Lettera dopo il sinodo orionino delle comunità di Costa d'Avorio, Togo, Burkina Faso, Kenya, Mozambico e Madagascar.
15 dicembre 2013
FP/13.79
SINODO ORIONINO PER L’AFRICA
ORIENTAMENTI E LINEE DI COLLABORAZIONE
Bonoua, 8-10 settembre 2013
Carissimi Confratelli
Deo gratias!
Dall’8 al 10 settembre scorso, a Bonoua, abbiamo tenuto in semplicità e fraternità un Sinodo orionino per l’Africa e il Madagascar, che ha visto riuniti rappresentanti della Congregazione orionina provenienti da Costa d’Avorio, Togo, Burkina Faso, Kenya, Mozambico e Madagascar; ero presente anch’io, il consigliere generale Don Eldo Musso, i superiori provinciali Don Pierangelo Ondei, P. Aparecido Da Silva, P. Basile Aka, P. Malcolm Dyer.
Scopo del Sinodo è stato guardare insieme (= sinodo) confrontando esperienze e orientamenti su alcuni temi pratici di inculturazione della vita religiosa e del nostro carisma in Africa, e anche studiare qualche forma di collaborazione stabile per favorire un cammino unitario e identificato della Congregazione nelle diverse nazioni. Queste prospettive erano già state anticipate nella mia lettera “Africa orionina in cammino” e rispondono alla richiesta del Capitole generale del 2010 di promuovere la “corresponsabilità delle Province negli sviluppi della Congregazione”. Documenti di riferimento sono stati “Ecclesia in Africa” (1994), “Africae munus” (2011) e le nostre Costituzioni.
Da parte di tutti i partecipanti è stata apprezzata la positività di questo incontro perché ha creato fiducia, conoscenza reciproca, stima, spirito di famiglia, progetto.
Con l’aiuto degli appunti di Fr. Malcolm Dyer e di Don Luciano Mariani, ho raccolto un elenco di alcuni orientamenti e linee di collaborazione. Ho lasciato il testo essenziale, come è venuto negli interventi, senza apporvi citazioni dalle Costituzioni e da documenti del Magistero.
- Formazione e pratica della vita comunitaria: problemi, chances e orientamenti
- I popoli africani sono generalmente molto sensibili al valore della famiglia. La comunità va presentata e vissuta come famiglia. Però non basta. Occorre presentare e vivere la comunità come “famiglia nuova”, come “famiglia in Cristo”.
- Il cuore e il “sangue” comune della nuova famiglia in Cristo è la medesima spiritualità che deve essere coltivata e condivisa. A tale scopo, occorre valorizzare molto la Parola di Dio (lectio divina) e la formazione al carisma, storia, stile, cultura orionina. La comunità religiosa diventa una opportunità di crescita e di sviluppo se in essa c'è relazione con Dio e servizio al prossimo, due dinamismi che mettono in comunione.
- L'appartenenza etnica e nazionale non deve essere il criterio determinante nel formare le comunità. Se ne deve tenere conto, ma i nostri criteri determinanti nel formare le comunità devono essere quelli dell’unica fraternità e del servizio da svolgere.
- Soprattutto nei primi anni di formazione, ciascun candidato deve fare opera di assunzione, riconciliazione e superamento dei limiti e delle ferite personali provenienti dall’ambiente familiare e nazionale. In questo senso, saranno molto utili gli esercizi di correzione/promozione fraterna, di discernimento e di revisione di vita, il dialogo formativo personale e comunitario, l’aiuto psicologico. Insieme alla lectio divina occorre fare anche la lectio umana della volontà di Dio su singoli e comunità.
- Nelle diverse culture africane, la famiglia ha valori e impostazioni differenti. Occorre conoscere la famiglia di provenienza, soprattutto quella dei giovani in formazione, perché le relazioni familiari influiscono sulle relazioni nella comunità religiosa e nella società. Le precedenti esperienze familiari vanno integrate nelle regole e strutture relazionali della nuova famiglia ove, ad esempio, un fratello minore può essere posto in autorità.
- Nelle comunità ci sia dialogo aperto sulle diversità culturali e personali e non solo tacito rispetto, altrimenti le differenze esplodono in contrasti. Non si temano tensioni e conflitti che, se affrontati adeguatamente, fanno crescere.
- Il vissuto e il significato della povertà nel contesto africano e la vita religiosa: dimensione individuale, comunitaria e sociale
- C'è una diffusa povertà socio-economica in Africa che condiziona l'assunzione del valore e della pratica della povertà evangelica. Non c'è una parola adeguata per tradurre il concetto di povertà evangelica, perché la parola è intesa soprattutto mancanza di beni, privazione, miseria, e come tale non è concepita come un valore. Gesù ha indicato il valore della povertà per tutti e tutti siamo chiamati ad assumerla, ieri e oggi.
- In Africa, la povertà dei religiosi è poco visibile e credibile, perché hanno i beni necessari, la sicurezza, le previdenze, buoni edifici di casa e di attività. C'è il rischio che si scelga la vita religiosa come elevazione dalla povertà economica e sociale. Si deve attuare un buon discernimento dei candidati e poi si deve continuare il cammino di purificazione e di formazione che deve portare a sempre maggiore purezza di intenzione che ha il suo scopo essenziale nella donazione a Dio mediante la donazione della propria vita ai fratelli.
- Va curato lo stile di vita semplice e di poveri nel cibo, nelle bevande, nei mezzi di trasporto e nell’uso di tutti quegli strumenti non sono di stretta necessità. Le abitazioni dei religiosi siano veramente sobrie e povere; siano distinte dagli ambienti delle attività. Va evitato quanto concorre a dare l'idea di uno status superiore perché fa sentire lontani dai poveri e imborghesisce il cuore.
- La solidarietà con la propria famiglia di origine è forte e incide sulla libertà e distacco del religioso. Infatti, il figlio è considerato un investimento per il bene anche economico della famiglia per cui ci sono doveri, attese e pretese nei confronti del figlio religioso. La solidarietà con la famiglia è santa ma va attuata “da religiosi”: 1) sia un tema di cui parlare apertamente con il superiore; 2) sia attuata con discernimento e gestione comunitaria e mai individuale.
- Va rimarcato che il voto e la virtù di povertà non hanno solo una dimensione sociale ed economica, ma soprattutto spirituale, cioè implica umiltà interiore, distacco da sé, condivisione, disponibilità agli altri, a imitazione di Cristo “mite e umile di cuore”, che “da ricco che era, si è fatto povero per noi”.
- Nel costume africano è molto importante sottolineare e vivere la povertà come condivisione in comunità e nel servizio ai poveri. La povertà non riguarda solo il possesso dei beni ma anche l'uso condiviso e non egocentrico dei beni; l'appropriazione dell’uso dei beni è contro la povertà religiosa.
- Il popolo semplice, a cui siamo mandati, lavora e tribola nella vita. Il lavoro, anche manuale, è un valore orionino di grande tradizione che non deve andare perso; va valorizzato il lavoro manuale, il lavoro semplice delle cose di ogni giorno nella casa (“se debrouiller” e non far fare).
- Segno di povertà e di comunione fraterna è la pratica della cassa unica della comunità. Bisogna essere reciprocamente esigenti nel dovere della cassa unica, nel mettere insieme denaro e altri beni, nel rendiconto di tutto quanto ciascuno riceve, come dono anche personale, e di quanto ciascuno spende, sia per ufficio che per la propria persona. Tenere stipendio o denaro o auto e usarli a proprio piacimento è un esplicito peccato contro il voto di povertà e la comunione fraterna.
- Povertà e servizio. Non sempre la gente vede e apprezza la pratica di vita povera personale – dobbiamo farlo per il Signore - ma tutti vedono e apprezzano la pratica del servizio del religioso e della comunità, quando sono totalmente dediti alle attività in favore del prossimo, nella parrocchia, nelle attività caritative, tra i giovani e tra la gente. Il distacco da sé e il sacrificio generoso nel servizio agli altri è il più visibile e apprezzato segno di povertà.
- Le opere di carità nel contesto africano: una carità che assiste, forma e promuove. Criteri e scelte pratiche.
- Occorre non limitarsi alla carità assistenziale (dare a chi ha bisogno) perché questa non fa crescere né il povero né il religioso e non favorisce la fraternità che è un segno di Dio. Generalmente, l'africano non corrisponde a chi fa la carità: il povero resta sempre povero e il benefattore deve sempre dare. C'è da riconoscere, però, che anche nella carità più gratuita, c'è sempre un ritorno da parte di chi è aiutato mediante la riconoscenza, la gioia, la piccola partecipazione, la preghiera, ecc.
- Oltre che assistenza in alcuni bisogni primari, la nostra carità deve essere anche promozione ed elevazione delle persone. La carità è fare, ma anche far fare; è rendere la persona capace di fare e di provvedere a sé e agli altri. La carità come insegnataci da Don Orione è sia assistenziale e sia promozionale.
- Ci sono alcuni dei nostri destinatari di carità che sono del tutto e sempre dipendenti e sempre bisognosi di aiuto (disabili, malattie gravi, abbandonati, rifiutati…). Questi sono da Don Orione chiamati “i più poveri”, “i rottami della società”; sono “lo scarto della società”, come dice Papa Francesco. Questo tipo di aiuto ai più poveri è una manifestazione specifica e propria della carità orionina fondata solo sulla Divina Provvidenza.
- Caratteristica delle nostre opere è quella di offrire servizi di carità comunitariamente. Ogni progetto caritativo deve essere comunitario, nell'obbedienza, da servo, da chi collabora in una missione di insieme; ciò aiuterà anche a dare continuità ai progetti di bene. Va evitato l’individualismo e ogni forma di esibizionismo di valore e di potere personale.
- L'esperienza dell’insufficienza economica e l’impotenza nel fare di più è sperimentata anche da noi religiosi e dalle nostre comunità in Africa. È importante accoglierla non con fatalismo o con amarezza ma viverla spiritualmente con umiltà per educarci ad essere figli della Divina Provvidenza e a servire gli altri “da poveri” e non “da ricchi”, padroni e onnipotenti.
- C'è un materialismo della carità da evitare: dare beni e non dare relazione e amore. Bisogna “passare dalle opere di carità alla carità delle opere”, dobbiamo essere “impastati di carità e di amore di Dio” e allora le opere di carità non saranno mai assistenzialismo ma relazione che fa crescere chi dona e chi riceve.
- Nella nostra tradizione orionina dobbiamo unire la pastorale con le opere di carità: “la nostra predica è la carità”; “accanto a un’opera di culto sorga un’opera di carità”; “preti di stola e di lavoro”, ecc. Questo è essenziale della nostra identità. Ciò significa dare alle nostre opere di carità una prospettiva di evangelizzazione, di testimonianza dell'amore della Chiesa e di fiducia nella Divina Provvidenza. Ciò significa anche che, nella nostra pastorale, dobbiamo sempre poter mostrare qualche nostra opera concreta di carità e coinvolgervi i fedeli della parrocchia.
- Dobbiamo essere non solo organizzatori della carità ma attori diretti della carità. Dobbiamo “toccare la carne dei poveri che è la carne di Cristo”, cioè curare il contatto, le relazioni umane e pastorali personalmente; non dobbiamo presentarci solo come “dirigenti” e “capi”.
- È particolarmente delicato il rapporto tra la scelta di opere grandi e di avanguardia, che elevano il livello civile, e le opere piccole e semplici. Sono valide le une alle altre ma è importante la relazione che si instaura sia con gli assistiti e sia con il territorio. Inoltre, è determinante che vi siano i religiosi a servire. Quando vi è un solo religioso, diventa ed è considerato un “amministratore”.
- Nelle opere piccole o grandi dobbiamo curare la formazione dei collaboratori e dei dipendenti, coinvolgendo tutti e in modo continuato, affinché esse possano mantenere lo spirito e lo stile di opere di carità.
- Ricordiamo sempre il valore civile delle opere di carità. In Costa d'Avorio, in Togo, in Kenya, Mozambico... le nostre opere per i disabili hanno contribuito a cambiare la mentalità sociale nei loro confronti. Questi sono aspetti da valorizzare sempre affinché le opere siano “fari di fede e di civiltà”.
- Dobbiamo organizzare non solo le opere di carità ma anche la ricerca di risorse economiche per le opere della carità. Dobbiamo sviluppare l'atteggiamento umile di chiedere per i poveri, di suscitare solidarietà tra i poveri, di chiedere ai ricchi, di seguire i benefattori piccoli e grandi. Non dobbiamo accettare soldi e benefici da chi li dà con condizioni non oneste dal punto di vista morale e civile (es. denaro con provenienza o finalità inique, lavaggio di denaro non legale, promozione di immagine di persone o enti contrari a i valori cristiani); sarebbero soldi “sporchi”, come ha detto Papa Francesco.
- Interculturalità nella formazione.
- Inculturazione del Vangelo e del carisma nella formazione significa aiutare i giovani, provenienti da diversi popoli e culture, a prendere forma secondo lo spirito e i valori nella libertà e originalità proprie. Certamente è chiesto un esodo culturale dalla propria origine, ma questo non comporta una perdita di identità, ma uno sviluppo e accrescimento. La propria cultura particolare non deve essere considerata come intoccabile e immutabile. La cultura particolare va valorizzata ma non deve prevalere sulla novità evangelica e carismatica. C'è una necessaria e mai risolta tensione tra tradizione e novità cristiana e carismatica.
- Nei Paesi africani, le nostre comunità sono normalmente interculturali, con persone provenienti da diverse etnie e popoli. Soprattutto nella formazione, ma anche successivamente, è necessario conoscere ed esprimere la propria appartenenza e cultura per valutarla, purificarla, rinnovarla, per mettersi in rapporto con persone di altre culture. Ciò avviene in una reciprocità che solo il dialogo, la fede, la vocazione e l'azione equilibratrice del superiore possono favorire.
- Va tenuto chiaramente in conto che ogni cultura è dinamica, cioè in evoluzione, non è fissa. Spesso il ricorso al fissismo della cultura è uno scudo di difesa di sé, per non cambiare, per non fare la fatica di crescere. Occorre avere il coraggio di proporre e di accettare valori ed esperienze anche se sono diversi dalla precedente cultura e tradizione.
- Nelle nostre comunità religiose non è sufficiente formarsi alla multiculturalità, cioè organizzare e rispettare le diversità culturali. Occorre promuovere l'interculturalità che presuppone uno scambio di beni e la condivisione di qualcosa in comune che trascende ed è interiore a tutte le culture: lo spirito di Dio, il Vangelo, l'esperienza di Dio, il carisma. Questo è il nucleo interiore di formazione su cui si fonda la convivenza e la ricchezza interculturale. La capacità di vita fraterna interculturale è una delle prove più sicure della presenza della vocazione, cioè di quel nucleo di esperienza spirituale interiore che fa uscire da sé stessi e mette in comunione con tutti.
- Si concorda sull'importanza di prevedere una tappa di formazione fuori dalla propria nazione, perché è una esperienza che scuote da un atteggiamento di autoconservazione, che aiuta a relativizzarsi e ad entrare in relazione; arricchisce positivamente perché innova e rinnova valori ed esperienze umane religiose e congregazionali. La formazione interculturale non è solo una necessità, ma è un valore in sé perché fa crescere la persona. Si incoraggia la collaborazione nella formazione già in atto tra Paesi africani e anche nel resto della Congregazione, specialmente a Roma.
- Un progetto di informazione, confronto e collaborazione orionina in Africa e Madagascar
Il tema ha suscitato molto interesse. È ritenuto importante per il futuro della congregazione nei Paesi africani e Madagascar. Sono emerse tante idee e tanti suggerimenti. Alla fine si è concordato su un nucleo essenziale di iniziative.
- Per dare continuità all’esperienza di sinodo orionino, si istituisce un coordinamento sinodale, formato dai Provinciali e dai Coordinatori delle singole nazioni di Africa e Madagascar. I suoi compiti sono: 1) favorire un cammino congiunto delle comunità orionine delle diverse nazioni; 2) far riflettere i Segretariati su temi specifici dell’inculturazione orionina in Africa; 3) programmare e organizzare periodicamente un “sinodo” dei Confratelli.
- La riunione di sinodo orionino africano avvenga almeno ogni tre anni. Al sinodo partecipano Superiori Provinciali, Coordinatori nelle singole nazioni e altri Rappresentanti dei Paesi di Africa e Madagascar. La prossima riunione è prevista nel settembre 2015, prima del Capitolo Generale del 2016.
- Si stabiliscono cinque aree di attività in cui attuare incontri di confronto e di collaborazione tra Paesi africani; esse corrispondono ai Segretariati: 1) Formativo-Vocazionale, 2) Opere di carità e di educazione, 3) Pastorale parrocchiale, evangelizzazione ed ecumenismo, 4) Movimento Laicale Orionino e Giovani, 5) Studi orionini. I Segretariati di riferimento sono quelli della Provincia “Notre Dame d’Afrique” e saranno questi ad invitare a qualche incontro “sinodale” rappresentanti delle altre nazioni.
Cari Confratelli presenti in Africa, a conclusione di questo documento, desidero esprimere a tutti voi il mio incoraggiamento e ricordarvi che avete una grande responsabilità per il futuro.
La nostra Congregazione ha 120 anni, ma siete voi, oggi, la speranza di questa Famiglia che vuol essere “qualcosa di nuovo e di bello nella Chiesa”. Essendo voi nei “primi tempi” della Congregazione in Africa, dovete essere come i primi orionini, “un cuor solo ed un’anima sola” tra di voi e con Don Orione, per alimentare e irradiare entusiasmo e generosa dedizione a Dio, alla Chiesa e ai poveri. In una parola, dovete mettervi sulla via della santità e dovete essere fedeli al carisma ricevuto.
Solo così potete essere “orionini” vivi e che fanno rivivere nei vostri Paesi l'epopea orionina degli inizi. E sarete anche fermento e rinnovamento per tutta la Congregazione.
Don Orione dal Cielo vi guarda, vi ispira e vi protegge. Maria, Madre della Divina Provvidenza, stenda il suo manto di materna benevolenza su di voi e su tutta la gente d’Africa e Madagascar cui siete destinati.
Cordialmente vi abbraccio da fratello e padre in Cristo.
Don Flavio Peloso
(superiore generale)