E’ stato un bel risultato ecumenico degli ultimi decenni constatare e godere del fatto che, fra Chiesa cattolica e altre Chiese o comunità cristiane, esiste “una certa comunione”, “comunione vera, anche se imperfetta”, “reale, sebbene non ancora piena”. Si è dato fondo alle risorse del vocabolario per dire che questa comunione “c’è… ma non c’è”. Tutto il valore e il peso di questa “certa comunione” va scoperto, valorizzato e giocato nei rapporti per giungere alla “comunione” senza aggettivi. Ma verso quale “comunione” si tende?
Nel parlare della Chiesa, non pochi, anche in ambito cattolico, hanno privilegiato unilateralmente la bellissima espressione “Chiesa come comunione” rispetto ad altre figure ecclesiologiche, compresa quella primaria e più tipica del Vaticano II, “popolo di Dio” (cfr. LG 6-9), ritenendola più adatta per il dialogo ecumenico. Della comunione, poi, spesso è stata sottolineata in modo quasi esclusivo la dimensione “spirituale”, con il risultato che, in una concezione “spirituale” (o spiritualistica?) della Chiesa, le divisioni del corpo visibile, la mancanza di unità di governo, la stessa mancanza di comunione sacramentale, assumono meno rilevanza, quasi che possa esistere una “comunione spirituale” senza la comunione visibile.
La “comunione ecclesiale” è allo stesso tempo invisibile e visibile, perché visibile e invisibile è la Chiesa stessa, “vero Corpo di Cristo”, “sacramento universale di salvezza”, “sacramento inseparabile di unità” (San Cipriano). Più concretamente, la “comunione ecclesiale” è data dalla comunione di fede, di sacramenti e di governo. Insieme. La comunione non è dividibile: fede, sacramenti, struttura e governo legittimo, sono beni inseparabili della comunione ecclesiale (cfr LG 14, UR 3).
"Mirabile unità, vitale e organica, della Santa Chiesa! - scriveva Don Orione. Noi, per il battesimo e pel Papa, non formiamo più che un corpo solo, vivificato dall'unico e medesimo Spirito Santo: un solo ovile, sotto la guida di un solo pastore: il Papa".
“La questione del primato di Pietro e della sua continuazione nei Vescovi di Roma è uno dei punti più scottanti del dialogo ecumenico”, come ricordò più volte Papa Ratzinger. Qui, su “Pietro” e su questa “pietra” si verifica la comunione.
Che fino ad ora, nel dialogo ecumenico, si sia di fatto detto: “di questo argomento, per ora, meglio non parlarne” può anche stare bene. Ma è anche un bene che ora, dopo aver illuminato e consolidato quella “certa comunione”, “reale, sebbene non piena”, ci si metta davanti a questo punto nodale per tendere alla “comunione” senza aggettivi. Come realizzare l’unità della Chiesa con il successore di Pietro e dei Vescovi in comunione con lui”?
Da parte loro i Papi, da Giovanni XXIII a Francesco, passando per Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, hanno preso molto sul serio la ricerca di soluzione a questo problema scottante dell’ecumenismo. Nell’enciclica Ut unum sint c'è la volontà di “trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova”. A questo scopo sono stati invitati “pastori e teologi delle nostre Chiese a cercare, evidentemente insieme, le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri” (n.95).
Il dado è tratto. Chi cerca l’unità della Chiesa – in ambito cattolico e non - è chiamato a non accontentarsi di una “comunione” intesa riduttivamente in senso spiritualistico, ma ad affrontare il cammino verso l’unità organica nella fede, nei sacramenti e nel governo con Pietro e i Vescovi uniti con lui.
“Quanta est nobis via?”, si chiede il Papa nell’ultimo capitolo di Ut unum sint. Non sa “quanta”, ma ricorda che questa è la via.