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Messaggi Don Orione
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Nella foto: Don Orione con i confratelli a Montebello, 1938.

Relazione di Don Flavio Peloso al Convegno di formazione al carisma per formatori orionini. Montebello (Pavia), 6 novembre 2013.

UNA FAMIGLIA IN GESÙ CRISTO

Don Flavio Peloso

Montebello (Pavia), 6 novembre 2013

 

 

La Piccola Opera della Divina Provvidenza deve essere come una famiglia in Gesù Cristo”.[1] Commentando il Salmo 133 “Ecce quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum”, Don Orione scrive che "la forza dei Religiosi sta nella unione, il cui vincolo è Gesù Cristo".[2]

L’espressione “una famiglia in Gesù Cristo” è ripresa dall’art. 59 delle nostre Costituzioni e indica la prospettiva unificante per formare, custodire e sviluppare il grande dono della comunità.

La vita comunitaria, lo sappiamo, è l’aspetto centrale e identificante la nostra vita di consacrati in quanto religiosi, tanto da poter affermare perentoriamente che “senza vita comunitaria non c’è vita religiosa”.[3] Non è solo un contesto ambientale è sostanza della nostra consacrazione e santificazione. L’art. 52 delle Costituzioni ci ricorda che “Viviamo la nostra consacrazione a Dio come vincolo che ci unisce contemporaneamente ad una comunità fraterna”.

Don Orione espresse questa medesima convinzione con una efficace immagine: “Come saprete, voi, se siete fedeli alla vostra vocazione? Se una persona vuol misurarsi la temperatura, la febbre, si mette il termometro. Ci dovrà ben essere qualche termometro per saperci regolare, se siamo fedeli alla santa Regola, alla santa vocazione. Il  termometro c’è: è la vita di comunità”.[4]

Questa immagine di Don Orione che paragona la vita di comunità al termometro della vita religiosa ci richiama una grande verità nel momento di valutare ed intervenire durante la formazione iniziale. Questo termometro dello stato di salute della vocazione può segnalare una leggera febbre da raffreddore, oppure una forte influenza dovuta al clima di stagione (culturale, sociale…) oppure può trattarsi di una febbre legata a una patologia più profonda?

Quale modello di comunità stiamo coltivando – volutamente o di fatto - nella nostra casa di formazione?

È la “famiglia unita in Gesù Cristo” indicataci dalle Costituzioni e dal Capitolo generale?

 

I.       MODELLI DI COMUNITA’ FORMATIVA

 

1.     IL MODELLO APOSTOLICO, INNANZITUTTO

Come modello della comunità religiosa (“apostolica vivendi forma”), va considerata la comunità apostolica, come presentata nei suoi tratti essenziali in Marco 3, 13-16: “Gesù salì sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni”.

Questo testo ci ricorda i tre tratti essenziali che configurano, all’interno e all’esterno, la vita religiosa: la chiamata personale, la vita di comunità e la missione apostolica. Le forme di attuazione possono essere molteplici, a seconda dei tempi e dei carismi particolari, ma deve esserci sempre la vitale integrazione e l’equilibrio tra “amore di Dio”, “vita di famiglia” e “passione apostolica”. Queste dimensioni della nostra vita religiosa sono reciprocamente implicate e vanno equilibrate in modo fedele e creativo, spirituale e pratico.

Congregavit nos in unum Christi amor” ci ricorda il bel documento “Vita fraterna in comunità”. “L'amore di Cristo ha riunito per diventare una sola cosa un grande numero di discepoli… Fra questi discepoli, quelli riuniti nelle comunità religiose, ‘donne e uomini di ogni nazione, razza, popolo e lingua’ (cfr. Ap 7,9), sono stati e sono tuttora un'espressione particolarmente eloquente di questo sublime e sconfinato Amore. Nate ‘non da volontà della carne o del sangue’, non da simpatie personali o da motivi umani, ma ‘da Dio’ (Gv 1,13), da una divina vocazione e da una divina attrazione, le comunità religiose sono un segno vivente del primato dell'Amore di Dio che opera le sue meraviglie, e dell'amore verso Dio e verso i fratelli, come è stato manifestato e praticato da Gesù Cristo” (n.1).[5]

La comunità religiosa è frutto di vocazione e di relazione con Dio:[6] se si attenua la relazione con Dio si frantuma il “vinculum fraternitatis”,[7] perché le nostre comunità sono “nate non da volontà della carne o del sangue, non da simpatie personali o da motivi umani, ma ‘da Dio’ (Gv 1,13), da una divina vocazione e da una divina attrazione” e per una comune missione.

            "Se i nostri religiosi avessero cuore di figli amanti Iddio – faceva osservare Don Orione -, tutto andrebbe a meraviglia: vi sarebbe pace, allegria, progresso materiale e morale, scientifico e spirituale; si godrebbe un vero Paradiso in terra".[8]

Senza carità mistica (amore di Dio) viene meno la carità fraterna (amore dei fratelli) e la comunità si introverte e deperisce.

 

2. COMUNITÀ DELL’OSSERVANZA

Prima del Concilio Vaticano II, il modello di comunità formativa era praticamente unico, ben determinato nel Codice di diritto canonico e nelle Costituzioni delle diverse congregazioni religiose. La comunità aveva una sua “forma” precisa e stabile; le motivazioni erano condivise e bastava richiamarle. Questo modello rispondeva a un contesto sociale ed ecclesiale piuttosto omogeneo e stabile. Chi assumeva la forma, chi osservava le norme formative, prendeva buona forma, veniva ben formato. L’osservanza delle norme e della disciplina religiosa era il criterio sicuro di buona riuscita nella formazione.

Questo modello di comunità ha funzionato a lungo, per circa 3-4 secoli, dalla riforma post-tridentina dei seminari, e ha prodotto schiere numerose e solide di sacerdoti e religiosi. Come sempre, nelle realizzazioni umane, si manifestavano anche difetti piuttosto comuni: una minore attenzione alla persona e all’autonomia dei membri; l’enfasi sul ruolo del superiore poteva generare autoritarismo e abusi; scarsa corresponsabilità e dialogo; passività, ripetitività, poca creatività; e altro ancora.

Sappiamo tutti che, negli ultimi decenni, questo modello dell’osservanza è andato progressivamente in crisi, fino a sbriciolarsi, a motivo dei cambiamenti del contesto socioculturale, ecclesiale, pedagogico: l’attenzione è sempre più passata dalla “forma” al “formando”.

Cominciò a non bastare più solo l’“osservanza” per una buona formazione. D’altra parte, le nuove interpretazioni formative, a volte, presentavano vistose lacune e inconsistenze. L’incontro delle giovani generazioni con i religiosi anziani, “formati” precedentemente non è stato facile: c’erano anziani confusi di fronte al nuovo, e giovani incerti e fragili.

 

3. COMUNITÀ DI SOLISTI (o di autorealizzazione)

E’ uno dei modelli di comunità che si incontra oggi più di frequente, in reazione alle comunità di osservanza nelle quali gli aspetti personali erano sacrificati alle esigenze dell’uniformità. In una comunità formativa può installarsi questo modello, sia per la presenza di giovani particolarmente individualisti (per cultura attuale e a volte per problemi personali), sia per la mancanza di un vero progetto comunitario e sia per carenza di formatori che vivano la loro “paternità” formativa, che non siano timidi o distratti da altri impegni e interessi.

In questo tipo di aggregazione il criterio prevalente è “la persona al centro”. Questo è un criterio importante e andava recuperato, ma, troppo enfatizzato, genera comunità di solisti (e molto spesso di soli). Non può bastare l’autoformazione dei singoli. Non può bastare che i formatori offrano solo alcuni servizi ma con poca relazione formativa personale e comunitaria.

Quando il criterio dell’autorealizzazione è assolutizzato, ci si incammina verso la perdita della relazione con Dio e dell’appartenenza alla comunità. I rapporti interpersonali si basano sempre più sulla esibizione del proprio “io”, su forme di competitività/aggressività, di disinteresse (“vivi e lascia vivere”), con atteggiamenti di difesa ad oltranza del proprio io (“sono fatto così”). Succede che alcuni religiosi diventano intoccabili, si chiudono ad ogni osservazione formativa o cambiamento in favore del cammino comune, rivendicano di poter realizzare le proprie scelte personali, diventano incapaci di adattamento l’uno all’altro, rendono la convivenza sempre più impossibile.

E il formatore in queste comunità? Nelle comunità di solisti, il formatore perde praticamente il suo ruolo di animatore di dialogo, di discernimento, di crescita, di comunione. Si giunge così all’estremo opposto rispetto al modello dell’osservanza: all’autoritarismo subentra il democraticismo anarchico per l’assenza dell’autorità e del suo ruolo comunionale e autorevole (auctor = colui che fa crescere).

         La comunità formativa di solisti, di fatto, è una negazione della comunità.

         Le nostre Costituzioni raccomandano l’equilibrio tra persona e comunità: “La comunità deve riscoprire la persona con i suoi doni e le sue funzioni, se vuole diventare comunione; e la persona ha bisogno di lasciarsi coinvolgere nella comunità per realizzare se stessa. Ognuno, sentendosi membro vivo della Congregazione, si riconosce corresponsabile delle sorti di essa e contribuisce al suo incremento” (art. 53).

 

4. COMUNITÀ SERRA

Anche questo modello di comunità di formazione è improntata a un valore fondamentale della vita religiosa: “La comunità innanzitutto”. È  la risposta (non equilibrata) alla riscoperta del valore e del ruolo della comunità.

Le comunità serra si iper-proteggono; organizzano la “loro” vita, preghiere, lavoro, attività in funzione di se stesse, di un progetto ben concepito. Fuori degli orari o della programmazione di comunità, non accettano invasioni o disturbi della loro quiete... neanche del superiore provinciale. Il formatore diventa l’aquila (o la chioccia) che vola sopra la sua nidiata e protegge il nido.

Queste comunità formative tendono a dimenticare che sono comunità “della Congregazione” e “per la missione” che presentano continui limiti, miserie, imprevisti. L’esigenza di una giusta intimità comunitaria a volte è spinta al punto da portare all’isolamento dal mondo, compreso quello congregazionale (“almeno fin che sono in formazione”). Ne deriva un certo imborghesimento, una privacy autoreferenziale, con difficoltà di adattamento all’odore (e anche puzza) delle pecore, a perdita di zelo per condivisione e la conquista apostolica di ambienti difficili.

Non basta passare dall’Io al Noi; occorre giungere al Noi incarnato e apostolico. Don Orione: “La Congregazione e ciascuno di noi non deve vivere per sé, ma per la carità e per la Chiesa…  Non dobbiamo vivere ciascuno per noi, ma ciascuno per tutti i fratelli, nella Carità del Signore. Ci siamo uniti in Cristo per vivere ciascuno per tutti e non ciascuno per sé. Noi non viviamo che per la Carità e per la Chiesa; solo così si è veri Figli della Divina Provvidenza”.[9]

Sappiamo quanto Don Orione pigiava sull’acceleratore dell’apostolicità. “La carità comanda di non appartarci in una comoda bastevolezza, ma di sentire e avere compassione fattiva per i dolori, i bisogni degli altri, dai quali non dobbiamo riguardarci separati mentre sono una sola cosa con noi, in Cristo”.[10]

           

5. COMUNITÀ SECOLARE

La condivisione della vita della gente” è il valore ispirante e determinante la vita di queste comunità. L’inserzione nel mondo, lo stare con la gente, caratterizza la comunità formativa secolare. È l’opposto della comunità serra.

Tali comunità vivono molto inserite in ambienti di attività e di apostolato. A volte, il  gruppetto di pochi formandi è solo un’appendice di una comunità religiosa immersa nell’apostolato, con altri interessi e  dinamiche. Uno dei confratelli è “incaricato” della formazione; di fatto “dà un occhio” ai giovani in formazione che hanno i loro studi, i loro orari, ma poi vivono immersi nella vita e nelle attività della comunità. Le possibilità di relazioni vive tra giovani e con il formatore sono minime. Il vivere per… fa passare in secondo piano il vivere con…
              In queste comunità, spesso c’è un basso livello di vita spirituale e di vita fraterna; non viene proposta una “misura alta” di vita religiosa proprio in nome di una completa condivisione e contatto con la gente.

Il valore dell’inserzione/condivisione è evidentemente buono. Ma in una simile comunità formativa si perdono gli spazi, tempi e interesse per la vita fraterna, per la preghiera, per la riflessione personale e il dialogo; si frantuma l’identità e la relazione interpersonale comunitaria e, con essa, anche l’azione educatrice/formatrice propria della vita fraterna.[11]

            Guardando a Don Orione, molto apostolico estroverso e vicino alla gente, meraviglia vedere come nell’insegnamento e nelle scelte pratiche egli reagiva a uno stile “secolare” e “individuale”. Le case di formazione erano ben strutturate e riservate.
In Albania, i religiosi vivevano spersi in vari luoghi di apostolato: “Lasciare i religiosi sempre isolati, uno qua e uno la, no, non è possibile. Che se non ci fosse fondata speranza di poter avere, entro un periodo di tempo non remoto, un rifugio missionario, dove far vita di comunità e rifarsi nello spirito, piuttosto direi di ritirarci".[12]
In Argentina, interviene con fermezza a riguardo di un confratello: "rientri nelle tende della Congregazione… In coscienza non posso più tollerare che un religioso stia fuori di comunità. Non posso ammettere scuse né protezionismi: tutti siete interessati alla vita religiosa".[13]

 

6. COMUNITÀ FAMIGLIA

Tutti i modelli di comunità sopra descritti si fondano su qualche importante valore di base: la persona, la comunità, la missione, la condivisione con la gente, il servizio, e altri. Ma tra questi valori, tutti appartenenti alla natura della vita religiosa, occorre trovare una sintesi vitale nell’equilibrio di essi: separazione/inserzione, autorealizzazione/oblatività, persona/comunità, tradizione/novità, azione/contemplazione, evangelizzazione/servizio, ecc.

Come detto all’inizio, è il modello apostolico che ispira la vita della comunità, integrando  persona, comunità e missione al servizio del Regno di Dio.

Una famiglia unita in Cristo”, secondo l’espressione delle nostre Costituzioni, è il modello di comunità formativa a cui tendere sempre meglio.
            
Gesù salì sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3, 13-16). Occorre avere viva la coscienza della vocazione con cui Gesù ci ha coinvolti nella sua missione per capire e vivere la comunità in un equilibrio dinamico e vitale tra spiritualità - comunità - missione.

Papa Francesco ha detto ai seminaristi e novizi e novizie: “Io penso sempre questo: è meglio il peggior seminario che nessun seminario! Perché? Perché è necessaria la vita comunitaria con i suoi quattro pilastri: vita spirituale, vita intellettuale, vita apostolica e vita comunitaria”.[14]

            Oggi si parla di "senso di appartenenza" e questa appartenenza è originata dalla grazia di Dio, riconosciuta e scelta. Diversamente resterebbe , nella coscienza dei religiosi in f formazione un senso di precarietà, di provvisorietà, di scollamento affettivo. Sarebbe "servo e non figlio", per dirla con Don Orione, "allievo e non membro".

            Ci vuole il calore della pentola per cucinare prodotti diversi che si fondono in un prodotto nuovo; ci vuole il calore della pentola comunitaria  per cucinare quanto il Signore ha messo nella personalità di ciascuno, che non viene distrutto ma trasformato (educato) “secondo la misura del dono di Cristo” (Ef 4, 7 e 13).

Don Orione ha tanto insistito sullo spirito di famiglia come nota tipica della Congregazione e, grazie a Dio, continua ad essere vivo.[15] Lo spirito di famiglia ha mitigato in passato il rischio di formalismo nell’epoca delle comunità dell’osservanza. Oggi, in un’epoca di individualismo, esso deve sostenere relazioni di famiglia, dinamiche di famiglia, tanto necessarie per il bene delle persone e dell’apostolato.

Qui si apre la riflessione più specifica di voi formatori, confrontando esperienze, difficoltà, possibilità, convergendo su alcuni orientamenti comuni che qualifichino la nostra formazione orionina.

Con quali dinamiche e scelte comunitarie favorire lo spirito e la pratica di famiglia nelle nostre comunità formative? Da parte mia offro alcune sottolineature formative di Don Orione e della nostra tradizione.

 

II. QUALCHE ORIENTAMENTO FORMATIVO

 

  1. CONDIVIDERE L’AMICIZIA DI GESÙ. Lectio divina.

     La comunità religiosa  è data da Dio: va accolta e vissuta con riconoscenza e sacralità. "Congregavit nos in unum Christi amor": la comunità è data da Dio, è resa possibile dal suo Spirito. Nessuna dinamica o organizzazione può sostituire la figliolanza di Dio che ci costituisce in fraternità.

Viviamo in comunità per santificarci insieme. Il cammino spirituale non è un ambito del tutto privato; è comunitario. Come lo è anche l’apostolato, comunitario.

Una “Famiglia in Gesù Cristo” nasce dalla condivisione dei beni dello Spirito, dalla condivisione della fede, per cui il vincolo di fraternità è tanto più forte quanto più centrale e vitale è Gesù ciò che si mette in comune della vita con Lui.

Don Orione proponeva per la comunità religiosa il modello "famiglia", con gli atteggiamenti umani, spirituali e pratici propri della famiglia, quella naturale e quella di Nazaret...

“La famiglia di Nazaret è il modello di tutto quello che ci vuole per noi.

Prima di tutto c’è la grande lezione dell’amore di Dio, della carità. L’amore grande che portavano a Dio. Dio era la loro vita, non amavano che Dio, non parlavano che di Dio, non operavano che per Dio; Dio era il movente di tutto! Maria e Giuseppe avevano per Gesù l’affetto più grande, perché in Gesù riconoscevano il Figliuolo di Dio. Essi operavano sempre per amore del Signore. L’amore del Signore deve essere anche per noi di guida in tutte le nostre azioni. Guardate voi se avete questo amore che dirige tutte le vostre azioni.

In questa famiglia c’era l’amore di Dio e l’amore del prossimo! La nostra famiglia non sarà mai abbastanza modellata su questo esemplare”  (Festa della Sacra Famiglia 1932).

Cos’è che costituì la famiglia di Nazaret? La presenza di Gesù.

Cos’è che costituisce la comunità religiosa? La presenza di Gesù.

            La relazione con Gesù e, in lui, con il Padre, nello Spirito Santo, lo sappiamo bene, si realizza mediante la Parola, i Sacramenti e la Carità[16] verso i fratelli. C’è interdipendenza tra le tre modalità della nostra relazione con Dio e occorre coltivarle tutte e tre. Mi limito qui a evidenziare l’importanza della relazione mediante la Parola di Dio.

Senza ascolto e dialogo con la Parola di Dio, senza dipendenza dalla Volontà di Dio finiamo per vivere in un protagonismo religioso egocentrico che è la morte della vita spirituale e della vita comunitaria.[17] Non c’è niente che possa farci sentire “fratelli” e “comunità” come il condividere l’amicizia con Gesù.

Non basta dire: “Io sono religioso, parlo di cose religiose, io faccio tutto per il Signore”. Non basta avere forma religiosa, occorre avere relazione con Dio. Bisogna vivere in Dio, ricevere da Dio, fare la volontà di Dio.[18] La preghiera e la meditazione sono i punti di contatto imprescindibili da figlio a Padre. Si diventa figli e fratelli nella preghiera e nella frequentazione della sua Parola.

Don Orione aprì la sua “scuola di santità” dicendo chiaramente e preliminarmente che  “Nostra prima Regola e vita sia di osservare, in umiltà grande e amore dolcissimo affocato di Dio, il Santo Vangelo".[19] Ebbene, la meditazione quotidiana è il tempo quotidiano per “regolarci” sul Vangelo.

Si capisce subito se uno ha pietà soda o una pietà di forma; se c’è sostanza o finzione. Fare bene, fare bene la Santa Meditazione. Bisogna essere impegnati a farla bene!”.[20]

La meditazione è atto personale e comunitario per alimentarci e sostenerci  vicendevolmente nella vita di figli della Divina Provvidenza!

Sappiamo come la pensava Don Orione: “Saltata la meditazione, è perduta la giornata”. “La prima ora, tutta a Dio, alla presenza di Dio, impiegandola nella meditazione e nelle pratiche di pietà. E’ nel mattino, prima di qualsivoglia distrazione e comunicazione con gli uomini, che bisogna pregare e ascoltare Dio. La prima ora tutta a Dio!”.[21]

Il CG 13 parla di “esperienze pratiche di condivisione della Parola di Dio, sullo stile della lectio divina… nelle proprie comunità”.

La Lectio divina è strumento efficace per creare un clima di fraternità nello Spirito, per fare “famiglia in Gesù Cristo”.  È stata rilanciata in questi ultimi anni e raccomandata in tanti documenti del Magistero.[22] Dovrebbe diventare un atto comunitario ordinario, specialmente nelle case di formazione, almeno una volta alla settimana, ma può essere condivisa anche durante i ritiri mensili, gli esercizi spirituali annuali, e altre iniziative formative. Non c’è niente di più efficace per creare un clima di fraternità nello Spirito, per fare “famiglia in Gesù Cristo”.

           

  1. CAMMINARE INSIEME. Il progetto comunitario.

Il progetto comunitario rappresenta una modalità per giungere alla spiritualità di comunione dove il fratello che vive accanto a noi è uno che mi appartiene” (CG13 dec. 9).

È uno strumento importante per “fare famiglia” con un cammino ordinato, continuo che integra le varie dimensioni della vita comunitaria. Le nostre Costituzioni al n. 59 parlano del “progetto di vita della comunità… per rinnovarci e rafforzare il legame dell’unità”. È da formulare verificare e aggiornare periodicamente.

Il progetto comunitario, infatti, rafforza la struttura interna della vita dei fratelli che rischia continuamente di venire de-strutturata non solo dall’individualismo, ma anche da attività, luoghi e tempi di vita diversi, ecc. Il progetto comunitario è matrice d’identità, è focolare di crescita personale, comunitaria e apostolica; è il luogo del discernimento e dello sviluppo fraterno del progetto di Dio.

Il progetto comunitario più che una fotografia ideale della comunità è il cammino della comunità “famiglia unita in Cristo”. Favorisce la fedeltà creativa nella mutevolezza e diversità di tempi e situazioni. Il progetto comunitario di vita nasce dal dialogo e porta frutti di comunione con Dio, con i confratelli, con la gente cui siamo inviati.

Schema per il progetto comunitario tratto da “Tre sussidi per il rinnovamento personale, comunitario e apostolico” (2004).

 

AREE

DELLA VITA

ANALISI SITUAZIONE

OBIETTIVI

MEZZI

TEMPO

E LUOGO

VERIFICA

Dimensione umana (1)

 

 

 

 

 

Rapporto

con Dio (2)

 

 

 

 

 

Vita fraterna

in comunità (3)
 

 

 

 

 

 

Vita apostolica missione (4)

 

 

 

 

 

 

Dimensione carismatica (5)

 

 

 

 

 

 

Formazione (6)

 
 

 

 

 

 

 

1)  Cost., art. 24, 106, 64 § 2-9, 93; cfr anche Cost., art. 9 § 10, 45, 53.

2)  Cost., art. 50-51, 55, 65-66, 14; Cost., Nome 49-56; cfr anche Cost., art. 4, 46, 68-69, 71, 73, 76-77, 100.

3)  Cost., art. 59, 60-61, 64, 49, 52-53; Cost., Norme 29-48; cfr anche Cost., art. 3, 16, 24, 41, 45, 54.

4)  Cost., art. 116-128; Cost., Norme 92-118, 126-150; cfr anche Cost., art. 7, 12, 14-16, 24, 26, 28, 57-58, 65, 67.

5)  Cost., art. 62-63, 70; cfr anche Cost., art. 1, 5, 8, 9, 79, 80.

6)  Cost., art. 111-112, 82, 84, 56, 64; Cost., Norme 57-80; cfr anche Cost., art. 87-88, 90-91, 102-104, 107-112.

Non è qui il luogo per approfondire e spiegare l’identità e il metodo del progetto comunitario,[23] ma solo intendo riaffermarne l’importanza per tradurre in cammino le nostre attese sulla vita fraterna in comunità.

 

3.     COMPASSIONE, CORREZIONE, PROMOZIONE FRATERNA. La revisione di vita.

Mai come oggi abbiamo le idee chiare – con tutte le motivazioni filosofiche, teologiche, psicologiche e carismatiche – su come deve essere la comunità, su come devono essere le relazioni fraterne. Più sappiamo come “devono essere le cose” e più ci scandalizziamo e “rompiamo” di fronte ai limiti, deficienze e miserie che continuano ad essere presenti. Per tenere insieme l’ideale cui tendere e le persone reali con cui tendere all’ideale, c’è molto bisogno di “compassione, correzione, promozione fraterna” perché le relazioni fraterne e la comunità non vadano a pezzi.

 

Leggendo molto di Don Orione, anche la corrispondenza ordinaria con confratelli e altre persone, mi sono accorto che Don Orione, quando si infervorava parlando della carità e dell’unione fraterna richiamava spesso un’altra parola: «compatirci».

«Facciamo regnare la carità con la mitezza del cuore, col compatirci, con l’aiutarci vicendevolmente, col darci la mano a camminare insieme» (Lettere II p. 331)

«Quanto è mai bello amarci, confortarci, compatirci, aiutarci tra noi nell’amore fraterno che viene da Nostro Signore» (Lettere I p. 438).

«Quando si ha qualche cosa essere schietti a dirlo fraternamente, con carità, senza mal’animo… Abbiamo tutti i nostri lati deboli. Tutti, adunque, dobbiamo avere un manto di amore per compatirci» (Riunioni p. 77-80)

«Sii longanime e forte nell’amare, confortare, compatire i tuoi fratelli» (Lettere I p. 440)

La comunità è un’utopia se si perde il senso del limite proprio e altrui e non ci si riconcilia con esso. Dinanzi alle divisioni e alle miserie che immobilizzano così spesso il nostro vivere, niente è più essenziale che il visitarci, il compatirci e l’aiutarci. Se perdiamo la compassione abbiamo perso tutto.

Don Orione ha vissuto ed educato ad un apostolato di compassione che faceva dei limiti  (fisici, mentali, morali, sociali, ecc.) una vocazione e non una difficoltà o peggio uno scandalo e rifiuto: “diventare un uomo buono tra i miei fratelli abbassare, stendere sempre le mani e il cuore a raccogliere pericolanti debolezze e miserie e porle sull’altare perché in Dio diventino le forze di Dio e grandezza di Dio”. Questo atteggiamento si forma, si allena e si fortifica nelle relazioni fraterne in comunità mediante “compassione, correzione e promozione fraterna”.[24] È così che si forma un vero figlio della Divina Provvidenza.

Don Orione ci voleva "apostoli di carità, di amore puro, amore alto e universale; facciamo regnare la carità con la mitezza del cuore, col compatirci, con l'aiutarci vicendevolmente, col darci la mano e camminare insieme".[25]

            Don Orione ancora: “Quando voi andate in una famiglia e trovate la buona armonia e vedete che c’è l’accordo degli spiriti, voi vi ci troverete bene. Diceva mia madre: “Meglio una fetta di polenta senza saracca mangiata in santa pace, che i capponi con il sangue al naso”.[26] Per noi, oggi, i “capponi” possono essere i “beni e strumenti” anche necessari, ma anche certi “idealismi”, il fare “bella figura”, i “progetti”, i “bei voti”, ecc., che a volte ci fanno inquietare, arrabbiare e anche contrapporci ai fratelli di casa.

            L’art. 77 delle nostre Costituzioni prevede la “periodica revisione comunitaria di vita” come strumento comunitario per far crescere la compassione, correzione e promozione fraterna nella “vita di famiglia in Cristo”. La revisione di vita è riproposta anche dal recente 13 Capitolo generale.[27]

            Ricordiamoci che la vita fraterna non è solo “termometro” della salute della nostra vita religiosa, ma è anche “terapia” che sana, che alimenta, che rinvigorisce.

 

  1. OBBEDIENZA DI FIGLI VERSO LA COMUNITÀ E IL SUPERIORE. Colloquio formativo con il giovane.

            Con l'obbedienza “noi entriamo più decisamente e più sicuramente nel disegno di salvezza” (art. 37) e permettiamo a Dio di continuare a guidarci di tenerci uniti, da figli e da fratelli. “La nostra comunione è regolata dal servizio dell’autorità” (art.38). D’altra parte, “i Superiori si ricordino che la perfezione del governare è compresa in queste cinque parole: vegliare, amare in Domino, sopportare, perdonare e pascere in Domino” (art.39).

Va rifiutata la passività infantile; siamo persone intelligenti, che comprendono e fanno molte cose. Ma nello stesso tempo sappiamo di non essere noi soli “autori” della nostra storia.  L'obbedienza ci mette nel dinamismo della figliolanza e del discepolato con l’Autore della nostra vita. La figliolanza, a sua volta, è la fonte della fraternità e della comunità.

Mettersi nelle mani dei fratelli e dei superiori è mettersi nelle mani di Dio, con un atto di signoria e non di servilismo, come quello di Gesù: “Questo è il mio corpo dato per voi” (Lc 22,19); “Io offro la mia vita… Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso” (Gv 10,18).

Ricordiamo il voto di obbedienza fatto nelle mani del Superiore e il gesto di mettere le nostre mani nelle mani del Vescovo durante il rito dell’ordinazione sacerdotale. Tutto ciò è costitutivo della nostra identità e modalità di essere discepoli. Abbiamo volutamente rinunciato a un protagonismo in solitudine in favore del protagonismo in comunione con Dio e con i fratelli. Per questo, Vita consecrata afferma che “non c’è contraddizione tra obbedienza e libertà” (91b), anzi “l'obbedienza religiosa, lungi dal diminuire la dignità della persona umana, la fa pervenire al suo pieno sviluppo, avendo accresciuta la libertà dei figli di Dio” (Perfectae caritatis 14).

Ho ascoltato il teologo brasiliano João Batista Libânio osservare che, vicino al prototipo del religioso “docile” e del religioso “ribelle”, è entrato nella vita consacrata il religioso “liberal”, che conosce le norme, non protesta contro di esse e contro i superiori, ma segue il proprio arbitrio e va per la sua strada.[28] È una defezione religiosa di fatto.

Certamente ci vuole il discernimento comunitario e l’obbedienza deve essere attiva e responsabile, ma alla fine uno sceglie se camminare da solo o se, per fede, si lascia  prendere “per mano” dal Signore, mediante le mani dei confratelli e del superiore. È la vita di fede.

Per noi religiosi ha particolare importanza il riferimento amoroso e filiale alle Costituzioni, perché esse “sono una regola di vita atta a promuovere in noi la vita evangelica secondo la particolare intuizione del Fondatore” (art.234). Sono la fonte e la regola dell’ “amore fraterno all’interno della comunità”.[29]

            L’atteggiamento di figliolanza con il Signore e di fraternità nella comunità si alimenta mediante la relazione con il superiore/formatore/padre.

La cultura attuale esalta l’individualismo autarchico e rifiuta qualsiasi tipo di dipendenza e di obbedienza. Così però, l’uomo – anche religioso - finisce rinchiuso nel suo atomo di soggettività.[30] Diventa più importante essere autonomi che essere in relazione.

Sono le relazioni che ci tirano fuori da noi stessi (e-ducere, educare). Fidarsi e obbedire espandono la vita.

La relazione di figliolanza è la prima e la madre di tutte le altre relazioni. La figliolanza sviluppa la persona come essere-in-relazione. Se uno non sviluppa bene questa relazione non svilupperà bene nemmeno le altre, quelle fraterne e quelle apostoliche.

L’incontro con il “tu” del superiore/formatore stimola la sintonia con il “Tu” di Dio, educa alla mentalità di fede, alla prospettiva di fede; fa uscire dall’idealismo e dall’autismo spirituale. In questo senso, il formatore/superiore ha una grande responsabilità sia in riferimento allo sviluppo della figliolanza con Dio che in riferimento alla fraternità comunitaria. Un “padre assente” o non significativo è una sciagura per lo sviluppo nei “figli” della capacità di amare e di avere una relazione autentica con Dio e con i fratelli.

I “padri” e formatori possono essere più o meno bravi, avere molti o pochi talenti. Importante è che vivano la “paternità” in modo umano e spirituale nel Signore. Farà del bene ai “padri” e farà crescere i “figli”.

 

[1] Lettere II, 148.

[2] Lettere I, 417.

[3] Cfr. Documento del CG12, p. 70. “Senza essere il tutto della missione della comunità religiosa, la vita fraterna ne è un elemento essenziale” (VFC 55; Cfr CJC 665).

[4] Parola, 12 aprile 1918.

[5] Papa Francesco: “Diventare sacerdote, religioso, religiosa non è primariamente una scelta nostra. Io non mi fido di quel seminarista, di quella novizia, che dice: “Io ho scelto questa strada”. Non mi piace questo! Non va! È la risposta ad una chiamata e ad una chiamata di amore”; Incontro con seminaristi, novizi e novizie, nella Sala Paolo VI, 6 luglio 2013.

[6] Si veda la Circolare “Io debole servitore di Dio. La relazione personale con Dio fonte di identità e fedeltà” in Atti e comunicazioni della Curia generale, 2006(60), n.219, pp. 3-20.

[7]La carità è indispensabile specialmente per chi vive in comunità. L'Apostolo San Paolo la chiama "vinculum perfectionis". E' la virtù che ci assicura che stiamo camminando sul buon sentiero dei consigli evangelici. La carità è quella che tiene assieme, è il vincolo, il legame, quello che ci sostiene nella fatica per l'apostolato verso i fratelli più bisognosi. E' la carità che ci conforta nelle pene. E' la carità, l'amor di Dio che ci spinge a darci fraternamente la mano per camminare insieme”; Massime del 1916.

[8] Parola III, 33s.

[9] Lettere I, 185.

[10] Scritti 80, 283.

[11] Vita fraterna in comunità, 55.

[12] Lettera del 20.9.1937, Scritti 50, 36.

[13] Lettera del 19.7.1929, Scritti 1, 97.

[14] Incontro nella Sala Paolo VI del 6 luglio 2013.

[15] Si veda il capitolo Spirito di famiglia in Sui passi di Don Orione, pp.79-88.

[16] “L'intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyrìa), celebrazione dei Sacramenti (leiturgìa), servizio della Carità (diakonìa). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro”; così Benedetto XVI in Deus caritas est, 25.

[18] L’io debole è innanzitutto debole di relazione con Dio. Cfr Circolare Io debole servitore di Dio: Atti e comunicazioni 2006, n.219, p.3-24.

[19] Lettere di Don Orione, II, 278. Sul rapporto di Don Orione con la Parola di Dio si veda l’Introduzione a San Luigi Orione. Meditazioni sul Vangelo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, p. 23-41.

[20] Parola III, 64.

[21] Lettere I, 451.

[22] Cfr Verbum Domini, 86-87. La lectio divina, afferma Benedetto XVI è “«capace di schiudere al fedele il tesoro della Parola di Dio, ma anche di creare l’incontro col Cristo, parola divina vivente».

[23] Sul progetto comunitario si veda il Quaderno di formazione permanente per l’anno 2006-2007 dal titolo Una famiglia unita in Gesù Cristo. Per l’approfondimento, si veda J. M. Ilarduia, Il progetto comunitario, cammino d’incontro e comunione, EDB, Bologna, 2004.

[24] Papa Francesco, parlando alle Clarisse (Assisi, 4 ottobre 2013), ha invitato al realismo che viene dalla contemplazione di Gesù e dei fratelli “ad occhi aperti”, perché “le idee seccano la testa”. Raccomandò loro di non essere “troppo spirituali”. “Quando sono troppo spirituali, io penso alla fondatrice dei monasteri della concorrenza vostra, Santa Teresa. Quando a lei veniva una suora, oh, con queste cose… diceva alla cuoca: “dalle una bistecca!”. E poi continuò parlando della vita di comunità. “Perdonate, sopportatevi, perché la vita di comunità non è facile. Il diavolo approfitta di tutto per dividere! Dice: “Io non voglio parlare male, ma…”, e si incomincia la divisione. No, questo non va, perché non porta a niente: alla divisione. Curare l’amicizia tra voi, la vita di famiglia, l’amore tra voi. E che il monastero non sia un Purgatorio, che sia una famiglia. I problemi ci sono, ci saranno, ma, come si fa in una famiglia, con amore, cercare la soluzione con amore; non distruggere questa per risolvere questo; non avere competizione. Curare la vita di comunità, perché quando nella vita di comunità è così, di famiglia, è proprio lo Spirito Santo che è nel mezzo della comunità. La vita di comunità, sempre con un cuore grande. Lasciando passare, non vantarsi, sopportare tutto, sorridere dal cuore. E il segno ne è la gioia. E io chiedo per voi questa gioia che nasce proprio dalla vera contemplazione e da una bella vita comunitaria”.

[25] Nel nome della Divina Provvidenza, 108. Papa Francesco, durante l’incontro con seminaristi, novizi e novizie nella Sala Paolo VI del 6 luglio 2013, ha detto: Papa Francesco: “Vorrei sottolineare l’importanza, nella vita comunitaria, delle relazioni di amicizia e di fraternità che fanno parte integrante della formazione. Tante volte ho trovato comunità, seminaristi, religiosi, o comunità diocesane dove le giaculatorie più comuni sono le chiacchiere! E’ terribile! Si “spellano” uno con l’altro… Scusatemi, ma è comune: gelosie, invidie, parlare male dell’altro. Non solo parlare male dei superiori, questo è un classico! È  tanto comune, tanto comune. Non sta bene farlo: andare a fare chiacchiere. “Hai sentito… Hai sentito… “. Ma è un inferno quella comunità! Questo non fa bene. E perciò è importante la relazione di amicizia e di fraternità. Gli amici sono pochi. La Bibbia dice questo: gli amici, uno, due… Ma la fraternità, fra tutti. Se io ho qualcosa con una sorella o con un fratello, lo dico in faccia, lo dico a quello o a quella che può aiutare, ma non lo dico agli altri per “sporcarlo”. Dietro le chiacchiere, sotto le chiacchiere ci sono le invidie, le gelosie, le ambizioni. Pensate a questo. Non parlare male di altri. “Ma, padre, ci sono problemi…”: dillo al superiore, dillo alla superiora, dillo al vescovo, che può rimediare. Non dirlo a quello che non può aiutare. Questo è importante: fraternità!  Ma dimmi, tu parlerai male della tua mamma, del tuo papà, dei tuoi fratelli? Mai. E perché lo fai nella vita consacrata, nel seminario, nella vita presbiterale? Soltanto questo: Fraternità! Amore fraterno”.

[26] Parola, III, 22.

[27] Cfr anche Costituzioni, art.111; Documento del 13 CG, n. 6 e 136.

[28] Congresso internazionale della Vita Consacrata (Roma, 2004). Circa la tentazione soggettivistica della propria realizzazione, si veda Faciem tuam 3e: Quando il criterio dell’autorealizzazione è assolutizzato, ci si incammina verso la perdita della relazione con Dio e dell’appartenenza alla comunità; Far crescere la comunità che ci fa crescere: Atti e comunicazioni 2006, n.221, p.269-290.

[29] Documento CG 13 n. 50; altri richiami al valore ascetico e pratico delle Costituzioni: n.6, 47, 53, 82, 136.

[30] “L'interesse egoistico, singolo, il fatto casuale, il particolare angusto, l'atomismo nella vita sono l'ultima parola della civiltà occidentale”; M. I. Rupnik in Nel fuoco del roveto ardente, Lipa 2003, p.80.

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