medaglia di Giusto fra le nazioni. Don Gaetano Piccinini, Giusto tra le Nazioni, “Messaggi di Don Orione” 43 (2011), n. 135, 79–89; Andrea Gemma – Arcangelo Campagna, Il camminatore di Dio. Profilo biografico di Don Gaetano Piccinini dell’Opera Don Orione, Velar – Marna, Gorle, 2012.
[19] Don Giuseppe Pollarolo fu a Torino collaboratore intraprendente della “Carità dell’Arcivescovo” Maurilio Fossati, collaborando con il suo segretario don Vincenzo Barale nell’aiuto agli Ebrei. Si occupò della sistemazione di Ebrei presso il Convento delle Suore Carmelitane a Torino; qualche volta li trasportò personalmente in auto in Case dell’Opera Don Orione fuori Torino. Anche lui fu ricercato e il 26 giugno 1944, i Repubblichini lo arrestarono e portarono nel carcere-caserma di via Asti. Senza processo, lo misero davanti al plotone di esecuzione. Raccolto in preghiera, Don Giuseppe attendeva… Improvvisamente, davanti al plotone cadde una bomba a mano provocando la fuga dei soldati tedeschi. Erano stati i partigiani e si salvò. Il 29 novembre 1944, don Giuseppe Pollarolo fu decorato con medaglia di bronzo al Valor Militare. Si veda Giuseppe Tuninetti, Don Giuseppe Pollarolo, prete di frontiera
[20] Don Giambattista Lucarini fu direttore dell’Istituto S. Antonio e parroco di San Rocco e Baudolino, in Alessandria, negli anni 1943-1947. Rischiando la propria vita, attuò l’invito dei Vescovi piemontesi del 1944 ad “absconde fugentes et vagos ne prodas” (Isaia 16, 3). Lo fece con gli Ebrei quando si scatenò la tempesta omicida contro di loro, con i partigiani della resistenza ricercati come criminali, e protesse infine anche gli esponenti del fascismo e i soldati sbandati dell’esercito tedesco, contro i quali si scatenarono vendette omicide. Anch’egli fu scoperto e messo al muro per ucciderlo e provvidenzialmente fu liberato da un “capo” partigiano da lui precedentemente salvato. Flavio Peloso, Don Giobanbattista Lucarini. Dagli Appennini alle Ande, artefice di carità, “Don Orione Oggi”, dicembre 2019, p. 30-31.
[21] Mario Macciò, Genova e «ha Shoah». Salvati dalla Chiesa, Ed. Il Cittadino, Genova 2006.
[22] Flavio Peloso, Fratel Luigi Carminati, “Don Orione Oggi”, aprile 2021, 31.
[23] Mario Macciò, Genova e «ha Shoah», p.64-65.
[24] Mario Macciò, Genova e «ha Shoah», p.64.
[25] “In memoria del Ch. Luigi Carminati, vittima di mitragliamento aereo nell’esercizio della carità, “La Piccola Opera della Divina Provvidenza”, maggio-agosto 1945, 11-12.
[26] Don Enrico Sciaccaluga collocò molti ebrei negli istituti, a volte inserendoli anche nelle attività che vi si svolgevano. Riusciva a sistemare e a tenere in contatto anche intere famiglie, mettendo uomini in un istituto, figli in un altro, le donne con le suore. Fu una rete di salvataggio discreta ed efficiente. Un gruppo di ebrei incarcerati gli furono affidati per un certo periodo, in domicilio protetto, nella casa di Camaldoli, sotto la responsabilità di Don Ferruccio Netto. Don Sciaccaluga adattò nel fondo dell’ampio terreno del Paverano una casetta per ospitare alcuni bambini ebrei. mons. Francesco Repetto, terminata a guerra, gli scrisse per ringraziarlo: “L’impresa fu quella di una carità che era preparata e pronta ad ogni rischio. Ricordo che quando, con una certa perplessità, sia per il pericolo cui si esponevano le case del Piccolo Cottolengo, sia perché esse avevano già accolto parecchi rifugiati, venivo a chiedere a Lei, allora Superiore, un caldo nascondiglio per i trepidanti fuggiaschi, Lei, con un cenno cortese, immediato, naturale, mi rispondeva sempre di sì, senza provare insofferenza, senza imporre scadenze, senza chiedere garanzie. Ricordo infine che a quegli innocenti perseguitati a morte, Lei dava non soltanto le pareti di una stanza nascosta, ma la Sua riconfortante compagnia. Lo stesso Card. Boetto era rassicurato, sapendo della prudenza e della generosità dei discepoli di Don Orione”. Flavio Peloso, Don Enrico Sciaccaluga. Anche gli amministrativi vanno in Paradiso, “Don Orione Oggi”, gennaio 2018, p. 14.
[27] Aurelio Fusi, Venerabile Suor Maria Plautilla. Un riflesso del volto di Don Orione, Ed. Paoline, Milano 2011, p. 84-85.
[28] La c’è la Provvidenza, Piccolo Cottolengo Don Orione, Milano, 1964, p.161.
[29] Don Fausto Capelli (1911-1975), ancora giovane sacerdote, fu da Don Orione posto alla direzione del «Restocco», la prima sede del Piccolo Cottolengo in Milano. Con la semplicità di un comportamento avveduto e senza sussulti, Don Capelli seppe richiamare attorno alla Casa la simpatia e la benevolenza di Amici, piccoli e grandi, che legarono all'amore verso Don Orione zone nuove della beneficenza cittadina. Minuto e quasi timido all’apparenza, manifestò coraggio e abnegazione nel far fronte alle difficoltà e tensioni durante la seconda guerra mondiale. In lui, e nelle umili Suore, molti trovarono rifugio e protezione ed altri videro il simbolo di una carità fatta di silenzio, di opere a conforto dei più poveri e bisognosi, secondo l'esempio di Don Orione. Cfr Don Fausto Capelli, “Don Orione", aprile 1975.
[30] La c’è la Provvidenza, 163. Don Capelli poté ritornare a Milano solo il 30 aprile 1945, più volte protetto in modo provvidenziale, come quando, a Genova, la persona che doveva andarlo ad arrestarlo lo avvisò di allontanarsi subito dalla città; La c’è la Provvidenza, 165.
[31] Dorino Zordan – Alda Leggieri (a cura di), Piccolo Cottolengo Milanese di Don Orione (1933–2008): 75 anni di carità tra storia e cronaca, Velar, Gorle 2009, 171.
[32] Nel Diario di Casa Madre di Tortona si conferma: “19/07/1944. Ci giunse oggi notizia tanto dolorosa che per lo stesso motivo è cercata per catturarla la consorella Maria Croce e che si spera arrivare in tempo ad allontanarla”; Archivio PSMC, Roma.
[33] Dal Necrologio di Suor Maria Emidia Motta; Archivio PSMC.
[34] La c’è la Provvidenza, 164.
[35] La c’è la Provvidenza, 165.
[36] La c’è la Provvidenza, 166.
[37] Arrigo Minerbi (Ferrara 1881 – Padova 1960) fu uno dei più grandi scultori del Novecento. Espresse una scultura dello spirito: qualcosa di addolcito e di musicale nella materia, un virtuosismo tecnico notevole, l’abitudine a presentare con cura i volumi. Le sue opere sono presenti in piazze, chiese e musei di tante città italiane. Il suo Don Orione morente è considerato uno dei suoi massimi capolavori, unitamente alla statua di Maria Salus Populi Romani, posta sulla collina di Monte Mario benedicente su Roma. Giovanni Marchi, Un grande scultore del Novecento: Arrigo Minerbi, “Messaggi di Don Orione” 33 (2001), n. 106, 33–56; Antonio Gaspari, Nascosti in convento. Incredibili storie di ebrei salvati dalla de-portazione. Italia 1943–45, Ancora, Milano, 1998.
[38] Cfr Serafino Cavazza, in Aa. Vv., In memoria di Don Piccinini. A cura di don Giuseppe Zambarbieri, Edizioni Don Orione, Tortona 1982, p. 206.
[39] Gaetano Piccinini, Roma tenne il respiro, Ed. Orionea, Palermo, 1955, p. 125.
[40] Testimonianza di don Ignazio Cavarretta; ADO, cart. Ignazio Cavaretta.
[41] Giovanni Marchi, Un grande scultore del Novecento: Arrigo Minerbi, p.53.
[42] Questo bassorilievo della medaglia è conservato nella Curia generale degli Orionini a Roma.
[43] Giuseppe Sorani: un orionino ebreo, intervista pubblicata in “Messaggi di Don Orione” 35 (2003), n. 112, 103-106.
[44] Don Sorani ricordava che Suor Maria Pace, donna semplice e materna, aveva l’incarico da Don Piccinini, di portarsi con sé al mercato anche il piccolo Giuseppe Sorani quando avvenivano “ispezioni” in Istituto, onde evitargli possibili rappresaglie. Questo avvenne molte volte.
[45] Scritti 114, 285.
[46] Alla fine della II guerra mondiale, tutte le grandi organizzazioni ebraiche del mondo, i rabbini capi di Gerusalemme, di New York, di Danimarca, della Bulgaria, della Romania, di Roma, e migliaia di ebrei scampati alla persecuzione hanno manifestato la riconoscenza e la stima per quanto fatto da Pio XII e dalla Chiesa.
[47] Il tema è tornato di attualità per le polemiche lanciate recentemente sui “silenzi di Pio XII” in relazione alla shoah. Sull’argomento si veda: Pierre Blet, Pio 12. e la seconda guerra mondiale negli archivi vaticani, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999; Andrea Tornielli, Pio XII: il Papa degli Ebrei, Piemme, Casale Monferrato, 2001; Rosario F. Esposito, Processo al Vicario: Pio XII e gli ebrei secondo la testimonianza della storia, SAIE, Torino 1965; Margherita Marchione e altri, Pio XII e gli ebrei, Piemme, Casale Monferrato 2002; Antonio Gaspari, Nascosti in convento: incredibili storie di ebrei salvati dalla deportazione (1943-45), Ancora, Milano 1999.
Giovanni Marchi - Flavio Peloso
Molti sacerdoti dell'Opera Don Orione, durante la seconda guerra mondiale, si trovarono a far fronte a un'assoluta emergenza nel fare il bene sempre e a tutti, con l'aiutare gli Ebrei negli anni dello sterminio. Questo particolare impegno risponde alla precisa eredità lasciata dal Fondatore: “Le case non sono nostre, ma di Gesù Cristo: la carità di Gesù Cristo non fa eccezione di persone e non serra porte; alla porta del Piccolo Cottolengo non si domanda a chi viene donde venga, se abbia una fede o se abbia un nome, ma solo se abbia un dolore! Siamo tutti figli di Dio, tutti fratelli ”.(2)
Don Orione, per la sua grande carità, era libero dai condizionamenti nazionalistici, razzistici e anche religiosi, sebbene apparissero normali nel contesto socio-culturale dell'epoca. Per esempio, in occasione dell'invasione della Polonia, nel settembre 1939, a pochi mesi dalla sua morte, non aveva esitato a manifestare il suo affetto verso la Polonia invasa dalle truppe tedesche, accompagnando solennemente i suoi chierici polacchi in corteo, con la loro bandiera, alla stazione di Tortona, in partenza per andare a difendere la patria, invasa dalla Germania e poi spartita con l'Unione Sovietica. E questo nell'Italia del fascismo schierata a fianco della Germania.
DON ORIONE E GLI EBREI
Don Orione entrò in contatto con Ebrei soprattutto per motivi religiosi (convertiti) o caritativi (benefattori). Quando egli morì, 12 marzo 1940, non era ancora giunta all'acme l'ondata persecutoria contro gli Ebrei concretizzata in arresti, deportazioni nei campi di concentramento e sterminio di massa. Ma il clima era già manifestamente loro ostile e molti partivano per lidi più sicuri. Quando Don Orione si era imbarcato dal porto di Genova sul Conte Grande, il 24 settembre 1934, per andare in Argentina a partecipare al Congresso Eucaristico di Buenos Aires insieme con il legato pontificio, il cardinale Pacelli, gli era stato richiesto di aiutare alcuni ebrei a trovare un rifugio sicuro in Argentina.
Era a conoscenza del grande esodo di ebrei dall'Italia. In una lettera del 1° marzo 1939, fa sapere dei problemi per l'imbarco di alcuni suoi missionari: “dato il numero grande di passeggeri ebrei, si teme che non faremo a tempo, se più ritardate, perché non ci sarà più posto”.(3)
Egli stesso si interessò per l'espatrio a Montevideo della famiglia di l'Avv.to Edoardo Sacerdoti di Augusto, di Milano, scrivendone il 5 luglio 1939 a Don Pietro Migliore. Poi con lettera del 4.8.1939, l'affida a Don Zanocchi, a Buenos Aires, riconoscendo che “ Le disposizioni legislative italiane hanno resa, direi, impossibile moralmente la loro vita qui, onde hanno potuto ottenere di venire in Argentina. Caro Don Zanocchi, Ve lo raccomando quanto so e posso, e Vi dico che avrò come fatto a me quanto potrete fare per questo mio carissimo Amico ”.(4)
Testimoniò Don Giuseppe Zambarbieri: «Non c'era sventura cui il Servo di Dio non si sentisse come spinto a porgere sollievo. Quando si scatenò violenta la persecuzione contro gli ebrei, intervenne a loro favore, riuscì a salvarne molti, offrendo un rifugio; ad altri seppe porgere almeno una parola di paterna comprensione, quando era materialmente. impossibilitato a fare di più.»(5) E Don Benedetto Galbiati: «So di un israelita, capitano Perez, di Genova, congedato dall'Abissinia, perché ebreo e abbandonato dalla moglie, il quale, recatosi da Don Orione a Tortona e ascoltate le sue parole, rientrò in casa e ritrovò la propria pace.»(6)
Don Fausto Capelli aggiunge altri particolari: «Anche l'ing. Tito Gonzalez, ebreo, considerava Don Orione come un indimenticabile grande benefattore dell'umanità.(7) Aveva visitato il Sig. Umberto Griziotti, di religione israelitica, il quale, conquiso dalla carità di Don Orione, ebbe il conforto di essere istruito nella religione cristiana dallo stesso Servo di Dio e a lui diede la consolazione grande del suo ingresso nella Chiesa cattolica. Ora il Signor Griziotti è un fervente cristiano e benefattore del Piccolo Cottolengo.(8) Ricordo pure che la Signora Carmela Laffe, nelle frequenti visite che faceva a Don Orione al Piccolo Cottolengo Milanese, conduceva seco qualche volta pure il consorte geom. Enrico, di religione israelita. E anche costui, vinto dall'influenza benefica di Don Orione, si convertì alla religione cattolica e quando fu battezzato, in segno di riconoscenza al Servo di Dio, volle essere chiamato col nome di Luigi.» (9)
Don Orione in una Buona notte annuncia: «Poi domani, da Milano, piacendo a Dio, andrò a Roma, dove mi fermerò pochi, pochissimi giorni, per battezzare un ebreo, che io non conosco, per incarico di una grande personalità. Non è uno che si converte per le disposizioni ultime relative agli ebrei determinate dal Governo; egli è alla vigilia di lasciare l'Italia, e non vorrebbe lasciar Roma, senza aver ricevuto prima il battesimo. Così voialtri pregherete anche per quest'anima.» (10)
E ancora: «(A Roma) Sono andato nella Cappella più ricca di quella stessa basilica di Santa Maria Maggiore, così chiamata perché è la più grande chiesa dedicata alla Vergine in Roma. Voi conoscete la sua storia, quella della neve caduta in agosto. Ho potuto battezzare un capo degli Ebrei, il comm. Cohen che ha dato milioni al fascismo. Fui invitato a battezzarlo senza che io sapessi neppure chi fosse. Me lo vidi davanti un quarto d'ora prima del battesimo. Un signore più alto di me, robusto, che in questi giorni è stato spogliato di tutto perché ebreo. Ricevette il battesimo molto preparato. Quando gli versavo l'acqua pronunciando le parole sacramentali: io ti battezzo…fui molto impressionato nel vedere che l'acqua gli cadeva sullo stemma del fascio… Qualche giorno dopo gli fu tolta la tessera del fascio ed egli rispose: Ora tengo una tessera ben più preziosa, la tessera di Cristo, che nessuno mi può togliere… E questo me lo riferì quel Ministro il cui nome vi è noto ( Lantini ) e che per tre giorni venne a messa alle Sette Sale e che avrebbe desiderato assistere alla professione religiosa dei nostri chierici».(11)
NEL TEMPO DELLO STERMINIO
Tutte le prime pagine dei giornali italiani il 15 luglio 1938 presentarono il Manifesto della razza e qualche mese dopo fu promulgata la legge antiebraica del Governo italiano, che fu giudicata da Mussolini una specie di pro-forma per accontentare l'alleato tedesco. Ma dopo il 25 luglio 1943, alla caduta del Duce, e soprattutto dopo l'armistizio dell'8 settembre, (12) sono i tedeschi a prendere in mano la situazione italiana. Il 16 ottobre 1943, arrivano a Roma reparti speciali delle SS: “rastrellarono” nell'ex ghetto ebraico più di mille ebrei.(13) Pio XII fece giungere la sua protesta all'ambasciatore della Germania presso la Santa Sede , E. von Weizsacker, tramite il card. Maglione: “E' doloroso per il Santo Padre, doloroso sopra ogni dire che proprio a Roma, sotto gli occhi del Padre comune, siano fatte soffrire tante persone unicamente perché appartengono ad una stirpe determinata”.(14) Tramite Mons. Aloys Hudal, rettore della chiesa nazionale tedesca di Roma, furono fatte pressione sui gerarchi del Reich e si giunse alla sospensione immediata degli arresti – pare ordinata dallo stesso Himler – in considerazione del carattere particolare della città di Roma. Ormai per i mille “rastrellati” con la prima retata nella notte tra il 15 e 16 ottobre, la sorte era ormai segnata: ammassati in vagoni ferroviari furono inviati ai campi di sterminio. Si salvarono gli altri 8000 ebrei romani: cercarono rifugio nelle campagne vicino a Roma e molti – non meno di 4000 – furono accolti in case religiose della città, aperte a questi “fratelli bisognosi” su invito dello stesso Pio XII.(15)
Il progetto di sterminio degli ebrei si estese a tutto il territorio nazionale. Con circolare del dicembre 1943 il ministro del governo di Salò, Buffarini Guidi, trasmetteva ai prefetti delle province della Repubblica Sociale Italiana, per l'immediata esecuzione, un'ordinanza che ingiungeva che gli ebrei fossero cacciati dal lavoro e dall'insegnamento nelle scuole, oltre all'invio di tutti gli ebrei, a qualunque nazione appartenessero, nei campi di concentramento e che i loro beni, mobili e immobili, fossero confiscati a favore dei sinistrati delle incursioni aeree.
La persecuzione degli ebrei, a seguito delle leggi razziali, fu una nuova emergenza a cui far fronte con tutti i mezzi, per seguire l'invito di Pio XII: «Salvate gli ebrei, anche a costo di sacrifici e pericoli. Con prudenza; ma fatelo!”.(16) In tante case i sacerdoti e i religiosi di Don Orione furono richiesti di proteggere e di nascondere gli ebrei minacciati e perseguitati, sia da amici, sia dai vescovi, come ad esempio dai cardinali Schuster e Boetto, rispettivamente di Milano e di Genova, che avevano organizzato nelle rispettive sedi dei centri di aiuto.
Ci furono richieste anche dalla Santa Sede, avendo come referenti mons. Montini e mons. Tardini, sostituti alla Segreteria di Stato, per portare aiuti di ogni genere a chi ne aveva bisogno. Don Biagio Marabotto, superiore dell'Opera Don Orione in Polonia, provvisto di passaporto italiano e tedesco, fu un provvidenziale corriere della Santa Sede tra Roma e Varsavia. Durante la guerra, il Nunzio mons. Cortesi gli affidò tutti i suoi incarichi e l'Ordinario militare mons. Bartolomasi lo nominò Cappellano Maggiore dei militari italiani in Polonia. Don Orione, in Italia, si avvaleva di tutte le sue conoscenze per cercare di avere notizie. Invano. Venne a sapere che a Zdunska Wola una bomba era caduta su una chiesa e forse un sacerdote era rimasto ucciso. «Non sappiamo niente dei nostri sacerdoti, chierici, suore... Qual è, dunque, il nostro dovere? Raccomandiamo i nostri fratelli e la Polonia al Signore e anche tutto quel popolo martire. Pregare, pregare, pregare! Si sa che là ci sono parecchi milioni di Ebrei: preghiamo anche per gli Ebrei: tutti siamo fratelli!» (17)
Luciana Frassati Gavronski testimonia su Don Marabotto: «Nei venti anni di missione in Polonia, la sua figura magra e il viso scarno, in cui due occhi neri splendevano di energia e di fierezza, furono presenti ovunque ve ne fosse bisogno.» Prese sotto la sua protezione, tramite Don Jan Zieja, cappellano dell'Armata Nazionale Polacca, due ragazzi ebrei che correvano il rischio di morte e li nascose nella casa di Lazniew(18). Una bambina ebrea scappata da Dachau, divenne suora orionina. La storia di salvezza di Suor Maria Eustella Gregorat iniziò nel buio sinistro del lager di Dachau. La sera del 1° novembre 1939, questa bambina – si chiamava allora Bruna -, varcava il portone di quel lager, deportata insieme ai due fratellini e ai genitori: il papà magistrato e la mamma insegnante. Il papà e la mamma non li vide più. Vennero uccisi. Ricorda una stanza dei bidoni… Solo dopo venne a sapere a che cosa serviva il "fenolo" in essi contenuto! Un insperato amico di famiglia, Augusto, membro delle SS, rischiando la vita, di notte, scappò assieme a quei tre fratellini mettendoli in salvo. Luciano divenne salesiano missionario in Madagascar; Mario fu invece gesuita in India. E lei, la bimba di 6 anni, che ricorda troppo bene quelle atrocità che le squarciano ancor oggi i sogni della notte, incontrò poi Don Orione e divenne suora nel 1951: Suor Maria Eustella. (19)
Anche Don Dionisio Di Clemente prestò servizio presso la Santa Sede nell'ufficio per la ricerca dei dispersi in guerra, diretto da monsignor Montini. Don Piccinini scrisse in Roma tenne il respiro (20) di aiuto portato a tanti «ebrei sbattuti dalla bufera e pei quali il Santo Padre aveva invitato a rischiare».(21) Richieste d'aiuto giunsero, con pronta risposta, pure dal responsabile del DELASEM (Delegazione Assistenza Ebrei Emigrati) Sig. Settimio Sorani.
ACCOGLIENZA AL PICCOLO COTTOLENGO DI MILANO
La Superiora del Piccolo Cottolengo di Milano, Suor Maria Croce (Lucrezia Manente) lasciò la seguente testimonianza: «Ritengo fermamente che Don Orione, mentre ancora viveva, fosse dotato di doni soprannaturali. Nel 1939, se non erro, Don Orione si trovava al Piccolo Cottolengo e coi suoi religiosi si parlava della guerra, già scoppiata in Polonia, e che si riteneva non lontana anche per l'Italia. Il discorso veniva fatto mentre erano seduti a tavola: io che sentivo, chiesi: «Padre, se avviene tutto questo, cosa sarà di noi?» Don Orione rispose: «Le mie suore forse dovranno togliersi l'abito e andare a fare del bene, come già in altre guerre.» Un po' spaventata esclamai: «Ma, togliere l'abito!» E allora Don Orione si fece serio, e disse: «Statemi bene a sentire: qualunque cosa avvenga, il Cottolengo non sarà toccato; anzi vi dirò di più: il Cottolengo sarà il rifugio di tanti e anche nostri benefattori saranno aiutati dal Cottolengo. Così fu difatti, e la parola di Don Orione si avverò pienamente. Poco dopo difatti vennero famiglie intere di russi e, in seguito, furono accolti anche ebrei e molti fascisti che ci venivano inviati dal card. Schuster; fra essi la famiglia della sorella di Mussolini e la moglie dell'Onorevole Teruzzi con la bambina. Nelle ristrettezze di quei tempi, qualche benefattore, come Don Orione aveva predetto, veniva al Cottolengo - al quale per una ammirabile Provvidenza di Dio nulla è mai mancato -, per sfamarsi o per avere generi alimentari che non si potevano avere al mercato.»(22)
Trascriviamo alcune frasi dal Diario di Milano
«2 Giugno 1942. Aumenta il numero di persone ebree, che chiedono d'essere ricoverate.
15 Gennaio 1944. Il Piccolo Cottolengo è divenuto rifugio anche di ricercati dalla polizia germanica e dalle SS. La nostra porta, come voleva Don Orione, deve restare sempre aperta ad ogni perseguitato.
7 Aprile 1944 Il caro Arrigo Minerbi ‑ l'autore del nostro Don Orione morente ‑ è ormai tranquillo in una nostra casa romana, ove Don Sterpi lo ha fatto arrivare sicuro, dopo averlo tenuto nascosto qualche tempo nella sua casa paterna in Gavazzana, fra le orfanelle del nostro Piccolo Cottolengo, ivi messe al sicuro dai bombardamenti. Speriamo che nel sig. Arrigo Della Porta nessuno riconosca il grande scultore ebreo milanese.
2 Maggio 1944 Induno. La vita delle nostre invalide e minorate psichiche prosegue regolarmente, soccorse da molti amici sfollati qui nei dintorni. La Provvidenza non ci lascia mancare nulla; neppure il pane è razionato, perché oltre alle tessere abbiamo grano per farne in casa; non solo, ma come aveva predetto Don Orione, possiamo darne ai nostri benefattori malati o a quelli che hanno più figliuoli. Anche vari partigiani, nascosti nelle fogne dei dintorni, la notte bussano alla nostra porta, per chiedere da mangiare e qualcosa c'è sempre anche per loro; sere fa se ne presentò uno ammalato e fu ospitato nella camera di Don Capelli, che era assente. Persino i soldati tedeschi si presentano di tanto in tanto per bisogni e noi siamo contenti di poter fare qualcosa anche per loro: sono tutti nostri fratelli in Cristo, trascinati dai loro capi in una guerra che i più certo non hanno voluto e a casa li aspettano le loro mamme e i loro bambini.
8 Agosto 1944. Don Capelli deve abbandonare la sede di Milano perché ricercato dai tedeschi. Chi lo abbia denunciato non sappiamo. Avevamo ospitato al Piccolo Cottolengo delle persone ebree perseguitate e alcune di esse molto malate. Si vede che qualcuno è venuto a saperlo. Fortunatamente i Tedeschi arrivarono qui a ricercarlo quando il Direttore era a Induno Olona, per il raduno Amici Milanesi colà sfollati.
26 Aprile 1945. La guerra è finita. Come prima l'Istituto aveva aperto la porta agli ebrei e agli antifascisti perseguitati, oggi la va aprendo ai fascisti e ai tedeschi che si trovano nelle medesime necessità. Due feriti, vittime delle reazioni dei partigiani, rimasti abbandonati sul terreno perché creduti morti, si trascinano nella notte fino alla nostra porta. Possiamo medicarli e ristorarli.
25 Ottobre 1945. La nostra Casa che nei mesi scorsi è stata rifugio per altri perseguitati, ora comincia a ripopolarsi di gente conosciuta. Siamo preoccupati, perché abbiamo ancora in casa sinistrati e perseguitati politici, che non sanno dove andare. Non possiamo metterli in istrada; e, per quanto la loro presenza ostacoli l'andamento normale dell'Istituto, vengono caritatevolmente trattenuti».
LA VICENDA DEL CELEBRE SCULTORE ARRIGO MINERBI
Abbiamo trovato nel Diario del Piccolo Cottolengo di Milano l'accenno alla protezione data allo scultore ebreo, nativo di Ferrara, Arrigo Minerbi. (23) La sua vicenda è davvero singolare.
Gli Amici di Milano, dopo la morte di Don Orione, desiderando subito averne le sembianze eternate nel marmo, si erano rivolti allo scultore Arrigo Minerbi, tramite i coniugi Giannino e Gina Bassetti, che si assunsero l'onere della spesa. Ebbero la pronta adesione dello scultore ebreo, che li capì e ispirato eseguì ciò che desideravano, ossia la statua in marmo del Don Orione morente , che risulterà essere il suo capolavoro.
Così Minerbi divenne uno dei primi Amici di Don Orione, fondati dal senatore Cavazzoni subito dopo la morte di Don Orione, e nelle sue case trovò rifugio nei terribili anni di guerra e di persecuzione. Don Sterpi lo nascose prima nella casa paterna di Gavazzana, vicino a Tortona, poi, dopo che i tedeschi ne avevano scoperto il rifugio, lo fece trasferire a Roma, affidandolo ad Antonio Tosi, un vero atleta del Signore per il suo possente fisico, con queste raccomandazioni: «Prendi provviste per il viaggio che può essere anche lungo; la linea è bombardata e interrotta in più punti. Non bisogna illudersi di viaggiare sempre in treno. Ma non importa. Tu devi portare sano e salvo il professore a Roma, al San Filippo, dove Don Piccinini l'attende.»(24) Il viaggio durerà tre giorni e tre notti. Quando la vettura viene fermata, con i sei passeggeri, a un posto di blocco tedesco in via Appia Nuova, a tutti controllano i documenti, tranne che al signor Arrigo Della Porta. Come scrisse Don Piccinini, «Minerbi giungeva a salvamento proprio la sera (sarà lo stesso Minerbi e la “donna forte”, che Dio gli aveva dato, a farne memoria) dell'8 dicembre 1943, quando era ancora acuto e vivido, in piazza di Spagna, attorno all'Immacolata, l'olezzo delle candide corolle, irrorate quella volta, più che in altre, da lacrime di ansia e di trepidazione».(25) Uno sventurato fratello dello scultore, Gino Minerbi, ch'era stato anche lui nascosto al Piccolo Cottolengo di Milano, mentre tentava di espatriare in Svizzera, sorpreso sulla linea di confine, vi aveva trovato la morte. Anche un altro dei fratelli, prima messo in carcere, morirà. (26)
Ecco la testimonianza diretta di Arrigo Minerbi(27), resa in una conferenza al gruppo Amici di Milano. Rievoca la sua avventura romana, dove fu a lungo ospite dell'Istituto San Filippo Neri fino alla fine della guerra, sotto il falso nome di Arrigo Della Porta.
«Roma, 7 dicembre 1943. Scaricato da un'auto di fortuna, sotto un diluvio d'acqua, fuggiasco con falso volto e falsi documenti, entro all'Istituto San Filippo. Una folata di ragazzi mi investe. Sono centinaia che mi urtano, mi spingono e io m'immergo nell'onda in tempesta e annaspo con le braccia in quello sciame umano, finché una porta s'apre e due braccia fraterne mi accolgono, e la porta si chiude dietro me. Silenzio e commozione. Il naufrago è a riva e si chiama Arrigo Della Porta.
L'ambiente mi apparve dopo i primi giorni alquanto strano. Professori e maestri in soprannumero… Figure alquanto enigmatiche di laici. A qualcuno più s'addiceva una divisa militare che l'abito borghese. I tedeschi imperavano, rastrellavano, deportavano.
L'assordante cicaleccio di quegli ottocento ragazzi celava e proteggeva l'opera di sublime carità di quei sacerdoti che rischiavano la vita per salvare i perseguitati. Una magnifica discrezione vietava a tutti, laici, religiosi, seminaristi, anche la più larvata richiesta d'informazioni. Uno solo sapeva. Egli vegliava su tutti, pronto al sacrificio personale, magnifico di consapevole, serena tranquillità.
Avevo preso possesso di una bella cameretta (ancora mi cuoce il rimorso di averne privato così il buon sacerdote che l'occupava), cameretta che a sua volta sembrava il centro di un'”arnia”, un “bugno”, tanto il brusio delle aule circostanti entrava a ondate…
Spesso scendevo in direzione e accompagnavo il Preside nel suo incessante peregrinare tra un ricovero e una scuola, tra un orfanotrofio e un asilo. Ho avuto così modo di conoscere a fondo, non dico il cammino , che non fui così fortunato, ma la scia che Don Orione ha lasciato dietro di sé, morendo. Scia diventata in pochi anni solco largo e profondo, a guisa di un fiume che alla sorgente è lieve ruscello e scendendo a valle si accresce di infiniti torrenti e tutti li accoglie e dilata le sue rive, s'insinua tra valle e valle, finché maestoso e solenne ha la sua foce in mare.
Giorno per giorno mi era dato di assistere a questo affluire di rivoli e torrentelli, ora limpidi e tersi, ora limacciosi e impetuosi. E il gran fiume, a volte non più capace di contenere l'afflusso travolgente di cento e cento miserie, si faceva minaccioso, premeva contro gli argini… Ma ecco che alle preghiere fervide del buon Padre, interveniva la Provvidenza , si placavano le acque e il fiume riprendeva a scendere solenne e calmo alla sua foce: “il mare della Carità”. La mia ammirazione aumentava. I sacerdoti non avevano riposo, i seminaristi nemmeno. Nessuna comodità, nessun refrigerio, né riposo in piume. Di tutto si privavano senza rammarico a un cenno del Superiore. Nessun mestiere, nessuna mansione, anche più vile, respingevano. Solo i “frati minori” d'un tempo eran loro emuli e compagni. Fui testimonio di episodi che serbo nel mio cuore, e non dico, perché la parola li sciuperebbe. L'unico commento a questo è il silenzio!».
Minerbi ricorda che volle plasmare una medaglia col volto di Don Orione, come segno di gratitudine. (28)
Don Gaetano Piccinini, che dedicò molte pagine del libro Roma tenne il respiro ai Figli di Sion , come s'intitola un capitolo fondamentale, ricorda che «la prima sosta romana Arrigo Minerbi l'aveva fatta nella casa di Monteverde Vecchio, in via Alessandro Poerio n. 36, cioè al Piccolo (minimo) Cottolengo, fiorito in quella tragica ora».(29) Da lì fu presto trasferito.
«Nella casa da cui Minerbi s'allontanava, entrò tutta in una volta, una schiera di quindici adulti. Chi erano? Ufficialmente provenivano da Civitavecchia, ove il giorno prima si era abbattuto un duro bombardamento. Ma nella storia segreta essi, che al pari di Minerbi avevano tutti un nome che non era il loro, provenivano dai rifugi che le SS avevano violato: Collegio Lombardo e San Paolo fuori le Mura. Spauriti, furono consegnati al Sacerdote, direttore di quella casa, affinché ne avesse ogni cura. Ed egli ne ebbe cura somma e delicatissima. Ma per il clima di paura diffusa da quelle catture notturne non fu messo quel direttore solerte, a cognizione che trattavasi di ebrei sbattuti dalla bufera e pei quali il Santo Padre aveva invitato a rischiare».(30)
Don Piccinini parla poi, sorridendo, dello zelo del direttore che «batteva forte, nei suoi sermoncini, sulla necessità dei sacramenti» nei riguardi di «quel gruppo inesplicabile di restii alla Grazia, che mai vedeva accostarsi al Sacro Convito. Più tardi, quando, finita la bufera, seppe tutto, sorrise, cogli occhi lucidi, del suo zelo bruciante e un po' corrivo, ma con lui sorridevano pure, con agli occhi le lacrime della riconoscenza e della benedizione, quegli infelici che la Carità del Papa aveva stretto a sé come fossero pecorelle del Suo ovile».(31)
Penso di non sbagliarmi dando un nome e cognome a quel fervoroso sacerdote di Via Poerio, che dovrebbe essere stato Don Erminio Liberalon, nato a San Vito di Vigonza (Padova) e morto a Roma l'11 dicembre 1893, a 69 anni di età, che fu direttore per alcuni decenni della casa di Monteverde Vecchio.
PIO XII: “CON PRUDENZA, MA FATELO!”
A conferma della carità del Papa verso la sventura abbattutasi sugli Ebrei abbiamo un articolo di Mons. F. Repetto, apparso su «Fides nostra», periodico mensile del seminario di Genova, che così rievoca: «La notte dell'antivigilia di Natale del 1943, la banda Koch circondò il Seminario Lombardo, in Roma, e vi penetrò alla caccia di ebrei ivi rifugiati. (32) Per la verità, ve n'era un centinaio che monsignor Bertoglio aveva accolto e continuava ad accogliere (glien'erano arrivati anche da Genova) con tutta tranquillità, perché (lo sentii affermare da lui stesso) Pio XII aveva detto: “Fatelo! Con prudenza; ma fatelo!”. (33) Gli uomini della banda, nella perquisizione che durò buona parte della notte, misero le mani soltanto su tre o quattro, e, naturalmente, sul Rettore. Tutti gli altri scomparvero entro un rifugio già approntato, e che fu introvabile. All'alba, giunse in Vaticano la notizia di quello che accadeva al Lombardo; non trascorse un quarto d'ora, e monsignor Montini era di fronte alla banda: il suo sguardo dovette essere più del solito fermo e dolente, mentre tratteneva lo sdegno, non tanto per quel che si faceva alla Santa Sede con la violazione della extraterritorialità di un suo edificio, ma ben più per l'affronto che si perpetrava contro i diritti e la pietà umana. La banda uscì dal seminario con i pochi che aveva catturato e, soltanto dopo aver impedito che trascinassero via anche il Rettore, ne uscì monsignor Montini».(34) Simile irruzione delle SS avvenne nell'abbazia di San Paolo Fuori le mura, che tra l'altro godeva della extra territorialità, nella notte tra il 3 e 4 febbraio 1944.
Molto attiva fu l'opera di Don Gaetano Piccinini, che aiutò molti ebrei a salvarsi, nascondendoli nelle varie case della Provincia Religiosa SS. Apostoli, di cui era Direttore. S'interessò anche di bambini ebrei, alcuni dei quali accolse nella Casa dell'Orfano di Via Induno, come i piccoli Bruno Camerini, Adriano Sabatello e i fratelli Giovanni e Giuseppe Sorani. Precisi ricordi li abbiamo da Giuseppe Sorani, divenuto poi sacerdote nella congregazione di Don Orione. Durante la “caccia agli ebrei” scatenatasi a Roma dopo l'8 settembre 1944, egli, ragazzo di 14 anni, fu nascosto con il fratello Giovanni, di 16 anni, nella Casa dell'Orfano, tenuta dai religiosi di Don Orione. Dopo la liberazione di Roma, i due ragazzi poterono frequentare la scuola magistrale presso l'Istituto orionino “San Filippo Neri” di Roma. Prima il fratello Giovanni e poi anche Giuseppe aderirono alla fede cristiana. Giuseppe ricevette il Battesimo e la prima Comunione nel giorno di San Pietro, il 29 giugno 1945, alla Casa dell'Orfano di Trastevere. Nello stesso giorno ricevette anche la Cresima in San Giovanni in Laterano da mons. Edoardo Tonna; padrino fu il senatore Antonio Boggiano Pico. Finito il corso magistrale, l'11 ottobre 1947, Giuseppe fece ingresso in Congregazione con la vestizione e con il successivo noviziato presso il Centro Don Orione di Monte Mario. (35)
Le tre sorelle di Bruno Camerini furono sistemate presso un istituto di Suore della Circonvallazione Appia, come narra Don Piccinini: «Vi era un nido di orfanelli ebrei in Trastevere. Vi fu un momento in cui, chiusosi all'approssimarsi della bufera, i suoi ospiti si trasferirono in gran parte nella casa di Via Induno. E altri, e altri vi piovvero, specie dopo il triste 16 ottobre, sempre del '43».(36)
Il capitolo intitolato Brunetto (37) è tutto dedicato a Bruno Camerini, che Don Sorani ricorda bambino tra gli ospiti della Casa dell'Orfano a via Induno e che da Don Piccinini era stato incaricato di rispondere al telefono, quando la comunità era in chiesa a pregare, per rispetto alla sua fede e per dispensarlo così dal partecipare alle funzioni. Una sua lettera è apparsa su Don Orione oggi per ricordare l'opera di Don Piccinini a favore degli Ebrei: «Le mie sorelle ed io, desiderando ricordare la figura di Don Piccinini, abbiamo deciso di far piantare a suo nome, 80 alberi in Israele a mezzo del Keren Kayemet Leisrael (Fondo Nazionale Ebraico). Abbiamo fatto tale scelta in quanto desideriamo che il suo nome sia ricordato più a lungo possibile e anche oltre la nostra vita terrena. Noi abbiamo deciso di far piantare gli alberi nello Stato d'Israele, non solo in quanto ebrei, ma anche perché Egli, intervenendo per la salvezza di molti di noi, partecipò indirettamente alla fondazione di tale Stato! Infine abbiamo voluto ricordarlo come segno di riconoscenza verso tutti coloro, persone fisiche e Opere Religiose, che hanno salvato la vita ad ebrei durante l'occupazione tedesca. Con i più deferenti saluti. Bruno Camerini».(38)
L'OPERA INSTANCABILE DI DON GAETANO PICCININI
Sempre Don Piccinini in Roma tenne il respiro precisa come «nella Casa trasteverina di via Induno, (39) aperta agli orfani dell'Opera Don Orione» vi furono molti Ebrei, «riparativi in quell'ora e dei quali è impossibile ricordare financo i veri nomi. Poiché, come già si è detto, ai grandi come ai piccini, si dava, al loro entrare nella casa, un nome convenzionale: tutto il resto si ignorava e si voleva ignorare: non una elencazione riservata era in atto, non un registro. Sarebbero state pericolose cognizioni e pericolosissimi registri in quell'ora per chi poteva, da un momento all'altro, essere condotto alle torture di via Tasso.» (40) Per dare spazio ai giochi delle centinaia di ragazzi ospitati, si ottenne dal comune di chiudere largo Ascianghi. «Minerbi ne disegnerà la parte prospiciente il Ministero della Pubblica Istruzione, con al centro la bella edicoletta che accoglie l'immagine della “Mamma degli orfani”, con sotto l'invocazione: Hos / tuos puerulos / refove / o dulcis Mater / Maria. (Questi tuoi bambini rianima o dolce Madre Maria) ». (41)
Nel capitolo, Il piccolo venuto da Kiew , Don Piccinini parla di una spiata da parte di un tredicenne sbandato, senza nessuno, che da Kiew era giunto a Roma e finito nel correzionale Aristide Gabelli, e poi accolto in prova alla Casa dell'Orfano, per interessamento di un cappellano. «Dopo un paio di mesi, quel piccolo, scomparso inesplicabilmente per qualche giorno, ricomparve poi a un crepuscolo, armato, alla testa di facinorosi, a indicare alcuni adolescenti ebrei che egli aveva potuto in quelle settimane individuare e pure alcuni adulti rifugiati nelle due case: quella di via Induno e quella di Monteverde».(42) Quattro piccoli ebrei furono presi e anche altri adulti furono condotti in caserma, ma tutti provvidenzialmente riuscirono a fuggire. Don Piccinini conclude il capitolo così: «Di altri che si muovevano nella Casa dell'Orfano in quei mesi dovremmo dire. Di uno per esempio che avrebbe dovuto starsene nascosto, riguardato, mentre egli entrava con gran schiera nella cappella della Casa dell'Orfano, e adunava attorno alla Madonnina di Don Orione, la spiritualmente più splendente turba… quella dei Poveri, i “sanctorum pauperum greges” per la Messa domenicale. Ma chi? La Pira , proprio l'on. Giorgio La Pira ».(43) Quest'ultimo, è chiaro, non era ebreo, ma anche lui nascosto, per motivi politici.
Nel capitolo, Il piccolo Coen , si parla di un ragazzo dodicenne ebreo, prima ribelle, e poi docile per mezzo del metodo cristiano-paterno di Don Orione, affidato come fu alle cure di uno degli ospiti, fra i tanti dell'Istituto San Filippo Neri, l'ing. Roberto Tovini, vedovo di moglie ebrea, molto addentro nella mentalità semitica e votato a far loro del bene. (44)
Nell'Archivio dell'Opera Don Orione si trova una lettera della signora Raffaella Lantini, moglie del Ministro delle Corporazioni al tempo del Fascismo, Ferruccio Lantini, in data Santo Stefano 1943: «Caro Don Piccinini, entro subito nell'argomento. Voi già avete parlato con la Sig.ra Ottolenghi. Sapete dunque di che si tratta. Soltanto che la cosa è di ora in ora sempre più urgente. Questi sventurati sono cari amici nostri. Ci piange il cuore di vederli in quelle condizioni. Siamo certi che voi farete tutto il possibile per metterli in condizione di avere un poco di sollievo. Io non vi prego dunque, poiché conosco il vostro grande cuore. Li metto solo nelle vostre mani e sotto la protezione di Don Orione. La Sig.ra Ottolenghi verrà da voi nella mattinata. Che Iddio vi illumini. La mia, la nostra affettuosa riconoscenza. Raffaella Lantini».
Il Presidente dell'Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Avv. Giuseppe Ottolenghi, nel Decennale della Liberazione, insieme al Presidente della Comunità Israelitica di Roma, consegnerà a Don Piccinini un attestato dov'è scritto: MCMXLV-MCMLV. Gli Ebrei d'Italia riconoscenti a Don Gaetano Piccinini.
A GENOVA
È passato ormai più di mezzo secolo dagli anni della persecuzione degli Ebrei in Italia, che raggiunse il culmine a partire dagli anni Quaranta. Nelle case di Don Orione tutti si sapeva che c'erano molte persone nascoste sotto vari pseudonimi e con i più diversi incarichi, ma solo i superiori conoscevano la loro vera identità e provenienza, e nessuno parlava.
A Genova Castagna, ho conosciuto un signore, di nome Gino Luria, che ricopriva molti incarichi di economato, come il controllo delle tessere annonarie per il pane, il tabacco e altri generi di prima necessità. S'interessava anche di far evaporare elettricamente dell'acqua marina in ampie vasche di minima profondità per ricavarne il sale, che allora era introvabile. Era anche un bravo pittore e lo vidi intento a fare dei disegni che riguardavano le stagioni dell'anno, che per tanti decenni ho visto poi utilizzati per illustrare le testatine del Romito dell'Appennino , pubblicato dalla Tipografia San Giuseppe di Tortona. A Castagna, furono accolti, in quella specie di casa-famiglia ante litteram, anche due bambini ebrei sui 10-11 anni, come mi ha detto Don Terzi. Il direttore del Paverano di Genova, Don Enrico Sciaccaluga, in contatto con la Curia Arcivescovile , in cui erano attivi mons. Siri e mons. Repetto, accompagnerà diversi ebrei in istituti religiosi dove riusciranno a sfuggire alle persecuzioni. Anche un gruppo di Ebrei incarcerati furono affidati per un certo periodo, in domicilio protetto, alla casa di Camaldoli, alla responsabilità di Don Netto.
Don Aldo Viti ricorda l'attività a favore degli Ebrei a Genova di cui fu protagonista anche Ferruccio Fisco. (45)
«Il Piccolo Cottolengo era già stato semidistrutto, la notte del 7 novembre del 1942: oltre cento spezzoni incendiari si erano accaniti a incendiarne diversi reparti a partire da quello delle ammalate croniche, del SS.mo Crocifisso, San Camillo, Orfanelle, Buone Figlie, sala soggiorno, magazzino viveri, lavanderia. Provvidenzialmente nessun danno ebbero le 500 persone ricoverate.
In quegli anni, accanto alla carità verso gli assistiti, fu necessaria la carità verso gli Ebrei che rientravano al seguito dei nostri soldati fuggiti dalla Francia attraverso il confine col Piemonte. Ebrei singoli o con le famiglie, francesi, tedeschi, belgi, austriaci, braccati dai tedeschi e più avanti dai repubblichini in ottemperanza alle leggi contro la razza ebraica.
Il Vescovo di Cuneo interessò altri vescovi tra cui l'arcivescovo di Genova, card. Pietro Boetto, il quale a sua volta incaricò il suo segretario, il sacerdote Francesco Repetto per trovare un alloggio, accompagnarvi i poveri perseguitati, ignari tra l'altro della lingua italiana, procurare loro vitto, vestiario, eventuali cure mediche e contemporaneamente fabbricare documenti falsi, inventando nuove identità, per poi avviarli verso la Svizzera , vista come un'ancora di salvezza. È ovvio che un passo falso poteva costare la vita, voleva dire esecuzione immediata.
Don Sciaccaluga trovò nel fondo dell'ampio terreno del Paverano una casetta che, se non andiamo errati, si può vedere ancora oggi. Due suore di Don Orione, Suor Filippina e Suor Bennata, furono addette al vitto, al vestiario, alla lavanderia. Per qualche trasporto dalla stazione Principe provvedeva fratel Carminati col suo motocarro. Ma per rapporti delicati e pericolosi ci si serviva di un ragazzo lesto e disinvolto che non doveva destare sospetti nei suoi giri in curia da Don Repetto, in comune, all'ufficio anagrafe, appunto Ferruccio Fisco.
Una lettera indirizzata alla Comunità Ebraica di Genova in Via Bertora, datata 12 marzo 1999, ci svela l'identità del piccolo galoppino coraggioso.
"Ill.mo signor Presidente, ieri giovedì 11 marzo ho assistito, seppure brevemente e in modo fugace (mi ero sentito un intruso senza alcun invito al kippur), all'interessante cerimonia presso la Vostra Sinagoga che ha permesso lo storico incontro tra la vostra Comunità e l'arcivescovo di Genova Card. Tettamanzi.
Questa circostanza mi ha portato a ricordare alcuni momenti della mia adolescenza, ritengo tra il 1943 e il 1944, anni oscuri della occupazione nazista, quando ero ospite dell'Istituto Paverano di Don Orione a Genova.
Io sono quell'ex-ragazzino, all'epoca quattordicenne, che accompagnava quelle persone di stirpe ebraica a nascondersi presso vari Istituti Religiosi della città per sfuggire alle persecuzioni hitleriane. Queste persone mi venivano consegnate dall'umile prete Don Repetto e da Mons. Siri, ausiliare del Cardinale Boetto.
Data l'età non ho mai pensato ai pericoli che avrei potuto correre: erano persone a me sconosciute. Per me era un doveroso servizio da eseguire. Ho voluto esternare questi momenti dolorosi anche per poter dire - seppure da modesto esecutore - "La storia siamo tutti noi".
Vi saluto cordialmente. Ferruccio Fisco Via F. Dassori,147- Genova”. (46)
A completamento di questa vicenda disponiamo di due scritti, rispettivamente di Don Enrico Sciaccaluga e di mons. Francesco Repetto, già pubblicati sul bollettino del Paverano nel 1983, quando si potevano ormai pubblicare senza pericolo di rappresaglie.
Sintetizzando per ovvi motivi diciamo che Don Sciaccaluga ricorda il percorso dei poveri perseguitati: Francia, Cuneo, Genova, Sua Eminenza il Card. Pietro Boetto, il quale affidò questo ufficio quanto mai delicato a mons. Repetto.
Don Sciaccaluga parla quindi di fratel Carminati,(47) che di solito faceva il trasporto sul suo motocarro Guzzi 500, coperto da un tendone dalla stazione ferroviaria al Paverano. Dice Don Sciaccaluga: "Tutto si svolgeva col massimo riserbo: oltre al direttore, suor Filippina, suor Bennata e fratel Carminati, nessun'altra persona ne era a conoscenza".
E aggiungeva: "Degli ospiti o persone isolate, di diversa età e condizione sociale, nessuno conosceva la lingua italiana; solo qualcuno il francese. Si presentavano inevitabilmente difficoltà che si superavano con la migliore, delicata attenzione e a gesti, ma soprattutto con quell'apertura di cuore, ispirata dalla fede, che sollevava gli animi di persone oppresse, braccate dall'odio, le quali erano fraternamente accolte nel nome di Cristo".
Delicata la lettera di Don Francesco Repetto, indirizzata a Don Sciaccaluga in data 7 marzo 1983.
“Molto reverendo e caro Don Sciaccaluga,
la ringrazio di cuore per avermi consentito di leggere la bozza dell'articolo che segna il ricordo di una delle innumerevoli opere di carità che gli Orionini hanno compiuto nel mondo, in questo secolo che li ha visti sorgere, e nella città di Genova, (Mi piace chiamarli Orionini: il nome è di un grande, e il diminutivo aleggia la semplicità e la mitezza dei discepoli).
L'impresa , di cui Ella con parole discrete fissa la memoria, fu quella di una carità che era preparata e pronta ad ogni rischio. Io mi permetto aggiungere una doverosa testimonianza. E cioè che quel servizio di carità fu costante, per quanto durarono gli interminabili mesi di terrore, e del tutto disinteressato.
Fu soprattutto di una gentilezza squisita.
Ricordo che quando, con una certa perplessità, sia per il pericolo cui si esponevano le case del Piccolo Cottolengo, sia perché esse avevano già accolto parecchi rifugiati, venivo a chiedere a Lei, allora Superiore, un caldo nascondiglio per i trepidanti fuggiaschi, Lei, con un cenno cortese, immediato, naturale, mi rispondeva sempre di sì, senza provare insofferenza, senza imporre scadenze, senza chiedere garanzie. Ricordo infine che a quegli innocenti perseguitati a morte, Lei dava non soltanto le pareti di una stanza nascosta, ma la Sua riconfortante compagnia.
Lo stesso Card. Boetto era rassicurato, sapendo della prudenza e della generosità dei discepoli di Don Orione.
Molti anni sono passati, e la storia dell'umanità e della nostra povera vita è stata messa a parte di altre sofferenze e di altre malvagità.
Ma nel mondo, accanto a noi, c'è anche Don Orione con la schiera dei suoi figli. Sono sempre dalla parte del dolore e degli afflitti. Sono sempre nell'oblio di sé medesimi. La vostra scelta, umile e definitiva per la carità, fa di voi, figli e figlie della Divina Provvidenza, così umili e semplici, i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori, l'onore della Chiesa, salvatori e salvatrici con il Salvatore.
Accolga, molto Reverendo e caro Don Sciaccaluga, il mio commosso, riconoscente saluto. Suo Sac. Francesco Repetto”. (48)
Ancora un ricordo di quel periodo.
Il disegno di un crocefisso con un uomo ginocchioni circondato da ruderi, la scritta De profundis clamavi , la data 17.XI.43 e le iniziali dell'autore C.F. Una scritta in francese che si affianca al disegno dice:
"Da molti anni camminiamo, il pericolo sempre dietro di noi. Dentro una valigetta e una borsa il nostro ultimo povero bagaglio, gli ultimi nostri beni. E sulle nostre teste le nuvole e le folgori del mondo: De profundis clamavi ad te Domine. E il Signore ci ascolta e ci protegge a mezzo della sua santa Chiesa. Ecco quello che io ho cercato di disegnare, come piccolo segno di riconoscenza per voi e per Don Repetto".
Dell'autore di questo prezioso disegno, si sa solo che non era cristiano, che era un giornalista ebreo, austriaco e che lasciò questa memoria che parla da sola.
ANCHE IL CARDINALE GIACOMO LERCARO
Non solo gli Ebrei furono aiutati e protetti nelle case di Don Orione, ma anche molte persone che si erano impegnate a difenderli e a nasconderli e perciò si erano seriamente compromesse ed erano a loro volta ricercate, come capitò a Genova-Camaldoli a Don Giacomo Lercaro che fu ospite, con nome cambiato, dell'Istituto di Don Orione per alcuni mesi, come ricorderà lui stesso quando diverrà arcivescovo di Bologna.
In una lettera, pubblicata su «Avvenire» del 31 ottobre 1976, il card. Lercaro così rievocava quella esperienza.
«Ero stato qualche volta a Camaldoli da giovane Seminarista nelle consuete passeggiate del giovedì; il seminario del Chiappeto non era molto lontano.E sempre mi aveva rattristato il vederne l'abbandono, che ormai sembrava definitivo… Possibile che finisse così un luogo santificato dalla preghiera e dalla austera vita di mortificazione di tante anime sante?
E vi tornai, fuggiasco, per il temuto arresto da parte delle S.S., sulla fine del '44, rifugiato tra i rifugiati. La preghiera silenziosa dei Camaldolesi, dopo lunghi anni di apparente morte nel solco, germogliava e, sotto l'alacre opera di Don Orione, fioriva in carità squisita. Camaldoli, oasi di silenzio, era ora giardino di carità.
Mi fu facile inserirmi, anche se le singolari circostanze che mi avevano spinto fin là non mi consentivano neppure di rivelare il mio vero nome: ero divenuto – con regolari documenti – P. Lorenzo Gusmini dei Redentoristi, nato a Taranto nella Parrocchia di N. S. del Carmine! Il bimbo, che ogni mattina a buon'ora mi serviva la Messa , mi chiamava dal giardino: “Padre Lorenzo, venga: tutto è pronto!” E Padre Lorenzo, detta la sua Messa, rientrava nella solitudine della cella per rivivere nel calore della carità che lo ospitava, lo difendeva e lo confortava, la vita degli antichi ospiti di Camaldoli: studio e preghiera. A Camaldoli fu ultimato così il mio libro sui Metodi di orazione mentale .
Solo una volta celebrai nella Chiesa grande: la trovai dedicata a S. Anna. Ne ebbi gusto. Avevo lasciato la Reggia della Madonna – la mia Immacolata – e trovavo l'umile casa di sua Madre.
Mi fu impossibile tornare ancora a Camaldoli: ma l'ho nel cuore come un lieto ricordo. E benedico a quanti vi trascorrono, nell'alone della carità, i loro giorni. Giacomo card. Lercaro, Arcivescovo. Bologna, 21 gennaio 1965».(49)
Il segreto sull'identità dei rifugiati, che era una necessità in quei tempi tragici, rimase molte volte tale anche dopo la Liberazione , perché tutti i beneficati tornarono alla vita familiare e civile di gran corsa, appena possibile, e i benefattori non ne diffusero le avventure, memori del monito evangelico che consiglia che, quando si fa del bene, neanche la mano sinistra deve sapere quello che fa la destra.
DON GIUSEPPE POLLAROLO A TORINO
Durante la persecuzione contro gli Ebrei Don Giuseppe Pollarolo si trovava a Torino, collaboratore della “Carità dell'Arcivescovo” Maurilio Fossati, attivo nella pastorale del mondo operaio, presente sempre nelle situazioni di emergenza, là dove irrompe il bisogno. Non poteva mancare all'appuntamento con la tragedia degli ebrei perseguitati dai nazisti e dalle leggi razziali fasciste. Anche la comunità cattolica torinese, guidata dal suo Arcivescovo, rispose all'appello di Pio XII per l'aiuto e la salvezza degli ebrei. Fu attuata una capillare (parrocchie e conventi, case religiose, sacerdoti, parroci, religiosi e religiose, laici…) e rischiosa azione di soccorso(50). Il braccio destro del cardinale nell'aiuto agli Ebrei era il suo segretario, don Vincenzo Barale.
L'Ufficio Informazioni, già operante in arcivescovado dal 1942, lavorò anche per gli Ebrei. Si avvalse, tra l'altro, della collaborazione di giovani dell'Azione Cattolica della parrocchia di Lucento che con un apparecchio ricevuto in dono dalla Società Philips di Alpignano, captavano i messaggi della Radio Vaticana, in giornata li trasmettevano agli interessati, riservandosi di consegnare personalmente ai parroci quelli più delicati. Un corriere partiva per Milano per consegnare al console svizzero i messaggi per il sud d'Italia: giungevano in Vaticano, passando per la Svizzera e la Spagna. (51)
All'arcivescovado arrivavano le più diverse richieste di soccorso degli ebrei. Non raramente si trattava di trovare loro un rifugio sicuro. Per questo tipo di soccorso don Barale ricorse anche a don Pollarolo, che in proposito ha dichiarato: “Mons. Barale mi ha più volte chiamato a collaborare con lui per la sistemazione di Ebrei, singoli e famiglie, in pericolo di persecuzione. A suo nome ho sistemato Ebrei presso il Convento delle Suore Carmelitane in Val S. Martino(52) a Torino, dove in quel tempo ero anch'io ospite. Ho avviato e, qualche volta ho trasportato in macchina Ebrei in altre Case, fuori Torino, dell'Opera Don Orione. Io non ho mai ricevuto denaro neanche come rimborso spese”.(53)
Circa l'aiuto prestato da don Pollarolo agli Ebrei tramite le Suore Terziarie Carmelitane di Val San Martino ci informa la Cronaca della casa. Don Pollarolo fece da intermediario anche perché era ospite, dal 12 marzo 1943, nel noviziato delle suore, per le quali celebrava quasi quotidianamente la messa: “Nel frattempo essendo infierita la persecuzione contro gli Ebrei ed avendo nella casa parecchi locali vuoti, Mons. Barale, Segretario dell'Em.mo Cardinale, ci pregò di offrire segreta ospitalità ad alcuni di essi. Ricoverammo tre famiglie (esclusi però i bambini), due Signorine, una Signora, un vecchietto e un giovane padre discendente di Ebrei, ma nato da famiglia cattolica”. (54)
Più avanti la Cronaca ci fornisce altre notizie sugli Ebrei in occasione dell'arresto di don Pollarolo, avvenuto il 26 giugno 1944, e della successiva perquisizione della sua camera nel noviziato carmelitano: “Il 26 giugno, verso le ore diciotto, i Repubblicani arrestarono il M. Rev. Don Pollarolo, per accuse politiche, e lo tennero in carcere (Caserma di via Asti) fino al 12 luglio. Oh la sera del 26 giugno! Erano quasi le 21 e 30 e noi stavamo per andare in chiesa a recitare le commemorazioni dei nostri santi, quando giunse l'ingegner Guala, chiamò la Madre Priora , le comunicò la triste notizia e la consigliò di licenziare immediatamente i signori Ebrei, perché c'era probabilità che tra poche ore la casa fosse oggetto di perquisizione da parte della polizia. E' facile immaginare la dolorosa impressione che tale notizia produsse nel cuore di ogni suora e soprattutto in quello dei nostri infelici pensionanti! In men che non si dica si prepararono ciascuno il suo fagottino e…partirono in cerca di un ricovero per la notte, che era già incominciata, e per i giorni seguenti. Per quella sera andarono dalle nostre suore in Corso Farini; il giorno dopo alcuni andarono in casa Madre e altri in Clinica Pinna-Pintor. Dopo una settimana, essendo scomparso ogni pericolo, ritornarono. Noi ci fermammo fino alle 23 per mettere un po' d'ordine nelle loro camere […]. Quattro giorni dopo, 30 luglio (sic!) [ma giugno], verso le nove antimeridiane, si presentarono alla porta due individui i quali, in nome della polizia, chiesero di perquisire la camera di Don Pollarolo. Li accompagnarono ed assistettero la Rev. Madre generale e la M. Priora. Rovistarono nei cassetti per circa mezz'ora, presero alcuni fogli stampati, poi se ne andarono, dandoci buona speranza che presto il reverendo sarebbe lasciato in libertà. La cosa veramente non fu così breve, perché durò 17 giorni; comunque grazie a Dio, finì bene e Dio, che sa ricavare il bene dal male, da questa circostanza ne ricavò un po' anche per noi! […]”.
Nelle iniziative di Mons. Barale fu coinvolto anche l'Istituto orionino di Alessandria, di Piazza San Rocco. Don Giambattista Lucarini, scrive a Mons. Barale in data 15.11.1945: “la informo che i due ebrei, non avendo potuto trovare altrove sistemazione, li ho sempre tenuti con me; essendo due ottime persone, mi dispiaceva metterli fuori dell'Istituto senza averli prima sistemati, in qualche modo. Ora però, sono riusciti a preparare tutti i documenti e nella settimana prossima partiranno per la Francia ”. (55)
All'indomani della guerra gli ebrei torinesi espressero la loro riconoscenza all'arcivescovo per quanto la Chiesa torinese aveva fatto per loro. Il 15 maggio 1945 l'ingegner Eugenio Zorzi, a nome della Comunità Israelitica di Torino, scriveva: “Nell'atto di assumere l'amministrazione straordinaria della Comunità israelitica di Torino, a nome di tutti i correligionari ed a nome mio proprio sento il dovere di presentare a S. Eminenza l'espressione della nostra riconoscenza e gratitudine per l'assistenza continua, illuminata e generosa prestata nei tristi giorni della persecuzione ai membri della nostra Comunità con nobile spirito di fratellanza e con esemplare comprensione da V.E. e dalla Autorità ecclesiastica dipendente e in genere dagli Ecclesiastici tutti. Colgo l'occasione per porgere all'E.V. i sensi del mio massimo ossequio. Obbl.mo… Il Commissario Ing. Eugenio Zorzi(56).
L'opera di don Pollarolo fu un tassello di quel magnifico mosaico di soccorso agli Ebrei realizzato dal clero e dai cattolici torinesi.
CONCLUSIONE
Dalle notizie raccolte con ricerca accurata, ma non certo esaustiva, si ha la misura di come l'aiuto agli Ebrei durante il tempo dello sterminio costituisca una pagina importante della vita della Piccola Opera della Divina Provvidenza e di alcuni suoi figli in particolare. Resta da riflettere sulle motivazioni che hanno animato un tale impegno rischioso, nascosto e sacrificato.
La prima motivazione può essere riconducibile al senso umanitario risvegliato nel momento che si vedono persone in pericolo di vita, bisognose di aiuto, di rifugio, di affetto. Tali erano gli Ebrei quando si scatenò la tempesta omicida contro di loro.
Certamente influì poi la visione e la pratica della carità cristiana inculcata da Don Orione che ripeteva, tanto per ricordare una frase molto nota, “la carità di Gesù Cristo non serra porte; alla porta del Piccolo Cottolengo non si domanda a chi viene donde venga, se abbia una fede o se abbia un nome, ma solo se abbia un dolore! Siamo tutti figli di Dio, tutti fratelli”.(57) Don Orione applicò questa apertura anche agli Ebrei quando, nel 1939, egli seppe del pericolo che essi correvano dopo l'invasione della Polonia: “Si sa che là ci sono parecchi milioni di Ebrei: preghiamo anche per gli Ebrei: tutti siamo fratelli!». (58) Egli morì all'inizio del 1940, ma fu spiritualmente istintivo per gli Orionini rivolgere, nel momento del bisogno, la loro accoglienza e le loro cure anche agli Ebrei minacciati di morte.
C'è infine una terza motivazione di tipo ecclesiale , molto specifica e stimolante, che mise in moto gli Orionini: l'aiuto agli Ebrei era voluto dal Papa e lo attuavano i Vescovi. E' noto come Pio XII e numerosi Vescovi italiani durante l'occupazione nazista hanno messo in moto molte iniziative di protezione degli ebrei. Einstein, già nel 1940, riconobbe: “Soltanto la Chiesa Cattolica si oppose alla campagna di Hitler”. Lo storico e diplomatico Emilio Pinchas Lapide ha scritto che la " La Santa Sede , i Nunzi e la Chiesa cattolica hanno salvato da morte certa tra i 700.000 e gli 860.000 ebrei". Golda Meir, a lungo ministro e capo del governo israeliano, alla morte di Pio XII, affermò: "Quando il terribile martirio si abbatté sul nostro popolo, la voce del Papa si levò per le vittime. La vita del nostro tempo fu arricchita da una voce che chiaramente parlò delle grandi verità morali al di sopra del tumulto quotidiano".(59) L'opera di ecclesiastici come Montini e Tardini in Vaticano, il Card. Schuster a Milano, Fossati a Torino, Boetto e Lercaro a Genova ha scritto nobili pagine di storia, a fatica tratte dall'oblio in cui la necessaria discrezione le aveva custodite.
Gli Orionini che professano un IV voto di “speciale fedeltà al Papa” e sono animati da un “sensus Ecclesiae” che li spinge a realizzare “non solo i comandi ma anche i desideri dei Pastori della Chiesa” e a “dare consolazioni ai Vescovi”, si attivarono come meglio poterono in soccorso degli Ebrei condividendo pienamente le indicazioni di Pio XII e le richieste di collaborazione dei Vescovi nelle città ove operavano. Cioè, per loro, oltre che un fatto umanitario e di carità evangelica, l'aiuto agli Ebrei fu un'espressione di vita ecclesiale.
“M antenere viva la memoria di quanto è accaduto è un'esigenza non solo storica, ma morale – ha affermato più volte Papa Giovanni Paolo II - . Non bisogna dimenticare! Non c'è futuro senza memoria. Non c'è pace senza memoria!" . (60) Sono passati 60 anni da quegli eventi terribili. E' giusto che la memoria dell'azione della Chiesa(61) e degli Orionini, nel loro piccolo e generoso contributo, possa educare ad atteggiamenti e valori indispensabili per un futuro di fraternità e di pace.
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N O T E
(1) Giovanni Marchi , già professore di lingua e letteratura francese all'Università La Sapienza di Roma, ex allievo e amico di Don Orione. Flavio Peloso , postulatore e responsabile degli archivi orionini.
(2) Scritti 114, 285.
(3) Lettera a Don Dutto 1.3.1939, Scritti 29, 249.
(4) Scritti 67, 62.
(5) Informatio ex processu , 735.
(6) Informatio ex processu , 338.
(7) Informatio ex processu , 490. « In Genova si fanno lavori per più di mezzo milione. Ultimamente l'ebreo Gonzalez, il Direttore generale della Società Edison... Il Genovese dà e tace; il Milanese dà e vuole, e cerca la pubblicità. A Milano abbiamo un clima molto favorevole », Riunioni 1937, p.185.
(8) Informatio ex processu , 491.
(9) Informatio ex processu , 492.
(10) Buona notte del 9 Gennaio 1939, Parola X, 35.
(11) Discorso del 17 Gennaio 1939, Parola X, 39. Dal Diario dell'Istituto di Via Sette Sale , Roma: «10 Martedì: Giunge da Tortona il Superiore Don Orione. Viene per fare un battesimo di un ebreo convertito. A cena è con noi mons. Capasso di S. Maria Maggiore. 12 Giovedì: Alla messa di Don Orione è ad assisterla il Ministro Lantini col comm. Malcovati e un altro Signore. I primi due fanno devotamente la S. Comunione. Dopo la S. Messa si trattengono con Don Orione mentre prendono un po' di colazione.
Nel pomeriggio Don Orione accompagnato da Malcovati si porta in casa dell'ebreo che deve battezzare. È uno dei più ricchi di Roma, ha nome Coen, più volte milionario. È amico del Ministro Lantini e Don Orione, per invito di quest'ultimo, si è portato a Roma per battezzarlo. Ci raccontò come dopo la cerimonia si sia messo a piangere dalla commozione».
(12) La cosa fu ulteriormente aggravata dal fatto che il Re, la corte e alcuni membri del Governo, per il timore di rappresaglie, abbandonarono la Roma rifugiandosi nel più sicuro Meridione d'Italia.
(13) Su questa pagina di storia, si veda: S. Zuccotti, Il Vaticano e l'Olocausto in Italia , Mondatori, Milano, 2001; M.L. Napoletano, Pio XII tra guerra e pace. Profezia e diplomazia di un Papa (1939-1945) , Città Nuova, Roma, 2002.
(14) Cfr. P. Blet, Pio XII e la seconda guerra mondiale , San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999, p.282.
(15) Questo numero di rifugiati in case religiose risulta provato dall'inchiesta fatta nell'ambito del Convegno organizzato a Roma, il 24 settembre 2003, dal Coordinamento Storici Religiosi e dedicato a questo specifico tema, cui ha contribuito anche la presente ricerca; notizie in “Avvenire”, 23.9.2003, p.29.
(16) Mons. F. Repetto, Paolo VI, ricordi e presagi, in “Fides nostra”, ottobre 1963. E' da notare che mentre Re e Governo avevano abbandonato Roma, Pio XII vi rimase nonostante fosse noto che Hitler – come egli stesso confidò – una volta arrivato a Roma avesse in progetto di ripulire il Vaticano, prendere prigioniero il Pontefice e trasferirlo in Germania. In quella grave situazione, Pio XII “fu il solo e autorevole punto di riferimento della popolazione romana abbandonata a se stessa dalla legittima autorità civile”; G. Sale, Roma 1943: occupazione nazista e deportazione degli ebrei romani , “ La Civiltà Cattolica ”, 2003, quad. 3683, pp.417-429.
(17) F. Peloso, Un prete nel Lager , p. 61, n.3. Parola di Don Orione 18.9.1939, XI p.131. Cfr. anche Scritti di Don Orione 78, p.130-131.
(18) Cfr Luciana Frassati Gawronski, Il destino passa per Varsavia , Milano 1985, Boleslaw Majdak, Storia della Congregazione dei Sacerdoti di Don Orione in Polonia , Tesi della Gregoriana, Roma 1885, p. 192 e Anzelm Weiss, Don Orione incontra la Polonia , in Aa. Vv., Don Orione e il Novecento , Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 172.
(19) F. Peloso, Un prete nel Lager , p.106-107. Bruna Gregorat, era nata a Joannis di Aiello del Friuli (UD), l'11 ottobre 1933, da Lino e Maria Ceccato. Entrò in Congregazione il 2 luglio 1948; fece la prima professione l'8 dicembre 1952 assumendo il nome Maria Eustella.
(20) Gaetano Piccinini, Roma tenne il respiro , Ars Graphica Orionea, Roma, 1954, pp. 368.
(21) Roma tenne il respiro , cit., p. 34.
(22) Informatio ex processu , 661-662.
(23) Arrigo Minerbi (Ferrara 1881 – Padova 1960) fu uno dei più grandi scultori del Novecento. E spresse una scultura dello spirito: qualcosa di addolcito e di musicale nella materia, un virtuosismo tecnico notevole, l'abitudine a presentare con cura i volumi giovarono all'espressione pratica e quasi al culto del patetico e d'un languido dolore. Le sue opere sono presenti in piazze, chiese e musei di tante città italiane. I l suo Don Orione morente (al Piccolo Cottolengo milanese in marmo e al Santuario della Madonna della Guardia a Tortona in bronzo) è considerato uno dei suoi massimi capolavori, unitamente alla statua di Maria regina dell'universo, posta sulla collina di Monte Mario benedicente su Roma.
(24) Cfr Serafino Cavazza, in Aa. Vv., In memoria di Don Piccinini . A cura di Don Giuseppe Zambarbieri, Edizioni Don Orione, Tortona 1982, p. 206.
(25) Roma tenne il respiro , cit., p. 125.
(26) Testimonianza di Don Ignazio Cavarretta.
(27) Arrigo Minerbi, La medaglia di Don Orione, la “piastrina del soldato”. Appendice II in Giovanni Marchi, Un grande scultore del Novecento: Arrigo Minerbi , in «Messaggi di Don Orione», n. 106, 4, 2001.
(28) Questo bassorilievo della medaglia è conservata nella Curia degli Orionini a Roma, nel corridoio degli uffici della Direzione Generale; raffigura la testa di Don Orione di profilo, con gli occhi socchiusi.
(29) Roma tenne il respiro , cit., p. 25-26.
(30) Ivi , p. 33-34.
(31) Cfr. Roma tenne il respiro , cit., capitolo Figli di Sion , p.33-35.
(32) Furono perquisiti nella stessa notte tra il 21 e il 22 dicembre sia il Collegio Lombardo che il Russicum. Pio XI confidò, sconfortato, a Padre Martegani, direttore de “ La Civiltà Cattolica ” che “non faceva più affidamento nella sicurezza dei rifugi ecclesistici” inizialmente rispettati dai Tedeschi; cfr G. Sale, Roma 1943: occupazione nazista e deportazione degli ebrei , cit., p.426.
(33) Mons. F. Repetto, Paolo VI, ricordi e presagi, in “Fides nostra”, ottobre 1963.
(34) Ibidem .
(35) Si veda l'intervista a Don Giuseppe Sorani nel documento “Un ebreo in convento”, a pp. .. ..
(36) Roma tenne il respiro , cit., p.44.
(37) Roma tenne il respiro , cit., p.47-53.
(38) Don Orione oggi , gennaio 1995, n. 1, p. 5.
(39) Così ne scrive Don Piccinini nel capitolo Nel quartiere… «de noantri» : «La casa trasteverina di Via Induno, il Governo di Badoglio, interessato, come si è detto, dalla Duchessa d'Aosta, l'aveva concessa per gli orfani, per i ragazzi sbandati. Per questo prese il nome di «Casa dell'Orfano». Una grande casa tutta trasparente di vetri e lucida di marmi, ma, subito dopo il 25 luglio, aveva subito un saccheggio che l'aveva privata di tutto.» Roma tenne il respiro , cit., p. 37-45. La Casa dell'Orfano di Via Induno svolse la sua funzione educativa con scuole elementari e di avviamento per alcuni decenni fino agli anni 70, quando fu riconsegnata alle autorità competenti. .
(40) Ivi , p. 64.
(41) Ivi , p. 69-70.
(42) Ivi , p. 86.
(43) Ivi , p. 88. Giorgio La Pira nacque il 9 gennaio 1904 a Pozzallo (RG) e si laureò in Giurisprudenza. Trasferitosi a Firenze, diventò docente di Diritto romano. Si impegnò a fondo nell'Azione Cattolica giovanile e nella pubblicistica cattolica. Dopo la guerra, nel 1945, La Pira tornò ad insegnare all'Università e collaborò nel Comitato di Liberazione Nazionale. Nel 1946 fu eletto all'Assemblea Costituente ove svolse un'opera di grande rilievo, in particolare per la formulazione dei principi fondamentali della nuova Repubblica Italiana. Nel 1947, insieme a Dossetti, Fanfani e Lazzati, dà vita a Cronache sociali , la rivista che meglio ha espresso la presenza cristiana nel difficile processo di rinascita della democrazia in Italia. Nel 1948 è nominato sottosegretario al Ministero del Lavoro. Nel 1951 interviene presso Stalin in favore della pace in Corea. Il 6 luglio è eletto Sindaco di Firenze (1951-1958; 1961-1965) e si contraddistinse per le notevoli realizzazioni amministrative e le straordinarie iniziative di carattere politico e sociale. Nel 1952 organizza in piena guerra fredda il primo Convegno internazionale per la pace e la civiltà cristiana. Fu un grande tessitori di dialogo e di rapporti internazionali. Ebbe contatti con tutti i principali leaders politici e culturali del mondo per promuovere la giustizia e la pace. Morì il 5 novembre 1977. È in corso la causa di beatificazione.
(44) Ivi , p. 183-191.
(45) Orfanello, fu accolto al Paverano all'età di 7 anni; lo accolse e aiutò Don Sciaccaluga, direttore del Piccolo Cottolengo Genovese. Restò a Genova fino al servizio militare, nel 1949. Sposatosi nel 1956, tornò a svolgere il suo lavoro al Piccolo Cottolengo come autista e vigile sanitario. E' morto il 20 febbraio 2003.
(46) Siamo grati alla vedova di Ferruccio, signora Liliana Lercari, e alle sue due figlie, di averci fatto conoscere questo prezioso documento.
(47) Fratel Luigi Carminati, vittima della sua carità senza limiti che lo spingeva a prodigarsi col suo motocarro carico alternativamente di ricoverate, di patate, di farina, a servizio degli ospiti del Cottolengo, che cadde a pochi giorni dalla fine della guerra. il 12 aprile 1945, com'è scritto nel Necrologio: Fratel Carminati Luigi, da Pagazzano (Bergano), morto per mitragliamento aereo nei pressi di Isola S.Antonio (Alessandria) nel 1945, a 32 anni di età e 5 di professione. Riposi in pace».
(48) Archivio Don Orione, cart. Don Sciaccaluga .
(49) Nacque a Genova il 28 ottobre 1891. Compì studi biblici, patristici e liturgici e divenne professore al al Seminario arcivescovile. Fu prevosto della parrocchia di Maria Immacolata dal 1937, durante il periodo dell'occupazione tedesca nella seconda guerra mondiale, si prodigò a favore dei perseguitati, e dovette egli stesso nascondersi. Nel dopoguerra fondò nella sua città un istituto di teologia per i laici. Il 10 marzo 1947 fu nominato XII Arcivescovo di Ravenna. Il 19 aprile 1952 Pio XII lo trasferì alla sede metropolitana di Bologna e il 12 gennaio 1953 divenne cardinale. Egli individuò come fulcro della vita cristiana la S.Messa : da qui scaturì anche tutto il suo lavoro episcopale di maestro e pastore. Fu anche un indiscusso protagonista del Concilio Vaticano II, prima come animatore e moderatore della Commissione liturgica poi come Moderatore del Concilio e Presidente del "Consilium ad exsequendam constitutionem liturgicam". Il 12 febbraio 1968 lasciò la cattedra di Bologna, ma fino al 1973 svolse un'intensa opera evangelizzatrice in Italia e all'estero. Morì il 18 ottobre 1976.
(50) Le notizie sono tratte da uno studio biografico di G. Tuninetti su Don Pollarolo di prossima pubblicazione. Cfr. V. Barale, Porpore fulgenti.Il cardinale Maurilio Fossati, arcivescovo di Torino e la guerra di liberazione , Castelnuovo don Bosco 1976; G. Garneri, Tra rischi e pericoli. Resistenza, liberazione, persecuzione contro gli Ebrei, fatti e testimonianze , Editrice Alzani, Pinerolo 1981; G. Tuninetti, Clero, guerra e resistenza nella diocesi di Torino (1940-1945 ), Piemme, Casale Monferrato (Studia Taurinensia, 7) 1996, pp. 42ss.
(51) Barale, Porpore fulgenti, cit., p.45.
(52) Ibidem Oltre la Cronaca scritta già citata, si è anche conservata la memoria orale della presenza di don Pollarolo e dell'aiuto prestato agli Ebrei.
(53) G. Garneri, Tra rischi e pericoli, cit., p. 129.
(54) Archivio Carmelitane: Libro Storia dell'apertura della Casa , cit., p. 27. A p.37 si legge: «7 novembre [1945] . Oggi, nella cappella del Cenacolo-Corso Vittorio Emanuele, 1, hanno ricevuto il S. Battesimo i coniugi ebrei Arton Arturo e Bice. Erano stati in questa casa dal dicembre 1943 all'agosto 1944, durante la persecuzione contro gli Ebrei. Hanno assistito all'amministrazione del S. Sacramento la Rev. Madre Raffaella degli Arcangeli e suor Maria Ernesta di Gesù».
(55) Mons. Barale postilla questa lettera: “Sotto la dicitura convenzionale “i piccoli sinistrati” si intendeva dire figli di Ebrei perseguitati dal Fascismo e dal Nazismo”. Riportato in G. Garneri, Tra rischi e pericoli , cit. p. 128-129.
(56) G. Tuninetti, Clero, guerra e resistenza nella diocesi di Torino (1940-1945 ), cit., p. 42.
(57) Scritti 114, 285.
(58) Scritti 78, p.130-131.
(59) Alla fine della II guerra mondiale, tutte le grandi organizzazioni ebraiche del mondo, i rabbini capi di Gerusalemme, di New York, di Danimarca, della Bulgaria, della Romania, di Roma, e migliaia di ebrei scampati alla persecuzione hanno manifestato il loro apprezzamento e la loro grandissima stima per quello che Pio XII aveva fatto in loro favore.
(60) Tertio millennio adveniente , 37.
(61) Il tema è tornato di attualità per le polemiche lanciate recentemente sui “silenzi di Pio XII” e della Chiesa cattolica. Sull'argomento si veda: Pierre Blet, Pio 12. e la seconda guerra mondiale negli archivi vaticani, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999, 392 p.; Andrea Tornielli, Pio XII: il Papa degli Ebrei, Piemme, Casale Monferrato, 2001, 339 p.; Rosario F. Esposito, Processo al Vicario: Pio XII e gli ebrei secondo la testimonianza della storia, 4. ed., SAIE, Torino, 1965, 319 p.; Margherita Marchione e altri, Pio XII e gli ebrei , Piemme, Casale Monferrato, 2002, 284 p.; Gaspari, Antonio, Nascosti in convento : incredibili storie di ebrei salvati dalla deportazione (1943-45), Ancora, Milano, 1999, 140 p.