Le tre frontiere di Don Pollarolo: operaia, partigiana, pastorale, spirituale.
DON GIUSEPPE POLLAROLO,
Concetta Giallongo[1]
Nato per stare sulla frontiera, ha segnato la storia di Torino
durante la guerra (1940-1945) e nei decenni successivi.
Fu pioniere della pastorale operaia alla Fiat e nelle fabbriche di Torino,
con i partigiani sui monti della resistenza
“con il breviario alla cintola e mai con il fucile”,
aperse le Case del Giovane Operaio per lenire i disagi dell’immigrazione,
artista del pennello e della cinepresa.
Fu sempre e integralmente sacerdote,
impegnato sulla frontiera di Dio e delle anime.
Don Giuseppe Pollarolo nacque a Pozzolo Formigaro (Alessandria), il 31 agosto 1907, da Giacomo e Assunta Lagazzo. Le povere condizioni economiche della famiglia lo prepararono a condividere con Don Luigi Orione, il Fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza, i “tempi eroici” della giovanissima Congregazione, segnati dalla povertà e dal lavoro assiduo, anche manuale. Il 7.12.1919 fu accolto nella Casa madre di Tortona. A Villa Moffa di Bra (Cuneo) il 25 agosto del 1920, fece vestizione e il 15.8.1926, emise i primi voti, dopo aver compiuto gli studi a Villa Moffa e poi a Venezia presso i Padri Cavanis. Frequentò la Teologia al Seminario Laterano di Roma, mentre si dedicava all’assistenza e all’insegnamento degli orfanelli e ragazzi poveri e bisognosi dell’Istituto San Filippo. Il 26 giugno del 1930 fu ordinato sacerdote. Don Orione, gli diede molta fiducia e lo incoraggiò in quella missione che era a lui congeniale: la predicazione. Infatti, dopo un breve soggiorno a Fano, dal 1930 al 1932, come assistente del Circolo giovanile e dell’Oratorio, passò a Voghera come “addetto alla predicazione”. Divenne predicatore molto noto e apprezzato. Alla possente e gagliarda eloquenza e alla voce calda e suadente, univa la testimonianza di una vita coerente con quanto andava insegnando dai pulpiti.
Dal 1942 al 1987, per ben 45 anni dunque, Don Pollarolo dimorò quasi ininterrottamente nella capitale piemontese. Il titolo per cui era più noto fu quello di “prete delle fabbriche”. Quando il cardinale Maurilio Fossati[2], su suggerimento dell’ing. Filiberto Guala, chiese all’Opera Don Orione un sacerdote, per la pastorale operaia in Torino, la scelta cadde proprio su di lui, che aveva dimostrato particolare sollecitudine per i poveri, per il popolo, per i lavoratori.
“Io mi sono trovato a fare tante cose a Torino nel campo civile e sociale – racconta Guala -. C’era bisogno di chi si occupasse dell’assistenza religiosa degli operai nelle fabbriche. Mi fu indicato Don Giuseppe Pollarolo che stava a Milano e faceva molto bene, era anche noto predicatore. Così Don Pollarolo è venuto a Torino e abbiamo cominciato insieme il lavoro nelle fabbriche. In questo campo è Don Pollarolo quello che ha fatto tutto; ma io ero il responsabile della Caritas piemontese e quindi eravamo una cosa sola. Sempre insieme. Don Pollarolo era una persona meravigliosa; ha incantato tutta Torino”.[3]
Il card. Maurilio Fossati scrisse al Superiore generale della Piccola Opera di Don Orione, in data 13 giugno 1943, una lettera autografa per compiacersi del buon operato di Don Pollarolo in una attività pionieristica difficile e promettente.
“Devo assolvere il compito di ringraziare nuovamente la S.V. per il dono fatto di D. Pollarolo a questa Diocesi. Dopo un mese di duro sacrificio per lui costretto all’inazione, mentre è pieno di tanta energia, ora gli si è aperto un vasto campo di lavoro. Fatto il primo ingresso in una fabbrica, ora tutte le porte si sono spalancate, e nonostante la sua molteplice attività non arriva più in tempo per rispondere a tutte le chiamate.
La grazia del Signore discende abbondante sui nostri operai, ed è una grande consolazione per me celebrare quasi ogni mattina in qualche stabilimento, circondato da una massa di operai che in gran parte si accostano alla S. Comunione: in alcune officine i dirigenti si confondono cogli operai.
Le lettere di ringraziamento che io ricevo dalle Società testimoniano la grande soddisfazione che queste funzioni portano a dirigenti ed operai.
Devo anche far rilevare il fine tatto di D. Pollarolo: egli ha saputo accordarsi magnificamente coi Parroci e Sacerdoti che volentieri gli danno la propria collaborazione.
E dopo questo ingresso nelle fabbriche tutti i dirigenti ci dicono che sono pronti ad accogliere “il Cappellano del lavoro”. È quindi un nuovo campo che si apre allo zelo di D. Pollarolo.
Grazie dunque vivissime di questa carità. Il Signore ricompensi. Di cuore benedico a Lei e a tutto l’Istituto.
Aff. M. Card. Fossati Arciv.”.[4]
Anche nel 1943, anno particolarmente difficile durante la guerra, onostante il clima arroventato e problematico per la caduta del fascismo, la resistenza partigiana, le incertezze politiche e militari, Don Pollarolo, da uomo di Chiesa, si mise “dentro” ai problemi e anche alle ribellioni del mondo operaio per indirizzarle alla giustizia nella carità.
Si mise a disposizione dell’Arcivescovo per operare nell’ONARMO[5] che era sorto già nel 1938 su richiesta di don Ferdinando Baldelli, direttore generale.[6] Su espressa proposta di Mons. Baldelli, nel febbraio 1943, don Giuseppe venne nominato Delegato arcivescovile per l’assistenza religiosa agli operai. La consulta, che lo stesso arcivescovo istituì nell’aprile dello stesso anno, risultò così formata: Don Giuseppe Pollarolo, delegato arcivescovile; ing. Filiberto Guala, delegato dell’ONARMO di Roma; diversi parroci torinesi; il prof. Castiglioni, il sig. Fea, il sig. Armando Sabatini. Don Pollarolo mise insieme e organizzò una squadra di quaranta cappellani per la pastorale operaia.
I parroci di Torino accolsero favorevolmente l’iniziativa, sostenuta dal loro Presidente, mons. Pinardi.[7] Nel verbale del Collegio dei Parroci dell’8 giugno 1943 si legge: «Il Presidente ringrazia Sua Eminenza che in campo così importante ha personalmente preso la cosa sommamente a cuore, dando così autorevole impulso alla nuova delicata iniziativa dell’assistenza operai nell’ambiente delle loro fabbriche. Presente il Delegato . Arcivescovile, don Pollarolo, accolto fra applausi, il quale espone, con semplicità e competenza sua propria, delle prime difficoltà incontrate e dei primi consolanti frutti».[8]
Don Pollarolo si fece amico, fratello, difensore degli operai, specialmente se conculcati nei loro diritti. Forte e consapevole che la vita è cosparsa di triboli e spine, tutto egli sapeva abbracciare per la gloria di Dio e per servire, aiutare, condurre al bene le anime. I suoi sentimenti li comunicava agli altri, soprattutto se sacerdoti, perché resistessero sotto la sferza delle incomprensioni, degli scontri, delle contrarietà d’ogni genere. Significativa la lettera diretta a Don Esterino Bosco[9], anch’egli cappellano di fabbrica, al quale scriveva in data 21.VII.1944:
«Carissimo Don Esterino, ti sono vicino e ti comprendo. Stai vivendo le mie crisi. L’utilità e la fecondità di esse saranno proporzionate oltre che al tono doloroso al grado di resistenza che tu, con la grazia del Signore,vi opporrai. Sarà questo il tempo più prezioso del tuo nuovo apostolato, forse di tutta la tua vita sacerdotale. Sei una giovane quercia lasciati scrollare, anche violentemente, dalla prova, - cadranno molte foglie e rami inutili – ma non abbattere.
Sii forte, non cercare conforti e consolazioni nelle creature anche se virtuose, devi vivere il tuo dramma a tu per tu con Dio. Solo così farai delle preziosissime scoperte e non sciuperai dei passi che dovran condurti senza deviazioni sbandatarie alla meta.
Nel mio periodo di presunta inazione ho scoperto che facevo molto celebrando la S. Messa. Ricordati che non sei in attesa, ma hai già gettato la tua rete nel mare burrascoso degli operai, non aver fretta di raccoglierla, lascia che vada a fondo, molto a fondo. Sta vicino a Guala[10] e Castiglioni[11], ti gioveranno. Ti abbraccio. Tuo Don Giuseppe Pollarolo. Salutami il teol. Saroglia[12] e D. Pignata[13]».
Appartiene al periodo dell’occupazione di Torino da parte dei tedeschi, un simpatico avvenimento. Il via vai di Don Pollarolo, da uno stabilimento all’altro, con la sua Balilla sgangherata,[14] creò dei sospetti e un giorno un ufficiale tedesco lo fermò. Non capiva l’identità di quel prete dall’aspetto dimesso e povero, un po’ disordinato. Gli intimò allora di recitare il “Proficiscere anima christiana”, per metterlo alla prova e per intimorirlo. Don Giuseppe, fissando negli occhi il suo interlocutore, recitò a memoria e a fronte alta, la preghiera quasi indirizzandola a lui. L’ufficiale, che conosceva il contenuto e il significato della preghiera, ne rimase talmente scosso che invitò il sacerdote a tacere e lo lasciò passare.[15]
Non si concluse invece così felicemente l’impatto con i soldati tedeschi che, riusciti a catturarlo, nella sede dell’ONARMO,[16] in via San Francesco da Paola, lo rinchiusero nella caserma di via Asti dove rimase per sette mesi, subendo maltrattamenti e umiliazioni di ogni sorta.[17] Durante il trasferimento al Castello di Fubine, riuscì a fuggire e, con acrobazie, riuscì a rifugiarsi a Canevino nell’Oltrepò Pavese, presso don Antonio Grassi.
La sua attività di “prete delle fabbriche” proseguirà intensa e continuata dopo la parentesi degli anni 1943-1945, trascorsa come “prete dei partigiani” sui monti. Il Rag. Panealbo[18] lo ricorda: “vigoroso e pieno di ardore missionario, si rese subito conto di quanto fosse importante il suo compito e, con entusiasmo, s’introdusse nell’ambiente operaio della grande industria”.
Dal contatto con il mondo operaio Don Pollarolo attinse ispirazione per altre iniziative necessarie per rispondere ai bisogni insorgenti e disattesi dalle pubbliche istituzioni. Fu così che aperse tre Case del Giovane operaio, diede vita alla Università Popolare Don Orione, animò Cenacoli di preghiera.[19]
Come tutta l’Italia, anche Torino, dopo l’8 settembre 1943, si trovò oggetto di rappresaglie, di lotte, di bombardamenti. Don Pollarolo informò il Superiore generale Don Sterpi, in data 10.8.1943,.
“Una bomba dirompente, di grosso calibro ha colpito in pieno gli uffici dell’Onarmo. È crollato tutto, alla dirompente si sono aggiunti gli spezzoni incendiari sicché della nostra casa non è rimasto che un mucchietto di cenere. Stiamo cercando altri locali. Bombe sono cadute vicinissime alla mia abitazione, mi hanno stordito, ma non nociuto nemmeno ai nervi, sono tranquillissimo anche sotto la pioggia fragorosa delle bombe.
Nella famosa giornata del 26, mi sono aggirato tutto il giorno tra gli operai in tumulto, ho vissuto intensamente quelle ore, ho accumulato preziose esperienze, ed ho potuto toccare con mano il beneficio ottenuto con le pasque celebrate negli stabilimenti. Gli operai mi riconoscevano, mi salutavano, e in più occasioni la mia presenza ha attenuato il furore distruttore che li accecava”.[20]
L’autunno 1943 si presentò assai duro a causa della prosecuzione della guerra e l’avvìo della resistenza. La lotta era di tutti contro tutti: le autorità costituite, i fascisti, i partigiani e le truppe d’occupazione. La sfiducia nel fascismo ormai al crollo, aveva determinato reazioni in ogni settore. Le truppe d'occupazione nazifasciste resistevano e non cedevano il campo. Gli anglo-americani,[21] bombardavano la città e i centri periferici. Dopo l’armistizio, i tedeschi occuparono Torino e fu gioco forza resistere alle loro razzie: a questo mirarono i gruppi di partigiani che, arroccati sulle montagne, si adoperarono a difendere il territorio.
L’Arcivescovo Maurilio Fossati lamentava le numerose e gravi difficoltà nei trasporti e nelle comunicazioni che rendevano ancora più triste e difficile la vita civile e pastorale.
La guerra durava da quattro anni e moltiplicava sofferenze e morti. Da varie parti, veniva sollecitato l’intervento dei Vescovi i quali, ai reiterati appelli, non rispondevano che con una certa sofferta ritrosia nel prendere posizione su problemi politici e civili. Si rivolgevano tuttavia a quanti impugnavano armi contro chicchessia, nemico, ribelle o innocente: “A quelli dei nostri figli che hanno in mano la forza delle armi – proclamava il Card. Maurilio Fossati - diciamo col Battista: Astenetevi da ogni vessazione e da ogni calunnia e accontentatevi della vostra paga» (Lc 3,14). Le armi sono a tutela dell’ordine, a difesa della Patria, cioè dei cittadini che compongono la Patria. Non devono mai essere strumento di feroci vendette, tanto più quando fossero usate contro popolazioni inermi, contro famiglie più disgraziate che colpevoli”.[22]
I vescovi non parteggiavano per nessuna forza in conflitto, avevano la volontà di rimanere super partes[23] ed avevano forse la preoccupazione di una facile avanzata del comunismo, dato che tra i partigiani prevalevano le forze comuniste.
Il comportamento concreto dei Vescovi , fu quello di dare un aiuto ai partigiani che si battevano per una giusta causa: la liberazione del patrio suolo da forze ostili ai diritti e alla libertà dei cittadini. Per questo motivo ricorsero al coinvolgimento diretto di sacerdoti, da loro stessi autorizzati, che seguissero personalmente e condividessero la vita di tali gruppi antifascisti e contrari alle truppe di occupazione.
Fu il caso di don Giuseppe Pollarolo. Egli stesso rievocava l’entusiasmo con cui l’arcivescovo approvò la sua intenzione.
«Mi presentai all’Arcivescovo, - sono sue parole - e gli aprii come sempre il mio animo e gli manifestai i miei propositi. Si fece serio, mi chiese se ero consapevole di una simile presa di posizione, gli risposi che non solo ero consapevole, ma anche pronto a subirle e che per me non c’era altra alternativa che quella di andare a fare, tra gli uomini della Resistenza, quello che facevo tra gli operai delle fabbriche. Un largo sorriso illuminò il volto dell’Arcivescovo nell’apprendere la mia disponibilità per quell’apostolato, mi approvò e mi benedisse».[24]
Nel settembre del 1943, Don Pollarolo si assentò da Torino ed allacciò rapporti con le organizzazioni antifasciste, si recò nella zona del cuneese, con il consenso dell’arcivescovo di Torino e del vescovo di Cuneo, e diventò cappellano dei partigiani. Si unì al capo di essi, Duccio Galimberti[25], e ad altri. Riuscì ad instaurare ottimi rapporti con i comandanti partigiani condividendo le peripezie dei loro uomini. Infondeva in tutti coraggio e fiducia. Era sempre in prima linea, dove maggiore era il rischio ed anche il pericolo, ardimentoso e magnanimo, mai armato di fucile, e se ne faceva un vanto, ma solo del suo Breviario. Così infatti i suoi nemici, i militi della Repubblica Sociale di Salò, lo rappresentarono in un pannello di ben due metri di altezza, esposto nella Galleria Vittorio Emanuele: tra due partigiani, con la talare impolverata e malmessa, ma con alla cintola il Breviario, al posto di un’arma.[26]
La vita partigiana fu con simpatia e genialità filmata da Don Giuseppe che portava sempre con sé una piccola cinepresa, appassionato com’era del cortometraggio. Ne filmò la vita quotidiana, i rari svaghi, le azioni contro i nazifascisti, i momenti più neri, lasciando alcune testimonianze cinematografiche di grande importanza Si va da Momenti di vita e di lotta partigiana, girato dal vivo fra il settembre ’43 e l’aprile ’45, a Campane a stormo, un film a soggetto, girato nel ’45 e realizzato insieme ai partigiani. Il suo cinema ispirò quello militante e della memoria di Gobetti.[27]
Gianni Rondolino racconta che Gobetti, quando si accingeva a «ripercorrere la storia armato di una macchina da presa» come in Le prime bande, aveva a modello proprio i Momenti di vita e di lotta partigiana del nostro prete alessandrino. «Il suo modello – scriveva – per certi aspetti, è il film girato allora da don Pollarolo e inserito in Le prime bande, non solo a testimonianza della vita quotidiana dei partigiani, riprodotta in immagini semplici, tecnicamente difettose, improvvisate, ma anche come punto di riferimento estetico, esempio da seguire.
Se don Pollarolo, - scrive ancora Rondolino - seppe allora ricostruire ingenuamente ma autenticamente un mondo, un microcosmo di uomini che combattevano per la libertà, quarant’anni dopo Gobetti poteva tornare indietro nel tempo con lo stesso spirito libero, lo stesso entusiasmo, la stessa attenzione per le piccole cose, apparentemente banali, insignificanti, ordinarie, e invece indicative di un modo di vivere, addirittura di un modo di pensare». [28]
Particolare ardimento dimostrò, il nostro protagonista, nel periodo drammatico della “resistenza” sui monti dell’Oltrepò Pavese dove al coraggio civile unì vere testimonianze evangeliche. Così Paolo Gobetti ne rievocava la figura: «la fortuna nostra è che don Pollarolo pensava di non dovere usare il fucile, anche se credo che ne abbia spesso portati. Ma siccome voleva essere un partigiano accanto agli altri, ha portato la cinepresa e così ha potuto documentare la vita partigiana».
Lo stesso don Giuseppe ebbe a dire di sé: «Avevo allora una forza atletica notevole e resistevo alla fatica, mi sentivo proprio un vero facchino, alla scuola di don Orione che di facchini ne ha formati tanti». E nel 1970, durante una lunga conversazione col critico cinematografico e regista Paolo Gobetti raccontò: « Ero sempre in prima linea, mai con un’arma, con il mio libro di preghiere e con la macchina cinematografica: era una Pathè Baby, molto piccola, la tenevo in tasca con estrema facilità». E continuava: « gli strumenti del mio mestiere sono questi: ecco, io me la sviluppavo su in montagna la pellicola, non potevo mandarla a sviluppare in città, vero? Erano quattro cassette come questa, una tavola di bachelite intorno alla quale si avvolgevano i nove metri della film della macchina da presa e poi si sviluppava, con dei successi che portavano all’entusiasmo i giovani, perché nel giro di un’ora, quando il tempo era asciutto, riuscivamo a vederci la scena girata».[29]
I tedeschi avevano messo una taglia sulla sua testa e gli davano caccia spietata, volevano ad ogni costo avere tra le mani il “prete partigiano”. Un giorno infatti riuscirono a catturarlo e, senza processo, lo misero davanti al plotone di esecuzione. Raccolto in preghiera, Don Giuseppe era sicuro della propria fine ma, improvvisamente, davanti al plotone cadde una bomba a mano suscitando la fuga dei soldati tedeschi. Non vedendo più nessuno, saltò il muro che aveva a ridosso e, dall’altra parte, trovò i suoi partigiani ad abbracciarlo: erano stati loro a tentare il colpo con grande rischio, per amore del loro amico e padre.[30]
Il 29 novembre 1944, don Giuseppe Pollarolo fu decorato con medaglia di bronzo al Valor Militare con la seguente motivazione: «Cappellano di formazioni partigiane, in situazioni difficili e pericolose svolgeva opera di cristiana pietà nell’assistere e confortare i feriti. Particolarmente si distingueva nel corso di un duro scontro quando, sacerdote ed al tempo stesso combattente, animava la resistenza dei suoi, guidandoli al successo. Poli (Piacenza), 29 novembre 1944».[31]
L’essere “partigiano” non fece mai dimenticare a Don Pollarolo il dovere di essere sempre dalla parte del rispetto e della libertà dell’uomo. A liberazione avvenuta, restò famoso il suo intervento presso il Prefetto di Milano, dal quale ottenne che i cadaveri di Mussolini e della Petacci fossero tolti dal ludibrio a cui furono esposti, il 29 aprile 1945, in Piazzale Loreto, e fossero trasportati all’Istituto di Medicina Legale. Già al mattino si era reso protagonista di un episodio che dice la sua audacia e il senso del bene. A ricordare è Don Ignazio Cavarretta, un orionino presente sul luogo.
“Don Pollarolo, cappellano dei partigiani, era arrivato in Piazzale Loreto con una squadra di partigiani su dei carri armati lasciati a poca distanza. Erano scesi dai monti dell’Oltrepò Pavese. C’era già molta folla attorno ai corpi di Mussolini e degli altri compagni fascisti uccisi. Fin dalle prime ore del mattino, persone esaltate e gente contagiata dall’euforia per la fine della guerra e del regime fascista, avevano sfogato su quei poveri corpi la propria rabbia con ogni sorta di insulti e oscenità. Claretta Petacci era completamente svestita. Quando Don Pollarolo venne avanti nella piazza e vide lo scempio di questa ragazza nuda, cominciò a gridare: “Largo, largo, lasciatemi passare. Questo scempio non si deve vedere”. Tutti lo lasciarono passare. Don Pollarolo, davanti alla folla sorpresa e per un attimo ammutolita, si tolse di dosso una specie di “spolverino” nero, abbottonato davanti, e coperse alla meglio il corpo della Petacci”.[32]
A Milano, dopo la trionfale sfilata dei partigiani, Don Pollarolo, dai microfoni di “Radio Milano Libera”, così salutava con commozione i compagni della Resistenza.
«Dal microfono che ha lanciato tanti banali insulti e tante calunnie contro la meravigliosa lotta di cospirazione della montagna, il vostro Cappellano che è vissuto con voi in tutti i momenti lieti e tristi della vita partigiana vi parla ancora una volta come vi parlava sui monti per orientare la vostra generosa ed eroica attività verso il bene.
Voi avete smentito con i canti la menzogna che ci dichiarava annientati e dispersi, permettete che il Cappellano, abbandonando la rudezza che non vi risparmiava rimproveri, smentisca le calunnie lodandovi, per una volta tanto, a titolo di riparazione, senza però venire meno a quello spirito di sincerità che ha contraddistinto la nostra vita sui monti. Siete stati dei ragazzi meravigliosi sempre e dovunque.
I cittadini che finalmente hanno potuto vedervi in faccia vi hanno applaudito e coperto di fiori: ve li siete meritati. Negli abiti sporchi e laceri, nelle scarpe consunte dall’uso hanno visto i segni delle rinunzie e delle sofferenze sopportate con eroica fortezza per il bene della Patria.
I cittadini hanno respirato un po’ di quell’aria libera di cui voi avevate pieni i polmoni, hanno avuto riverbero della luce che vi brillava negli occhi e vi si sono dimostrati riconoscenti con le esplosioni di gioia echeggiate per le vie dove siete sfilati, privi di goffa impeccabile esteriorità, ma ricchi di quella formidabile compattezza e disciplina morale che vi ha resi insuperabili nei reiterati tentativi di rastrellamento.
Ai cittadini non sarà sfuggito che i senza Dio avevano i loro Cappellani, ma non avran potuto distinguere nei Partigiani che sfilavano, gli operai, gli studenti, gli impiegati, i contadini, i professionisti, perché tutti fusi in uno spirito di fraternità che ha resa possibile la vita comune sulla stessa paglia, alla stessa mensa, tra uomini dalle più diverse ed opposte politiche, e non per uno sforzo di tolleranza, ma per uno spirito di collaborazione, di mutuo rispetto e comprensione che io non esito a definire il più prezioso risultato della vita partigiana. Vorrei che ciò che si è realizzato nell’ambiente eccezionale della montagna, diventasse sistema nella vita normale.
Il regno dell’odio e del terrore è terminato, deve iniziare il regno dell’amore e della giustizia. I Patrioti che sulla montagna non si sono mai abbandonati a violenze contro i prigionieri catturati nei rastrellamenti o prelevati in azione, in questi giorni hanno sottratto con ogni sforzo al furore del popolo i loro stessi persecutori onde consentire al Tribunale un esame calmo ed una sentenza giusta.
La giustizia è una grande virtù sociale, la violenza è un vizio, anche quando è necessario intervenire con severità nell’organismo sociale, bisogna sempre agire per amore come il chirurgo che affonda il coltello nel corpo dell’ammalato non per tormentarlo ma per dargli la sanità.
I Patrioti che hanno bagnato col sudore e col sangue le rocce, i Patrioti che hanno sofferto il carcere e le sevizie, il Cappellano che ha sentito sulla nuca il freddo della rivoltella tedesca ed ha avuto dinanzi il plotone di esecuzione si raccomandano al popolo perché non compia vendette private, né si abbandoni a furori scomposti degni di ogni riprovazione.
Siamo andati in montagna per combattere il fascismo, abbiamo lottato e sofferto per estirpare dalla nostra Patria la violenza, abbiamo esecrate le nefandezze, perpetrate dai nazifascisti, non dobbiamo ripetere i loro errori.
Dinanzi alle fiamme che divorarono le case dei buoni montanari, rei soltanto di averci amato e soprattutto ai congelamenti ed alla fame, i Patrioti hanno giurato di essere degli incendiari e di scendere dai monti per far divampare dovunque fiammate di amore, attuando il programma di Gesù Cristo, che gridava alla folla: - “Sono venuto su questa terra a portare il fuoco e voglio che tutti ne ardano”.
Patrioti della montagna, in alto i cuori, non vi rattristi in quest’ora di trionfo, l’assenza dei compagni migliori, caduti sui monti o periti di inedia o di violenza nelle carceri, la loro vita tanto preziosa è stata ben spesa. Gioite e continuate a combattere, non più col ferro che costringe, ma con l’idea che convince, onde avvolgere la nostra straziata Patria in un’unica vampata di amore.
Lasciate che questo povero Cappellano, cresciuto alla scuola di Don Orione, l’Apostolo della Carità, vi dia la parola d’ordine per la ricostruzione: collaborare tutti in uno sforzo intelligente, onesto e libero per tradurre in legge l’amore predicato da nostro Signore Gesù Cristo!»[33]
Don Pollarolo non limitò la sua attività pastorale solo all’apostolato tra gli operai. Partecipò alle iniziative della “Carità dell’Arcivescovo” che abbracciava anche la protezione degli Ebrei. L’aiuto prestato agli Ebrei perseguitati dai nazi-fascisti e dalle leggi razziali fasciste costituì senza dubbio uno degli aspetti più alti dell’azione umanitaria e pastorale del cardinal Fossati, coadiuvato da sacerdoti, religiosi e laici, e soprattutto dal suo segretario Mons. Barale. Don Giuseppe si prodigò anche in questo campo. Sovente si trattava di provvedere agli Ebrei un rifugio sicuro e, su questo.
«Mons. Barale mi ha più volte chiamato a collaborare con lui per la sistemazione di Ebrei, singoli e famiglie, in pericolo di persecuzione. A suo nome ho sistemato Ebrei presso il Convento delle Suore Carmelitane in Val San Martino a Torino, dove in quel tempo ero anch’io ospite. Ho avviato e qualche volta ho trasportato in macchina, Ebrei in altre Case, fuori Torino, dell’Opera Don Orione, io non ho mai ricevuto denaro neanche come rimborso spese».[34]
Don Pollarolo, però, non cessò mai di prodigarsi per i suoi operai nei quali riconosceva, dietro una prima parvenza violenta, una innata bontà da far emergere. Lo zelo apostolico che lo aveva proficuamente impegnato come cappellano di fabbrica prima, e poi come cappellano delle formazioni partigiane, ora lo chiamava nell’opera di salvataggio degli Ebrei. Contemporaneamente continuò a impiegare le sue energie sempre a favore dei poveri e dei bisognosi d’ogni tipo.
A questo periodo post bellico di ricostruzione, non soltanto edilizia ma anche politica, risale la testimonianza di Mons. Peradotto: «Fui ordinato prete dal Card. Maurilio Fossati il 29 giugno 1951. Come avremmo dovuto comportarci noi giovanissimi preti nelle parrocchie delle periferie extra-urbane ed in quelle torinesi? Cercavamo modelli ispiratori un poco ovunque: ma non teorici! In questa ricerca, per me, qualche modello già esisteva: tra essi l’orionino Don Giuseppe Pollarolo. L’avevo incontrato da chierico (1943-1945) in vacanza a Cuorgné, stimato amico del mio indimenticabile parroco Can. Domenico Cibrario. Me lo aveva additato come “ispiratore” di un sacerdozio “concreto”»[35]
Chiusasi la triste pagina della guerra, le industrie si riprendevano e dal meridione d’Italia giungevano a ondate giovani operai ai quali era offerta la possibilità di uscire dalla povertà, con un posto di lavoro sicuro e ben retribuito.
Don Pollarolo si fece carico anche di questa fascia di giovani immigrati. A questo proposito, fu messa in giro una storiella fantasiosa ma significativa: “Davanti a quei giovani immigrati che non avevano dove alloggiare e vivevano quasi da ‘barboni’. Passava il sindaco e preoccupato diceva: “occorre subito una riunione municipale per risolvere il problema”. Passava poi il Cardinale e diceva: “Non si può lasciare questa gente così, farò una lettera pastorale”. Passava infine Don Pollarolo e diceva: ”Bravi, venite con me, che un piatto caldo e un letto per dormire lo troveremo!”.
L’episodio immaginario correva di bocca in bocca, con tante versioni diverse, ma diceva del vero circa l’attitudine pratica di Don Pollarolo. Infatti, egli cercò subito di creare una “Casa del giovane operaio” presso l’antico istituto orionino di “San Fogliano” in corso Principe Oddone, inaugurata il 23 febbraio 1959. Egli accolse con paternità i suoi ospiti. Comprensivo e paziente, li sapeva capire, passava sopra al fatto che qualcuno leggesse certi giornali di sinistra, ma sulla moralità non transigeva affatto. Faceva poi capire ai giovani immigrati che era doveroso aiutare i propri simili, per cui, dopo aver trovato una sistemazione lavorativa con regolare paga, era giusto lasciare quel primo tipo di soggiorno d’emergenza agli altri che, man mano, arrivavano da lontano ed erano quindi più bisognosi di loro. Quanti sacrifici per procurare i viveri ai suoi ospiti: dovette ricorrere all’allevamento di galline e maiali, con qualche lamentela dei vicini che mal sopportavano gli sgradevoli odori che ne provenivano.
Da Via Principe Oddone l’accoglienza si estese alla “Benefica” in Via Susa e, in un secondo tempo, alla Casa di Via Foligno. La comprensione, il soccorso, l’assistenza ai giovani operai era divenuta per Don Pollarolo una vera passione. Come racconta Panealbo, quando il Comune di Torino diede l’avvio alla costruzione della ”città satellite” delle Vallette, ove tra la popolazione dei primi immigrati, occupanti i quartieri della popolosa borgata, si trovavano mescolati numerosi pregiudicati, per cui la criminalità spadroneggiava per quelle strade, Don Pollarolo sentì forte la chiamata ad operare proprio in quell’ambiente un po’ malfamato. Diede inizio alla costruzione della prima chiesa parrocchiale,[36] con relative attrezzature oratoriane ed altre opere di accoglienza. Divenne Parroco-costruttore: significava alternare le ore di lavoro fisico, coi muratori, a quelle dell’apostolato sacerdotale. Fece costruire anche lì, in Viale dei Mughetti, un’altra “Casa del giovane operaio” per dare un tetto al più gran numero possibile di giovani.
Si attirò la fiducia e la benevolenza di persone benestanti che non gli facevano mancare gli aiuti necessari tanto che un giorno, conversando con l’amico ragioniere Panealbo, ebbe a dirgli con soddisfazione: “Io non sono mai corso dietro al denaro, è il denaro che è sempre corso dietro a me”.
Una nuova attività gli venne dipanandosi tra le mani: l’Università Popolare. Ne aveva sentito parlare da Don Orione che aveva lanciato una tale iniziativa a Tortona, già negli anni ’20, e ora la vedeva come una risposta alla necessità di elevare culturalmente i giovani e meno giovani della classe operaia. “Religione, filosofia, sociologia, scienze, arte sono state trattate da specialisti e sono servite di orientamento per la massa operaia”, scrive nel 1952.[37] L’Università Popolare ebbe per sede prima l’Istituto di Corso Principe Oddone, poi il Palazzo Bricherasio, dove Don Pollarolo si trasferì e rimase fino alla sua morte.
Qui svolse anche i commenti evangelici del mercoledì che impegnavano a fondo i membri del “Gruppo del Vangelo” a cui egli teneva tanto. Non mancò mai di offrire, alla fine, una fraterna e allegra bicchierata. Erede del pensiero di Don Orione, non intese far solo l’elemosiniere ma cercò di elevare, in tutti i sensi, il povero contribuendo alla sua necessaria cultura religiosa e civile.
Don Pollarolo seppe avvicinare tutti i ceti sociali, ed essere, secondo le circostanze, forte e coraggioso, delicato e cortese. Si dedicò pure agli anziani, per i quali istituì l’Associazione “L.A.R.C.A”[38] svolgendo attività ricreative e culturali per coltivarli in modo socialmente elevato. Così spiegava questa sua nuova iniziativa: «Una ardimentosa acrobatica pattuglia di anziani che accetta l’invito di Gesù:” Siate perfetti come è perfetto il Padre mio che è nei Cieli!”. Affronta con fiducia le temerarie difficoltà che l’invito comporta, e si propone, con l’aiuto di Dio e l’intercessione della Madonna, di realizzare insieme il programma d’amore che ne consegue. D.G.Pollarolo – 11.2.84».[39]
Resta da dire della frontiera dello spirito, nella quale Don Pollarolo si mosse intrepido ed esperto, con il gusto dell’avventura, come sui monti della resistenza o nelle fabbriche di Torino. Accenniamo a due dimensioni di questa frontiera: quella artistica e quella mistica.
Don Giuseppe fu discreto pittore, trasfuse la sua pietà nei suoi quadri. Rimasero famosi i suoi “cicli” di volti della Vergine e del Crocifisso. Si rivelò anche un efficace paesaggista. Di solito dipingeva nelle ore notturne, dalle dieci all’una, quando, vinto dalla stanchezza, sentiva il bisogno di dormire ma non poteva farlo perché il dovere lo inchiodava all’ultimo compito della giornata: l’attesa del rientro degli operai dall’ultimo turno di lavoro in fabbrica. Spiegava: “In quelle ore l’unica attività possibile per me è la pittur; mi calma, mi ristora e mi consente il più bel contatto con Dio nella contemplazione e riproduzione della creazione”. Affermava che dipingere, per lui, era contemplazione e predicazione. “Dei miei amici, molto benevoli, mi hanno confidato che quando predico… dipingo. Il complimento mi ha provocato un’aspirazione ambiziosa: predicare dipingendo”.[40]
Con i suoi quadri allestiva poi delle mostre di beneficenza per aiutare i poveri e offrire soccorsi alle missioni. Tre o quattro quadri di paesaggi riguardano i luoghi del suo ritiro spirituale, l’Abbazia di S. Biagio di Morozzo, ove si trovava il suo compagno di mille imprese di bene, l’ing. Filiberto Guala, divenuto monaco trappista. Egli prediligeva, per i suoi ritiri spirituali, le abbazie. Aveva ben assimilato lo spirito del Padre Don Orione che voleva i suoi figli contemplativi e attivi, Don Pollarolo fu definito da Fra Filiberto Guala, “il più autentico imitatore di Don Orione”.
Inoltre si espresse con l’arte cinematografica che lo aveva da sempre appassionato. Fin dal 1941, aderì alla costituzione del “Gruppo Cinema Religioso Educativo” promosso dalla Federazione Diocesana Oratori Milanesi: “Il gruppo studierà i temi di soggetto religioso educativo – si legge nell’atto costitutivo del 20.6.1941 – e li tradurrà in film col concorso di soli elementi volontari, cattolici per vita e convinzione, rifiutando qualsiasi elemento teatrale reclamistico”.[41]
Nel 1941, scrivendo ai suoi superiori, Don Pollarolo illustrava questa prospettiva allettante di una moderna forma di educazione e di attività pastorale: “Mi si apre un campo immenso di lavoro con enormi prospettive di bene. Il Signore mi ha dato dei talenti per questo lavoro e oso sperare che certe dolorose e lacrimose esperienze nella mia vita di Sacerdote il Signore le abbia permesse in ordine a questo nuovo apostolato. Mi sono consigliato con sacerdoti anziani e prudenti e tutti mi hanno incoraggiato a continuare la via intrapresa”.[42] Lo avevano incoraggiato in questa attività diverse persone e, tra queste, Don Paolo Ratti dell’Opera Cardinal Ferrari di Milano. Restarono famose, come già riferito precedentemente, il suoi filmati di vita partigiana. Collaborò attivamente per la produzione amatoriale di piccoli documentari e sceneggiati educativi e religiosi.
L’esperienza di Dio è forse la frontiera più difficile da raccontare, ma che più affascinava quanti incontravano Don Pollarolo. La sua pietà aveva un sottofondo di intensa interiorità e di contemplazione. Aveva una attrattiva speciale, lui così attivo e dinamico, per i luoghi del silenzio e della preghiera. “Sono stato a Roma per la vestizione di Fra Filiberto Guala ed ho trascorso con lui una giornata di Paradiso”.[43] Fu invitato a predicare gli Esercizi Spirituali ai Trappisti delle Frattocchie. C’era forse in lui una possibile vocazione monastica? A chi lo aveva interpellato, su questo argomento, aveva risposto: «Finché provo un’attrattiva affascinante, sensibile, spiritualmente riposante può essere un’illusione; quando sentirò la chiamata al totale olocausto della mia persona, porrò il problema!».
Ai Cistercensi ripeteva quasi come slogan: «Restate quello che siete». Don Giuseppe se li era conquistati tutti quei fervorosi Trappisti, e non solo l’amico Filiberto Guala, ma anche l‘Abate François Régis, definito “figura angelica” e ricercato direttore spirituale. La vita della Trappa non era evidentemente nei progetti di Dio per il “prete di frontiera”. “La sua vita rocambolesca - afferma Don Ignazio Terzi - pare abbia riprodotto quella di Don Orione nel tempo dei ‘terremoti’ italiani o della prima installazione missionaria nell’America latina”.[44]
Quando si parla di spiritualità orionina la si qualifica come “dalle maniche rimboccate”, di “pronto soccorso”, “di audacia santamente aggressiva”. Dimensioni orionine che Don Giuseppe realizzò con un generosissimo dono di sé, con la disponibilità per qualsiasi sacrificio personale che attinse dalla vita di orazione, dalla scoperta della presenza di Dio nei bisognosi, dalla penetrazione del mistero della croce. “Certe santità non si improvvisano”, ebbe a dire Don Roberto Simionato riferendosi a lui.
Questa fu la vita di Don Pollarolo fino al 1985, quando una grave malattia, una trombosi con emiparesi, lo colpì togliendogli parzialmente la parola - il dono più prezioso da lui posseduto e che lo aveva reso possente ed eloquente predicatore - e limitandogli la mobilità delle mani che avevano usato con maestria breviario, cinepresa, vanga, cazzuola, pennelli e matite. “Il Signore mi ha tolto la parola, ma mi ha lasciato l’udito, perché potessi ascoltare voi”, riuscì a dire in una riunione del “Gruppo del Vangelo” cui continuò a partecipare. Seguirono mesi duri di immobilità; poi una certa ripresa ma successivamente il crollo. Si spense il 22 gennaio 1987, a 80 anni di età, 61 di professione religiosa e 57 di sacerdozio.
UNA MEMORIA CHE NON TRAMONTA
Pare di capire che due aspetti di vita caratterizzano Don Pollarolo. Primo, la condivisione con la vita del povero; e secondo – derivato in parte dal primo – la dimensione sociale della carità. In questo è in piena sintonia con il beato Luigi Orione. La sintesi più efficace della identità spirituale di don Pollarolo fu tracciata dal cardinale Anastasio Ballestrero nella omelia tenuta ai funerali, il 23 gennaio 1987.
“Ricordare nei dettagli di una lunga cronaca dell’esistenza della sua vita non è facile per la ricchezza delle espressioni che tale vita ha saputo esprimere, per la varietà di impegni e delle iniziative in cui è stato coinvolto e anche per quella creatività estrosa e instancabile con cui ha saputo essere credente pieno di fede e di entusiasmo. Ha saputo essere sacerdote pieno di zelo e pieno di fiducia; ha saputo essere proclamatore della Parola di Dio con la convinzione e con l’affettuosa insistenza dell’apostolo e del missionario; ha saputo essere il parroco proprio qui dove tutto parla di lui; ha saputo insomma lasciarsi continuamente sollecitare dalle necessità degli altri.
Ha condiviso pene, ha condiviso dolori, ha condiviso gioie, ha condiviso speranze, ha cercato di fermentare con la sua azione instancabile di apostolo vicende non sempre facili da capire e da interpretare, situazioni bisognose di viatico, di fede e di amore, ha saputo – in una parola – essere sacerdote non fuggitivo dal suo tempo e dalla storia degli uomini ai quali è stato mandato. E tutto questo lo ha fatto sorridendo, con una sua vita di cuore che non ha conosciuto limiti, ma anche con una coerenza di verità e di coraggio che merita di essere ricordata”.
Tra gli amici e gli ammiratori torinesi vi fu un rammarico generale nel veder partire, dopo le esequie, la bara con le spoglie, di don Pollarolo, per Tortona, dove venne tumulato. Ma tale distacco non doveva essere che temporaneo. Il 30 maggio 1999, le spoglie mortali di Don Pollarolo furono traslate da Tortona a Torino e tumulate, alla presenza del cardinale Giovanni Saldarini, nella sua chiesa “Santa Famiglia di Nazareth”, costruita con il suo cuore e con le sue mani. I giornali locali ne riportarono la gioiosa notizia con molto rilievo.[45]
Un’ulteriore segno pubblico della riconoscenza della città di Torino verso l’apostolo degli operai fu dato dalla intitolazione di una piazza attigua alla chiesa delle Vallette a “Don Giuseppe Pollarolo”.[46]
Se è vero che “Verba movent sed exempla trahunt”, possa la memoria di una vita vissuta in pienezza e generosamente donata alla gloria di Dio e al bene delle anime, come quella di Don Pollarolo, far sì che tante persone si offrano alla causa del bene in una società come l’attuale tanto lacerata e disunita, carente di fede e di amore, perché lontana da Dio che ne è l’unica fonte.
[1] Responsabile generale dell’Istituto Secolare Orionino, vive a Torino.
[2] Prelato, nato ad Arona (Novara) nel 1876; chiamato nel 1924 a reggere la diocesi di Nuoro e dal 1929 l’arcivescovado di Sassari. Fu eletto nel 1930 alla sede metropolitana di Torino. Venne creato cardinale da Pio XI nel Concistoro del 13 marzo del 1933. Morì a Torino nel 1965.
[3] Intervista pubblicata in Filiberto Guala: dalla TV alla Trappa, “Messaggi di Don Orione” 32(2001) n.103, p.53-58. I testi di Guala, salva diversa indicazione, sono tratti da questa intervista.
[4] Cartella Pollarolo, Archivio Don Orione (ADO). Don Pollarolo ricordava quei felici inizi: “Eravamo nel periodo pasquale del 1942 ed ebbi un enorme successo. Dopo i primi riuscitissimi esperimenti, non ebbi più bisogno di andare alla ricerca di stabilimenti, ero cercato io con insistenza e dovetti ricorrere alla collaborazione di altri sacerdoti. I più entusiasti di questa novità pastorale in fabbrica erano gli operai, avidi nell’ascolto della parola di Dio e presenti ai Sacramenti. Passato il periodo pasquale si dovette continuare con lo stesso ritmo per soddisfare le insistenti richieste degli operai di altri stabilimenti”; ibidem.
[5] Opera Nazionale Assistenza Religiosa e Morale degli Operai.
[6] Informazioni attinte anche da B. BERTINI e S. CASADIO, Clero e industria a Torino, in Giuseppe Tuninetti, Il Magistero e l’opera dell’Arcivescovo Maurilio Fossati, Ed. Piemme, Casale M., 1996.
[7] Tuninetti, o.c., p.40.
[8] Tuninetti, o.c., p.41.
[9] Cappellano di fabbrica, giovane sacerdote: uno dei quaranta che Don Pollarolo seguiva; Pollarolo, ADO.
[10] All’epoca, l’ing. Filiberto Guala era a capo delle iniziative sociali e caritative della diocesi, poi, nel 1960, divenne trappista alle Frattocchie in Roma. Curò per molti anni il centro di spiritualità di S. Biagio di Morozzo; cfr. Filiberto Guala: dalla TV alla Trappa, o.c.
[11] Castiglioni, un professore facente parte dell’ONARMO.
[12] Il teologo don Ugo Saroglia, nel 1944, assieme a don Giovanni Pignata e a don Esterino Bosco, tutti e tre giovanissimi, diedero vita al Centro Cappellani del Lavoro.
[13] Giovane sacerdote, cappellano di fabbrica con don Esterino Bosco e Don Ugo Saroglia.
[14] Divenne mitica e da tutti conosciuta la Balilla di Don Pollarolo. Il confratello, Don Ignazio Cavarretta, ricorda: “Una volta la macchina facendo una salita di 30 o 40 metri, a metà si è fermata e si è incendiata. Allora Filiberto Guala fece togliere la veste a Don Pollarolo e senza indugio la mise sopra il motore e riuscì a soffocare l’incendio”; ADO.
[15] Da Vita di ieri e di oggi, “Il popolo”, 18 Aprile 1993, p. 12.
[16] Trattano diffusamente dall’ONARMO torinese negli anni 1943-48 B. Bertini e S. Casadio nell’opera Clero e industria a Torino, o.c.
[17] Da Vita di ieri e di oggi, o.c.
[18] Relazione di Giovanni Panealbo, amico e collaboratore delle iniziative di Don Pollarolo; ADO
[19] Il primo progetto di “impostare un’azione pratica per i sinistrati e gli sfollati” e di aprire “dormitori per operaie ed impiegate” è manifestato in una lettera a Mons. F. Balzelli del 31.8.1943 nella quale gli suggerisce di fare richiesta di alcuni edifici della Ex G.I.L. da adibire allo scopo: “Sono stato coll’Ing. Guala dal Cardinale il quale ha approvato l’iniziativa: per svilupparla si è accennato alla possibilità della mia Congregazione (analogamente di quanto fatto a Napoli) e S. Eminenza ha lasciato intendere di gradirla”; Pollarolo, ADO.
[20] Pollarolo, ADO.
[21] Fu firmato l’armistizio l’8 settembre 1943.
[22] Si rivolgevano anche ai gruppi di partigiani arroccati sulle montagne, pronti alla difesa del proprio territorio: “E se la nostra voce può arrivare a tanti sconsigliati che ricorrono alla violenza e all’insidia contro le Autorità locali e le truppe di occupazione, vogliamo ricordare ad essi che tali attentati terroristici, contrari a ogni diritto divino ed umano, ottengono un’unica conseguenza sicura: pene inenarrabili contro gli innocenti indifesi”; Tuninetti, o.c., p. 36.
[23] I vescovi, appellandosi ai principi del rispetto dovuto ad ogni persona umana e ad ogni famiglia, proclamati da Pio XII nel messaggio natalizio del 1942, dichiaravano: “Non ci stancheremo mai di condannare risolutamente ogni forma di odio, di vendetta, di rappresaglia, e di violenza, da qualunque parte venga e qualunque giustificazione ostenti”; ibidem.
[24] Ibidem, pag. 47-48.
[25] Galimberti Tancredi, detto Duccio. Nato a Cuneo nel 1906 . Figlio secondogenito di Tancredi, deputato (già ministro liberal-radicale nei governi di Rudinì e Zanardelli-Giolitti. Prima avvocato, poi organizzatore assiduo del partito d’Azione nella provincia di Cuneo; iniziatore della Resistenza con la formazione della banda partigiana Italia Libera. Catturato a Torino, fu ucciso il 3.12.1944. Gli fu assegnata la medaglia d’oro al valore militare.
[26] Tuninetti, o.c. p.37.
[27] Massimo Novelli, Il regista della resistenza, “La Repubblica” del 10 ottobre 2000. Discorso in occasione dell’intitolazione della piazza di v.le Mughetti a don Pollarolo.
[28] Ibidem
[29] Ibidem.
[30] Cfr. ibidem.
[31] Il Prof. Giovanni Marchi testimonia: “Mi ricordo che nell’autunno-inverno del 1944 su un muro di piazza Duomo, a Tortona, si poteva leggere una scritta che ben esprimeva l’odio dei fascisti contro l’atletico sacerdote dell’Opera Don Orione, ben conosciuto in tutti i paesi dell’Alessandrino e dell’Oltrepò Pavese per le sue doti di predicatore, Don Giuseppe Pollarolo: «Meglio vivere un giorno da leoni che cento anni da Pollarolo»”; ADO.
[32] Nella sua testimonianza (ADO), Don Cavarretta aggiunse: “Io rimasi lì per circa 10 minuti finché lui fece ritorno ed andammo entrambi al Piccolo Cottolengo per il pranzo. Sono scene che non dimenticherò mai più. Mussolini invece era vestito; aveva una divisa scura. Di quei cadaveri esposti ne conoscevo due o tre che avevo visto in fotografia. Saranno stati 8 o 10 i corpi morti. Alcuni erano appesi con la testa all’ingiù. Ho riconosciuto Mussolini e accanto la Petacci; era l’unica donna tra quel gruppo di morti. Poi ho riconosciuto il ministro Terruzzi, l’unico con la barba, che faceva parte della scorta e la cui moglie era nascosta al nostro Piccolo Cottolengo”.
[33] Discorso pubblicato, a ricordo, su “Il Popolo” del 18 aprile 1993, p. 12.
[34] Relazione Panealbo, o.c.
[35] Discorso tenuto da Mons. Franco Peradotto durante la conferenza nell’aula magna dell’ex Seminario di via XX Settembre a Torino, il 21 marzo 1998.
[36] Decreto di erezione del card. M.Fossati datato 1.9.1959; benedizione della prima pietra nel 1963; apertura al culto nel 1965.
[37] La Piccola Opera della Divina Provvidenza, ottobre 1952, p.135.
[38] “Cenacolo di Santità e di Cultura per vivere i valori della terza età”.
[39] Pollarolo, ADO
[40] Perché dipingo?, depliant illustrativo delle opere pittoriche di Don Pollarolo, ADO.
[41] Documento in Pollarolo, ADO. Di questa attività cinematografica è conservata la corrispondenza con il Vice-presidente degli Oratori Milanesi, Don Ambrogio Pantalini. Don Pollarolo vi si dedicò praticamente se, tra i documenti, troviamo anche la lettera diretta al superiore orionino di “Acuni parrocchiani” di Albaro i quali, oltre ad ascoltare Don Pollarolo predicare la novena dal pulpito della loro chiesa, si scandalizzavano al vederlo filmare scene di film per le vie del paese: “riteniamo che non sia né corretto, né dignitoso che un Sacerdote si esponga così sulla pubblica via a girare delle scene cinematografiche in correità poi di numeroso elemento femminile”.
[42] Lettera a Don Carlo Sterpi del 18.12.1941; ADO.
[43] Lettera a Don Zambarbieri del 17.12.1960; ADO.
[44] Franco Franceschetti, che lo conobbe quando era segretario di Filiberto Guala all’Ina-Casa, non esita a dire: “Don Pollarolo era un ciclone di vita”.
[45] “La Stampa” (Domenica 30 maggio a p. 38): “Le spoglie di Don Pollarolo accolte nella «sua » chiesa delle Vallette”; il giornale “Torino Sette” (28.5.99, p. 48): «Don Pollarolo è con noi»; il settimanale “Il nostro tempo” (13.6.1999, p.7): «Giuseppe Pollarolo, prete degli operai». Traslata la salma alle Vallette, il quartiere di Torino in cui spese la sua vita.
[46] Il discorso della cerimonia fu tenuto dall’On.le Porcellana. Massimo Novelli su giornale “La Repubblica” (10.10.2000): “Un piazzale intitolato oggi a don Pollarolo. Allievo di Don Orione, parroco alle Vallette, l’8 settembre si unì alle prime bande e filmò la guerra partigiana".