Con sicurezza di riferimenti storici, lo studio traccia le linee di un tema caro e fondamentale del sentire e dellagire di Don Orione. Visione teologica, conoscenza della storia e passione apostolica concorrono a porre Don Orione nel crocevia di una tensione dal cui esito dipende tanto la vitalitā della Chiesa che il progresso dei popoli.
CENTRALISMO ROMANO E UNIVERSALISMO NELLA MISSIONE DEL PAPATO.
La prospettiva di Don Orione: spunti, consonanze e accordi storici.
Il 29 giugno 1937, Don Luigi Orione redigeva una lunga lettera per quelli che chiamava con affetto mai attenuato dalla consuetudine “cari fratelli e figlioli”, gli appartenenti cioè alla “famiglia” del suo Istituto, ormai ingrandita e incamminata verso ulteriori, presto impressionanti, sviluppi. Scriveva su un battello che, solcando le maestose acque del Rio Paranà, via via lo portava dal Chaco argentino fino a Rosario, per poi raggiungere Buenos Aires. Completava così una specie di grand tour apostolico, durante una permanenza di tre anni, punteggiata da tanti viaggi, nell’America Latina. Era passato in faticosa ma anche promettente rassegna alla disseminazione delle opere di carità dei suoi collaboratori, cui si sentiva stretto da legami di fraternità e di paternità sempre più saldi e soffusi di un affetto patetico e insieme robusto. Ma slargati orizzonti andavano ancora una volta dischiudendosi al suo sguardo e alla sua percezione, vibratile di fronte a realtà molteplici, frastagliate, intrise di tragiche sofferenze, stridenti ingiustizie, assurdi soprusi che attanagliavano i poveri e i reietti, i desamparados infelici e abbandonati non solo dalle autorità civili, ma pure da ogni organizzazione filantropica.[1]
La “carità” promossa e attuata da lui e dai suoi seguaci mirava a sanare molte di queste piaghe, e ancor più efficacemente, in futuro, sarebbe venuta incontro a situazioni drammatiche, aggrovigliate e apparentemente insolubili. Inoltre, la visita in America Latina aveva stagliato davanti ai suoi occhi, ancora una volta, il panorama di un mondo che, se conosceva indubbi progressi, restava nondimeno preda di conflitti sociali e politici che allargavano le sacche della miseria, diffondendo emarginazione, dolori, morte.
Le missive di Don Orione e le corrispondenze di coloro che l’avevano avvicinato nello svolgersi della sua vulcanica attività, mostrano nel fondatore l’acuta percezione di salienti svolte storiche, e concretezza e realismo a tutta prima insospettati per il dipanarsi di un’esperienza dai forti accenti religiosi, spesso mistici. Egli guardava l’intreccio della politica e dell’economia mondiali da buon conoscitore di persone ed eventi, privo naturalmente dell’ottica dell’esperto, ma con l’intuizione di chi riesce a cogliere il senso e la direzione dei grandi dinamismi, beninteso, nella fattispecie, dall’angolatura dei pesi che le grandi masse dovevano sopportare, e dalla prospettiva della capacità, per lui connaturale al cristianesimo, a sanare non solo le ferite spirituali, ma pure, e si direbbe in prima battuta, quelle della povertà e della malattia. In definitiva, egli era convinto che il cristianesimo sarebbe riuscito ad attenuare l’emarginazione di individui e di popoli, per una fratellanza dilatata, in un coinvolgimento universale di concordia. Tutto ciò, nella sua convinzione, radicata e tenace fin dai primi anni di apostolato, riceveva il segno e l’animazione più autentica dalla fede in Cristo, così come vissuta nella Chiesa cattolica, resa unanime e operativa attorno al centro, mistico più che disciplinare, del papato.
E appunto la lettera del 29 giugno 1937, festa dei SS. Pietro e Paolo, intesseva il motivo dell’imprescindibile riferimento al successore di Pietro, da mantenere costante, e irraggiante, non solo nel suo Istituto, ma in tutta la cattolicità. Il riflesso globale di simile attitudine sarebbe sfociato in esiti di progresso non fittizio, di giustizia sostanziale, e atta, si direbbe biblicamente, non solo e non tanto a realizzare l’unicuique suum, ma a sollevare le sorti dei più umili. Giova riandare ad alcuni stralci della prosa di Don Orione.
“Dappertutto si prega oggi per il Papa, si esalta il Papa, si guarda con sguardo di dolcissimo amore a Roma e al Papa, “dolce Cristo in terra”. Ecco che io dal fiume Paranà penso ai fratelli e figli che ho lasciati, ieri notte, agli estremi confini dell'Argentina, di fronte al Paraguay: agli altri che sono nel Chaco: a quelli che rivedrò stasera a Rosario: ai nostri che sono nella Pampa a Quenca, a Mar del Plata ed in altri punti di questa Repubblica: agli altri dell'Uruguay, del Brasile: a chi è in Albania, a Rodi, in Inghilterra, in Polonia, e a voi che siete in Italia. Tutti oggi, insieme con me, lontani ma non divisi, dispersi e pur tutti uniti nella comune fede e nello stesso amore di figli amantissimi, oggi ci consoliamo insieme, preghiamo insieme pel Papa, celebriamo Gesù Cristo e Pietro, nel Papa nostro Pio XI”.[2]
Gli accenti risentivano di molte tonalità assunte dalla “devozione al Papa”, consueti nel cattolicesimo tra Otto e Novecento.[3] Eppure vi si avvertiva un’inflessione di notevole originalità, nell’equilibrio sia tra l’aspetto mistico e quello istituzionale della comunità dei credenti, sia fra la prospezione tipicamente religiosa e la visuale delle tessiture socio-economiche mondiali. Inoltre occorre non dimenticare che, per la mentalità europea, correvano gli anni in cui la convergenza delle mentalità e dell’opinione pubblica si appuntavano, all’interno dei regimi totalitari, ma anche al di fuori di questi, verso grandi leaders seppure tra loro diversi, si chiamassero Mussolini, o Hitler, o Stalin, e, presto, su sponde democratiche, Roosevelt e Churchill. E l’“invenzione della tradizione”, perseguita in quel periodo, da parte di molte classi dirigenti, tendeva ad unificare, sotto la bandiera dei nazionalismi, molte energie popolari, sublimando disillusioni ed angosce, ed attivando impulsi espansionistici e ricorrenti pulsioni di aggressività.[4]
Don Orione proponeva un’alternativa, per lui unica, ed esclusivamente decisiva, identificandola, quasi ipostatizzandola, nella figura del Pontefice romano, reale, come il riferimento a Papa Ratti nitidamente rivelava, e insieme simbolica quale l’eco di antiche e costanti tradizioni legate al papato vividamente richiamava. Don Orione si rifaceva infatti, e significativamente, a un passaggio dell’epistolario paolino, non dimenticando cioè sia il fascino dell’“apostolo delle genti” accanto alla stabilità della cattedra petrina, sia le dimensioni spirituali dell’intera compagine dei credenti.
“L'Apostolo Paolo - e mi è gioia e dovere citare S. Paolo, dacché mai la Chiesa disgiunge i due Apostoli - scriveva ai Romani che dava grazie a Dio perché, diceva loro, “ la Fede vostra - la Fede romana - vien celebrata in tutto il mondo ”. Ancor noi, o miei figli, dobbiamo render grazie al nostro Dio per Gesù Cristo, poiché oggi il nome del Papa risuona benedetto ed è celebrato per tutto il mondo”.[5]
E, di rincalzo:
“Come la Fede e l'amore al Papa ci fanno sentire, particolarmente in questa festa, che la Chiesa Cattolica e Romana è veramente il Corpo mistico di Cristo, e che tutto prende unificazione e incremento, vigore e amore, da Cristo e dal Beatissimo Padre nostro, il Papa!”[6]
Le venature ecclesiologiche del discorso, lungi dal costituire un ripiegamento preclusivo di agganci e contatti, postulavano una straordinaria apertura alla costellazione storica più vasta, e l’adeguamento al cammino del mondo, o dei mondi, che il prete tortonese incontrava nella mappa dei suoi itinerari in continenti diversi.
“Dal labbro del Papa il popolo ascolterà non le parole che eccitano all'odio di classe, alla distruzione e allo sterminio, ma le parole di vita eterna, parole di verità, di giustizia, di carità: parole di pace, di bontà e di concordia, che invitano ad amarci gli uni e gli altri e a darci la mano, per camminare insieme verso un migliore più cristiano e più civile avvenire. Il Papa è il Padre del ricco, come del povero, per Lui non esistono nobili o plebei, ma solo dei figli: dal Papa la fede, la luce, la mansuetudine del Signore, che porta balsamo ai cuori, conforto e consolazione ai popoli. “Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam”.
Passarono i secoli, e queste parole di Gesù risuonano attraverso i tempi e su tutte le tempeste del mondo; queste, furiose e terribili contro il Papato e la Chiesa, anziché subissare e Chiesa e Papato, ne fecero la più grande potenza spirituale e morale del mondo, e mostrano, ogni dì più, che Chiesa e Papato sono l'opera di Dio, sono la forza di Dio. (…)
Nel Papa noi riconosciamo, non solo il Vicario di Cristo, non solo il Capo infallibile della Chiesa, ispirato e condotto dallo Spirito Santo, non solo il fondamento di nostra Religione, ma ben anco la pietra inconcussa della società umana”. [7]
Asserzioni analoghe, a volte di un’esplicitezza ancor maggiore, sono disseminate negli scritti di Don Orione, a conferma di una linea ininterrotta di pensieri e di propositi, continuamente ribadita e arricchita da multiformi apporti e contatti e, soprattutto, da riflessioni e approfondimenti personali.[8]
Sarebbe proficuo ripercorrerne i segmenti, analizzandone le fasi compositive, in contrappunto con i fatti e le svolte del “secolo breve”. Basti, per i limiti della presente nota, accennare ad alcuni tratti significativi. Il primo si colloca al tramonto sanguinoso di quella che venne chiamata, forse per antifrasi, belle époque europea, il cui dissolversi romanzieri come Musil e Kafka, ad esempio, seppero rendere in pagine disarmate e spietate. La deflagrazione mondiale rappresenta l’esplodere sconvolgente di una tensione terribile, destinata a produrre una immane catastrofe. Ebbene, nel 1915, mentre la guerra si allargava, trascinando anche l’Italia in un vortice sconvolgente e imprevedibile, Don Orione raccomandava ai collaboratori, nonostante gli entusiasmi patriottici, “di non lasciarsi trasportare troppo dagli avvenimenti politici”. Accennando all’incombere della guerra – riferisce così il verbale della riunione del 15 agosto 1915 – alcune previsioni su ciò del S. Padre Pio X manifestate a lui fin dal 1911, e poi prosegue:
“Qualunque siano le tendenze, qualunque siano gli eventi, non lasciarsi girar la testa; tutti abbiamo il sentimento nazionale, ma la prima patria nostra è la Chiesa di Gesù Cristo; la prima autorità è l’Autorità della Chiesa di Gesù Cristo.
Andare adagio nel leggere e nel bere a certi giornali, paiono gente seria, ma sono più quattrinai che cattolici.
Ciò che il vero figlio della Divina Provvidenza deve fare è pregare per il trionfo della giustizia senza guardare il trionfo di questa o di quella nazione. Pregare per l’Italia, per la pace, per il trionfo della giustizia.
Da questa guerra qualunque cosa ne esca non dobbiamo esser paghi se non col trionfo della giustizia”.[9]
Il chiaro superamento del nazionalismo era operato con recisa decisione, tanto più rimarchevole quanto più pervasivo si instaurava un clima di sentimenti e di opinioni del tutto opposte.
Al termine del conflitto, quando non s’erano ancora del tutto sopite le polemiche per gli interventi del Papa sull’ “inutile strage”, il Fondatore della Piccola Opera additava, nella polarizzazione attorno alla forza morale della Chiesa e del Papato, un ancoraggio sicuro per l’approdo alla pace.
“Mai come ai tempi nostri il popolo fu così staccato dalla Chiesa e dal Papa, ed ecco quanto è provvidenziale che questo amore sia risvegliato con tutti i mezzi possibili perché ritorni a vivere nelle anime l'amore di Gesù Cristo.
L'uomo è quale è l'idea che pensa ed in se stesso matura, e le sue azioni sono sempre conformi all'idea stessa da cui è guidato. E perciò quanto maggiormente sarà sentito l'amore al Papa e alla Chiesa in coloro che per ragioni di ministero sono maestri dei popoli, di altrettanto sarà più ardente la fiamma che li agita nel comunicare alle anime questo sentimento, senza del quale nessuna partecipazione di vita soprannaturale può venire; in tal modo l'esercizio della carità raggiungerà perfettamente il suo scopo corrispondente ai bisogni dei tempi nostri, che è precisamente questo di ricondurre la Società a Dio riunendola al Papa e alla Chiesa.
E non si direbbe che nei disegni di Dio questa riunione trova una prossima preparazione nello stesso fenomeno sociale dei nostri giorni che tende all'universale affratellamento? Noi vediamo sorgere da per tutto opere di beneficenza ed istituzioni di soccorsi di ogni genere nonostante l'odio di classe che sembra voler sconvolgere ogni ordinamento politico, sociale e famigliare; ma tuttavia si sente più forte che mai il bisogno che ogni odio si spenga e l'amore ritorni a rasserenare i cuori. Ebbene, quando il Papa sarà riconosciuto con sentimento di fede quale padre universale dei popoli, e la Chiesa sarà nuovamente la maestra illuminatrice delle menti colla sua dottrina infallibile e ritornerà a far ripulsare nei cuori la vita soprannaturale che da Lei emana, la pace serena e sicura regnerà negli individui e nella società.
Quella carità pertanto che viene esercitata nella società nostra prendendo le mosse dell'amore del Papa e della Chiesa, e mirando al raggiungimento di questo amore in tutti, è precisamente quella che meglio risponde al bisogno dei tempi. E tale è lo spirito da cui è informata l'Opera della Divina Provvidenza, tale è la sua fisionomia, il suo carattere tipico: Instaurare omnia in Christo!”.[10]
Risultavano abbastanza trasparenti le allusioni al sorgere della Società delle Nazioni, fondata, com’è risaputo, durante la conferenza di pace di Versailles, ed entrata in vigore nei primi giorni del 1920, insieme alla ratifica del trattato di pace con la Germania. È altrettanto noto come il progetto di associare la Santa Sede al nuovo organismo urtasse contro l’intransigente interpretazione da parte italiana dell’art. 15 del trattato di Londra, che nell’aprile 1915 aveva sancito l’impegno dell’Intesa ad escludere la Santa Sede da “toutes les négotiations pour la paix et pour le reglement des questions soulevées par la présente guerre”.[11] In definitiva il disegno si infranse davanti all’irremovibile rifiuto opposto dal re d’Italia Vittorio Emanuele III ai tentativi per risolvere l’annoso problema dello statuto che avrebbe regolato la presenza della Santa Sede nel territorio italiano.[12]
Sul versante cattolico, anche vaticano, si erano levate obiezioni alla forma e agli indirizzi dell’esordiente Società, quantunque non mancassero anche favorevoli apprezzamenti in campo ecclesiale, e persino dalle colonne de L’Osservatore Romano, verso un tentativo che, se opportunamente corretto, appunto secondo i principi della Chiesa, poteva sortire esiti positivi per la stessa traduzione degli ideali cristiani. [13]
Benedetto XV, nell'enciclica del 23 maggio 1920 Pacem Dei Munus, auspicava che tutti gli Stati, «rimossi i vicendevoli sospetti, si riunissero in una sola società o meglio famiglia di popoli, sia per garantire la propria indipendenza, sia per tutelare l'ordine del civile consorzio». In concreto, continuava, «una volta che questa Lega fra le nazioni sia fondata sulla legge cristiana, per tutto ciò che riguarda la giustizia e la carità, non sarà certo la Chiesa che rifiuterà il suo valido contributo perché, essendo essa il tipo più perfetto di società universale per la sua stessa essenza e finalità, è di una meravigliosa efficacia ad affratellare tra loro gli uomini, non solo in ordine alla loro eterna salvezza, ma anche al loro benessere materiale».[14]
È suggestivo accostare, a questi concetti, la prosa di un giovane sacerdote bresciano, Giovanni Battista Montini che, scrivendo su un foglio della sua città, aveva sostenuto qualche mese prima che il fulcro dell’unione di tutto il genere umano doveva ravvisarsi nella Chiesa romana. Presentava infatti sia la figura di Benedetto XV sia l’immagine della cattolicità staccandole dallo sfondo del nuovo organismo mondiale, di cui, a suo avviso inveravano, senza ombre né equivoci, l’aspirazione universalistica: “Benedetto XV – scriveva – è il Papa, cioè il ‘padre della terra’, come la Chiesa è la sola Società delle Nazioni che non faccia fallimento prima ancora di incominciare a vivere, e che possa unire gli uomini in ‘un cuor solo e un’anima sola’“.[15] Evidentemente, una tale sicura affermazione apparirebbe umanamente pretenziosa se non fosse radicata nella fede cristologica: “Cristo solo potrà formare di tutti i popoli un cuor solo e un'anima sola, unirli tutti in un solo Ovile sotto la guida di un solo Pastore”.[16]
Similmente si esprimeva,nel 1922, anche Pio XI: “La Chiesa di Dio, per ammirabile provvidenza, fu costituita in modo da riuscire nella pienezza dei tempi come un’immensa famiglia. Essa è destinata ad abbracciare l’universalità del genere umano e perciò, come sappiamo, fu resa divinamente manifesta per mezzo dell’unità ecumenica che è una delle sue note caratteristiche. Cristo Signor nostro, non si appagò di affidare ai soli apostoli la missione che egli aveva ricevuto dal Padre, quando disse: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt 28, 18-19).[17]
La consonanza, singolare ma non fortuita, con il dipanarsi della meditazione orionina, sembra rilevante sui percorsi del maturare delle scelte ecclesiali nel XX secolo. E ancora, nel crocevia che tale secolo conoscerà durante la depressione degli anni ’30, don Orione non esiterà a vergare una pagina in cui il realismo sembrava travolto e trasfigurato da speranze ricche di motivi escatologici, spesso ricorrenti nella storia del cristianesimo. In una lettera al canonico Perduca del 16 dicembre 1931 richiamerà, e non casualmente, la lezione di Bossuet, rinnovando aspirazioni lontane con inusitato vigore.
“Et erunt coeli novi et terra nova! E la Croce brillerà nel cielo delle intelligenze, e darà luce e splendori nuovi di vita e di gloria ai popoli: splenderà di luce soavissima indefettibile, come Costantino la vide brillare nel cielo delle battaglie.
E la vita, pur restando una universale milizia di virtù, di bontà, di perfezionamento continuo, la vita diventerà un'agape fraterna in cui ciascuno offra, invece di prendere.
E ciascuno avrà un cuore vivo di Dio, si sentirà e sarà operaio di Dio: sarà felice di dare la vita alla giustizia, alla verità, alla carità, a Gesù Cristo, che è Via, Verità, Vita, Carità, e vi sarà un solo Ovile sotto la guida di un Solo Pastore: Cristo Signore e Redentore Nostro, il Quale, nel Suo Vicario, nel Papa, «il dolce Cristo in terra», regnerà con tanta gloria da vincere ogni pensiero umano e ogni speranza dei buoni, e tutta la terra vedrà che di realmente grande non c'è che il Nostro Signore Gesù Cristo. E il Papa sarà non solo il «Padre del popolo cristiano», come ha detto S. Agostino (Ep. 50), ma sarà il Padre del mondo intero fatto cristiano, e su di Lui peserà e si aggirerà tutto il mondo, che solo da Lui, «Vice di Dio in terra», come usava chiamarlo San Benedetto Giuseppe Labre, avrà vita, salvezza e gloria!
Certo sembrano ora a noi cose impossibili queste e pazzie e non sarà certo l'uomo che farà, che potrà fare questo, ma la mano di Dio. Sarà la misericordia infinita di Gesù, che è venuto per noi peccatori: sarà la divina e infinita carità di Gesù Crocifisso, che vuole la sua redenzione sia copiosa: che gli uomini vitam habeant et abundantius habeant!
E quella sarà l'ora di Dio, sarà la grande giornata di Gesù Cristo, Signore, Salvatore e Dio nostro! E Gesù vincerà il mondo così: nella carità, nella misericordia.
Diamo morte sempre all'egoismo, e cresciamo nell'amore di Dio e dei fratelli: cresca tanto Dio in noi che viva Lui e non più noi, e riempiamo la terra di un esercito nuovo: un esercito di vittime che vincano la forza: un esercito di seminatori di Dio, che seminano la loro stessa vita, per seminare e arare, nel cuore dei fratelli e del popolo, Gesù, il Signore; formiamo un esercito grande, invincibile: l'esercito della carità, guidato da Cristo, dalla Madonna, dal Papa, dai Vescovi!
L'esercito della carità riporterà nelle masse umane disseccate una tale forte e soavissima vita e luce di Dio che tutto il mondo ne sarà ristorato, e ogni cosa sarà restaurata in Cristo, come disse già San Paolo.
E la tempesta, che ora fa tanta paura, sarà dissipata e il caos presente sarà vinto, perché lo spirito della carità vince tutto, e, al di sopra delle nubi ammassate dalle mani di uomini, comparirà la mano di Dio, e Cristo riprenderà tutto il suo splendore e il suo dolce impero. (...)”.[18]
Sebbene l’opacità della storia sembrasse suggerire altre, e amarissime, previsioni, la fede cristiana e “cattolica” di Don Orione intravedeva un’evoluzione positiva, saldandola al centro del mondo cattolico.
Siffatta tensione non si affievolirà alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale. Nel luglio 1939, parlando ai suoi chierici e sacerdoti, il Fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza illustrerà quale campitura cromatica, a suo giudizio, dovessero mantenere l’amor di patria e le visuali latamente politiche della Congregazione e, indirettamente ma non meno sostanzialmente, dei cattolici. Le ricorrenti, e ossessive, proclamazioni nazionalistiche di quei giorni, e una sequela retorica iniziata parecchi anni prima e continuamente intensificata, non avevano scalfito le persuasioni profonde, caratterizzanti e imprescindibili, del pensiero orionino.
“È sempre bello e gradito cantare le lodi della propria terra, della bella nostra Italia che tenne per tanti secoli il primato nelle arti e nelle lettere, il primato soprattutto nel diritto, la nostra patria tanto bella, il paese del sole!
Però quando voi, cari miei chierici, nelle vostre accademie, nelle feste che si faranno nelle nostre Case, nelle accademie dei nostri Collegi, se vi accadrà di dover parlare - e dovrete parlare perché il sangue non è acqua e l'amor di patria è uno dei più sacri amori degli uomini -, quando vi accadrà di dover parlare delle grandezze, delle glorie della nostra cara patria, fate sempre emergere che la più grande gloria e grandezza della nostra Italia è quella di essere il centro della Fede, che ha sparso la civiltà, la vera civiltà, nel mondo. Sempre si deve mettere, prima di tutto, in grande rilievo perché la maggior gloria è quella di essere al centro del Cristianesimo e di accogliere la sede della Cattedra del Vicario di Cristo....
Solamente per questo si può ancora oggi chiamare l'Italia nostra caput mundi! A ragione anche oggi si può chiamare caput mundi perché in Italia sta la Sede di Pietro, il centro della fede cattolica! Quindi senza togliere niente alla grandezza dell'Italia nostra, alle sue bellezze, alle sue grandi glorie, alla sua potenza, ricordiamo che la più grande e prima potenza è la potenza morale che vale più di ogni altra potenza. E la più grande potenza morale è la Chiesa! E la più grande bellezza è la bellezza dello spirito! (…)
Vedete questi capelli bianchi? In tanti anni vidi tanti cambiamenti, di cose e di uomini, anche tra i membri dell'elemento ecclesiastico, e capii, profondamente capii, ciò che mai avevo sentito o capito quando ero dentro al vortice della ribellione politica, sia pure lavorando nell'azione cattolica; capii che questo non è il mezzo migliore per attirare le anime!
Come ameremo la patria? Nessuno più di noi amerà la patria perché più grande amore di patria non c'è che abbracciando i poveri, ricoverando i poveri, mantenendo i poveri, evangelizzando i poveri, i piccoli! La patria si ama compiendo opere di carità, di misericordia, tali che basterebbero a divinizzare il Cristianesimo! Leggete Silvio Pellico! Egli dice veramente quale è il vero amor di patria. E si trova nei doveri degli uomini”.[19]
I toni, a tratti vagamente giobertiani, non coprivano, anzi irrobustivano, il composito leit-motiv della centralità della Chiesa e del Papato per l’ispirazione di un ordine mondiale pacifico e giusto, innervato dalla vena caritativa che il richiamo cristologico continuamente doveva alimentare nei fedeli.
Non sembra anche qui incongruo avvicinare, a queste espressioni orionine, quanto a pochi anni di distanza dirà Giovanni Battista Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato vaticana, in un discorso che non dovette restare senza eco se l’ambasciata italiana presso la Santa Sede ne riferì il contenuto in una informativa diplomatica sufficientemente ampia.[20] Neppure un mese prima, il ritiro delle truppe tedesche dalla capitale sembrava aver inaugurato la fine di atroci incubi, benché le dure condizioni della vita quotidiana e l’accavallarsi di allarmanti notizie non avessero ancora allentato la morsa degli stenti e delle oscure inquietudini.[21] Sull’orizzonte dell’opinione pubblica, solcato da speranze e da timori, prendevano via via risalto le figure del Pontefice e della Chiesa, in un crescendo di popolarità che per lo storico Federico Chabod sembrò riprodurre, “in modo non molto diverso”, immagini risalenti al quinto secolo, quando, nella distretta delle invasioni germaniche, i Papi si presentarono «come i difensori della popolazione abbandonata dall'autorità imperiale».
Proprio della missione dei pontefici parlò Montini, un ecclesiastico che, secondo il menzionato rapporto, doveva riguardarsi come «vicinissimo al S. Padre», di cui «rispecchiava costantemente il pensiero». Nell'allocuzione rivolta alla Guardia Palatina, il corpo militare vaticano sorto ai tempi di Pio IX durante la crisi risorgimentale,[22] egli evocò l’immane tragedia bellica e i drammi vissuti anche a Roma, in quegli angosciosi frangenti. Appariva tuttavia sintomatico, per il prelato, che proprio nella capitale non si fosse affievolita la forza attrattiva del tempio di San Pietro, meta di frequenti visite da parte dei soldati dei contrapposti eserciti, tedesco prima, alleato poi. Ciò, a suo dire, rendeva evidenti sia la durevole centralità sia la costante proiezione del papato nel mondo, a conferma di una fondamentale autorevolezza, le cui radici affondavano nei primordi del cristianesimo.
“Ricordate la parola di Gesù che disse a Pietro: Io sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa. Gesù ha concepito san Pietro come un architetto sopra la cui costruzione si sarebbe accentrato un immenso sviluppo, un edificio umano che supererà i secoli e abbraccerà tutta la terra. Spazio e tempo non hanno confini. E le parole di Gesù si sono realizzate. L'impero romano crolla e la Chiesa si edifica e crea l’Europa e la sua civiltà, sia pure attraverso crisi come quelle medievale e protestante. E adesso, in mezzo a questa crisi moderna in cui si ode lo schianto di imperi secolari, in una guerra che vuole arrivare fino all'esaurimento e alle rovine di forse tutte e due le parti, la Chiesa è là solida e potente. Costruttori moderni avevano cercato di fondare la vita umana sulla materia, si sono messi a costruire e non dico che non abbiano fatto grandi e belle cose perché l'uomo è sempre figlio di Dio, ma la costruzione divenne ad un certo momento debole proprio per la sua forza: l'umanesimo muore di umanesimo, il naturalismo muore di naturalismo e muoiono perché non hanno costruito sul soprannaturale”.
Nelle parole del sacerdote bresciano trapelavano motivi apologetici che, frequentemente intonati fra i cattolici, traevano spunto da una caratteristica interpretazione delle vicende della compagine sociale in età moderna e contemporanea, che tendeva a sottolineare come errori e deviazioni e dissesti nella vita civile derivassero dal reiterato progressivo scostarsi degli uomini dagli insegnamenti del magistero ecclesiastico. Tuttavia, con alcuni sensibili scarti da simile topos, ancorché non conclamati secondo uno stile personale ormai maturo, Giovanni Battista Montini sapeva scorgere la positività di tante intraprese avulse dall'esplicito riferimento al cattolicesimo: l'inciso sulle «grandi e belle cose» tradiva i suoi convincimenti circa l'innegabile valore da attribuire, almeno in prima battuta, a un umanesimo che aveva mostrato grandi potenzialità nell'edificare la vita di singoli e di popoli.
Su questa scia, l’operosità intelligente e tenace di Luigi Orione mostrava un’acuta percezione sia del possibile impegno di ogni persona animata da buona volontà a compiere il bene, sia dell’influsso altamente positivo che la cattolicità, concorde sotto la guida del magistero pontificio, poteva esercitare tra le maglie della vita associata, e nelle giunture più deboli, e, su ampio schermo, nella proiezione mondiale. Siffatta convergenza nel riconoscere il ruolo del papato come centro unitario, propulsore di energie a vasto raggio, postula di venir inserita entro una sequenza storica di lungo periodo.
Effettivamente, un cospicuo retaggio di ideali veniva “aggiornato” ai tempi nuovi: ma il radicamento che ne sostanziava le più genuine valenze, penetrava strati molto antichi della tradizione, per emergere e svilupparsi nel corso dei secoli, assumendo diverse morfologie.
Com’è noto, fin dai primordi dell’era cristiana, l’ascesa del pontificato, e di Roma, sul sempre più esteso teatro della catholica, con arsi e tesi di ampiezza disuguale, coagulò e veicolò forze spirituali e spinte politiche, quasi a surrogare, potenziandole in talune componenti, l’idea e le morfologie dell’Impero romano.[23]
Il timbro rimaneva religioso, ma le risonanze e le implicazioni raggiungevano in modalità effettive i meccanismi della vita civile. La rilevanza del papato restò indubbia dall’una all’altra costellazione storica, manifestandosi nei pronunciamenti dogmatici e disciplinari; nelle proposte etiche ed ascetiche; nella stessa progressione, specchio fedele di un complesso sviluppo, conosciute dai titoli di cui si fregiavano i vescovi di Roma, da quello di vicarius Petri, all’altro, già insinuatosi in era gelasiana, di vicarius Christi[24]; e infine e soprattutto nella forza unificante impressa all’Europa da Gregorio Magno.[25]
Dopo l’anno mille inarcarono una linea qualificante, e in parte nuova, i perentori asserti del Dictatus Papae di Gregorio VII, secondo cui solo il pontefice romano meritava d’esser chiamato universale; se ordinato secondo la forma canonica doveva venir ritenuto «santo»; «unico al mondo» era il suo nome; e la sua decisione poteva valere a deporre gli imperatori. La martellante sequela di queste ed altre proposizioni tentava di sbalzare una figura che riassumesse e ricapitolasse, proprio secondo l’etimo dei verbi, il ricco patrimonio e le energie espansive e conquistatrici della Chiesa verso il mondo, rispetto a cui essa era chiamata a ricoprire funzioni di guida e di comando. Dal grandioso affresco emergeva anche il ruolo politico svolto in precedenza dal papato, preludio ad analoghe funzioni nei secoli successivi. Ma non vi mancava, né mancherà in seguito, l’austero richiamo al senso di responsabilità che i pontefici avrebbero dovuto tener desto per la salvaguardia di credenze, sentimenti, riti, consuetudini comuni, di fronte al pericolo potenzialmente dispersivo delle autonomie e delle differenziazioni.[26]
Durante il secondo millennio le tesi gregoriane avrebbero rinsaldato, quantunque su un percorso non rettilineo e con pause di oscuramento dell’autorità pontificia, i perni su cui si mosse la Chiesa occidentale. Un corredo di simboli cerimoniali, iconografici, lessicali, molti dei quali esibiti per secoli, rivelò e nello stesso tempo coadiuvò l’affermazione del papato nella christianitas.[27]
La crisi del secolo XVI non fece che ribadire, pur negli apprezzamenti opposti di parte «cattolica» e «riformata», una concezione, o un’immagine proiettiva, del papato e di Roma quali istituzioni cardine, dagli uni esaltate, dagli altri spietatamente ricusate. Di fatto, il rilievo della sede romana non sarebbe stato eroso nella sostanza, quantunque sottoposto alle contestazioni e limitazioni giurisdizionali e alle ricorrenti traversie politiche, che attinsero un diapason drammatico con la rivoluzione francese e il dominio napoleonico. Ma proprio queste ultime vicissitudini, quando l’autorità del pontefice sembrava vacillare di fronte alla potenza bellica e politica, come plasticamente apparve nella «prigionia» subita da Pio VII, rinvigorirono nei fedeli un’attitudine nei riguardi del vescovo di Roma venata dalla «pietà», riboccante di preghiere, riti, ossequi, omaggi, comportamenti d’affezione, percorsa da umano compianto e insieme dall’inclinazione a librare il «vicario di Cristo» su indefinite altezze di trascendenza.
La perdita degli Stati della Chiesa, svincolando il papato dalle competenze, quantunque ormai marginali, amministrativo-politiche, rese più distinguibile il profilo universalistico della missione del vescovo di Roma. Né le aspre polemiche, le tentate e discusse soluzioni giuridiche e le ricorrenti proteste della santa Sede, agglutinate attorno al contenzioso della «questione romana», frenarono i dinamismi, centripeti e centrifughi, che dislocavano il papato su un raggio di influssi e di riferimenti, di azioni e reazioni, a raggiungere gran parte del mondo. Dal 1929 gli effetti dei Patti lateranensi[28] permisero di sottolineare, pur con talune irrisolte aporie, non solo l’indole atipica dello Stato della Città del Vaticano, ma soprattutto la preminenza spirituale, e senza confini, del vescovo di Roma, esplicate in modo vistoso nelle aperture missionarie di Propaganda fide; nella formulazione da parte pontificia di risposte, talvolta preclusive talaltra più duttili, comunque immediatamente comunicabili, alle istanze del mondo contemporaneo; soprattutto, come annota un’efficace sintesi, nel moltiplicarsi dei rapporti della Santa Sede «with secular governments» e delle collaborazioni da questa offerte «devotedly for social justice and peace».[29]
Sicché, come scrive Émile Poulat, il Vaticano, pur da una ristretta zona della capitale italiana, è diventato progressivamente, in «double sens, un État témoin: il est le témoin d’un long passé historique, dont le présent n’est plus qu’un modeste souvenir, comme on le dit en géologie d’une butte ou en biologie d’un organe; il est aussi témoin, parmi les puissances de ce monde et au sein de la société des États, de cette idée que tout ne se réduit pas à la politique, à l’économie, ni même à la culture».[30] Così la Roma papale rivendica di fronte al mondo dati e compiti inconfondibili e per certo riguardo esclusivi.
È interessante ricordare come siffatte caratteristiche trovino un’eco sonora sempre in Giovanni Battista Montini diventato Paolo VI: «Roma è l’unità, e non solo della gente italiana, ma erede dell’ideale tipico della civiltà in quanto tale e come centro tuttora della Chiesa cattolica, cioè universale. Roma parla al mondo di fratellanza, di concordia e di pace».[31]
Anche per questi accenti non è difficile riscontrare consonanze e risonanze in Don Orione. Nel 1921, durante una fase per molti versi sintomatica per gli indirizzi politico-economici europei e mondiali, il fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza, inaugurando il collegio “Berna” di Mestre-Venezia, tracciò un parallelismo, se si vuole audace, tra l’anelito alla libertà suscitato da un antico personaggio come Spartaco e l’incisiva opera di autentica liberazione promossa da S. Paolo e dal cristianesimo. Quest’ultima, a suo dire, si polarizzava su Roma, dove l’apostolo delle genti aveva raggiunto Pietro, la “roccia” della Chiesa, che avrebbe garantito, attraverso i successori, saldezza nella fede e operosità caritativa per l’intero popolo dei fedeli:
«Alla Roma dei Cesari sottentrò un’altra Roma…: a quell’unità del mondo conseguita con la forza, succederà quella delle intelligenze sotto l’ubbidienza di Cristo. Una grandezza tutta morale opposta al terrore delle armi regnerà e sarà il carattere dei nuovi popoli, e un nuovo ordine di cose e di idee colla forza della verità e dell’amore uscirà alla redenzione dei popoli. La violenza ha perduto il mondo, ma la carità lo salverà».[32]
Ancora una volta, si individuava nella sede di Pietro, secondo il detto di Ignazio di Antiochia, “la presidenza della carità”. Sull’abbrivio di simili convincimenti veniva spontaneo, a Don Orione, approdare ad esaltazioni sconfinanti nel lirismo. Sfrondate dalla retorica, esse riconducevano a movenze di pensiero che, dalla cristologia, giungevano all’ecclesiologia, senza soluzione di continuità. In una sua prosa poetica vergata nel 1935, egli riprendeva un verso di Giacomo Zanella inneggiante al progresso umano quale dispiegamento del disegno provvidente di Dio. Ma il fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza esplicitava in modo assai chiaro il riferimento al Signore, e insieme il ruolo della Chiesa, con la sua prerogativa di “romanità” nel disegno di salvezza per tutto il genere umano:
T’avanza, t’avanza, o divino Risorto!
La barca di questo povero mondo
Fa acqua da tutte le parti.
Senza di Te va a fondo:
vieni, o Signore, vieni!
Risuscita in tutti i cuori, in tutte le famiglie:
su tutte le plaghe della terra,
o Cristo Gesù, risorgi e risorgi!
Senti il grido angoscioso
Delle turbe che anelano a Te:
vedi i popoli che vengono a Te, o Signore. […]
Stendi, o chiesa del Dio vivente,
le tue grandi braccia,
e avvolgi nella tua luce salvatrice le genti.
O Chiesa veramente cattolica,
Santa Madre Chiesa di Roma,
unica vera Chiesa di Cristo,
nata non a dividere, ma ad unificare in Cristo
e a dar pace agli uomini![33]
* Annibale Zambarbieri è professore di storia del cristianesimo e direttore del Dipartimento storico geografico dell’Università di Pavia..
[1] Per la ricostruzione di questo viaggio, si veda G. Papasogli, Vita di Don Orione, IV ed., Gribaudi Torino, 1994, pp. 446-461. Cfr. anche J.M. Castiñeira de Dios, Don Orione in Argentina, in Don Orione, un uomo dal popolo per il popolo, Maxmi 1989, pp.125-138; F. Peloso, Don Orione, Jacques Maritain e la Chiesa argentina negli anni ’30, «Messaggi di Don Orione» 32(2000), n.101, pp. 31-40 e «Criterio» 73(2000), n.2256, pp. 629-631.
[2] Lettere di Don Orione, vol. I-II, Piccola Opera della Divina Provvidenza, Roma 1969; II, 487.
[3] Mi permetto di rinviare al mio saggio La devozione al papa, in La Chiesa e la società industriale (1878-1922) a cura di E. Guerriero e A. Zambarbieri, parte seconda [vol. XXII, 2 della Storia della Chiesa - Fliche – Martin], Milano 1990, pp.9-81.
[4] Cfr. E. J. Hosbawn – T. Ranger, L’invenzione della tradizione, Torino 1987.
[5] Lettere, cit., II, p.486.
[6] Lettere, cit., II, p. 486.
[7] Lettere, cit., II, pp.490-491.
[8] La lettura imprescindibile è quella degli scritti di Don Orione; cfr. Lettere di Don Orione, vol. I-II, cit.; In cammino con Don Orione. Dalle lettere, Piccola Opera della Divina Provvidenza, Roma 1972; A Gemma (a cura di), La scelta dei poveri più poveri. Scritti spirituali, Città Nuova, Roma 1979; Nel nome della Divina Provvidenza, Piemme, Casale Monferrato 1994. Tra gli studi: Cfr. AA.VV., Sui passi di Don Orione, Dehoniane, Bologna 1996; D. Barsotti, Don Orione. Maestro di vita spirituale, Ed. Piemme, Casale M., 1999; G. De Luca, Elogio di Don Orione, con altri scritti e commenti su di lui, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1999; G. Venturelli, "La c'è la Provvidenza!", Conferenza di don Orione all'Università Cattolica di Milano, 22 gennaio 1939, «Messaggi di Don Orione» (5)1973, n.18, pp. 1-32; I. Terzi, La Chiesa dovrà trattare con i popoli, «Messaggi di Don Orione» 6(1974), n.20, pp. 1-30; e alcuni contributi di studi pubblicati in Don Orione nel centenario della nascita: 1872-1972, Roma, 1975: I Terzi, Il momento storico in cui operò, pp. 29-36; A. Del Monte, La scelta sociale di Don Orione, pp. 92-100, e Anticipatore del Concilio, pp. 101-112; I. Terzi, Il messaggio di Don Orione nella sua genesi storica, pp. 147-155.
[9] Verbali delle riunioni, Archivio generale Don Orione (ADO), Roma, 45.
[10] Nel nome, cit., pp. 37-38.
[11] R. Mosca, La mancata revisione dell’art. 15 del Patto di Londra, in Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale, a cura di G. Rossini, Roma, 1963, pp. 411-413.
[12] Chiarificatori, in questo senso, i documenti addotti da F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla grande guerra alla Conciliazione, Bari, 1966, pp. 366-367, 537-538.
[13] Informazioni da parte di un attento testimone sono attingibili dall'articolo di E. Vercesì. I cattolici e la Società delle Nazioni, in «Vita e pensiero», 11 (1925), 409-415. Ma si vedano le equilibrate osservazioni di Salvatorelli, La politica della Santa Sede dopo la guerra, Milano 1937, pp. 32-36.
[14] AAS, 12 (1920), pp. 209-218.
[15] Per il 29 giugno: Petro salutem, in «La Fionda», II/9 (21 giugno 1919), 3; ora in G.B. Montini, Scritti giovanili, a cura di C. Trebeschi, Brescia 1979, p. 125.
[16] Lettere, cit., II, p. 500.
[17] Enciclica Ecclesiam Dei, AAS, 15 (1923), p. 573.
[18] Nel nome, cit., pp. 51-53.
[19] Parola di Don Orione, 4 luglio 1939, XI, pp. 6-7.
[20] Si tratta di due fogli dattiloscritti, il primo dei quali reca l’intestazione R. Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede e riporta una missiva dell’incaricato d’affari presso la Santa Sede, datata 1° luglio 1944; nell’altro, un’intera facciata e cinque righe nel retro riportano il Discorso di Mons. Montini pronunciato a S. Pietro il 29 giugno (Archivio Storico Ministero degli Interni, Roma, Affari politici 1931-1945, S. Sede, cart. 72, fasc. 4).
[21] Per un quadro delle condizioni di Roma in quella fase della guerra, si vedano i Notiziari della Guardia Nazionale Repubblicana, riportati nel volume Riservato a Mussolini. Notiziari giornalieri della Guardia Nazionale Repubblicana, novembre 1943 – giugno 1944. Documenti dell’Archivio Luigi Micheletti, Milano 1974, 25.39.
[22] Per la celebrazione cui partecipò Montini, si veda l’articolo L’annuale festa della Guardia Palatina, in «L’Osservatore Romano», 30 giugno – 1 luglio 1944.
[23] Ch. Pietri, La conversion de Rome et la primauté du pape (IV-VI siècles), in Id., Christiana Respublica. Éléments d’une enquête sur le christianisme antique, vol. I, Roma 1977, pp. 23-47.
[24] M. Maccarrone, Vicarius Christi. Storia del titolo papale, Roma 1952, pp. 41-56; Id., Sedes apostolica – Vicarius Petri. La perpetuità del primato di Pietro nella sede e nel vescovo di Roma (III-VIII secolo), in Il primato di Roma nel primo millennio. Ricerche e testimonianze, Città del Vaticano 1991, pp. 275-362 (Pontificio Comitato di Scienze Storiche. Atti e documenti, 4); a questo volume rinvio per ulteriori approfondimenti; da segnalare in particolare il saggio di P. Conte, Il «consortium fidei apostolicae» tra vescovo di Roma e vescovi nel secolo VII, ibid., pp. 363-431.
[25] Rinvio in proposito alle recenti ottime pagine di G. Cracco, «Habitare secum». Luoghi dello spirito e luoghi della storia nel medioevo europeo, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 56 (luglio-dicembre 1999), pp. 9-34.
[26] Sempre valida per un panorama complessivo, e suggestivo, l’opera di G. Miccoli, Chiesa gregoriana: ricerche sulla riforma del secolo XI, Firenze 1966; per questa svolta e per l’evoluzione successiva si vedano la stringata sintesi di K. Schatz, Idee politiche e «plenitudo potestatis» dall’età gregoriana fino al Settecento, in Il ministero del papa in prospettiva ecumenica, a cura di A. Acerbi, Milano 1999, pp. 99-110, e G. Tellenbach, Papatus, in Cristianità ed Europa. Miscellanea di studi in onore di Luigi Prosdocimi, Vol. I/1, a cura di C. Alzati, Roma – Freiburg – Wien 1944, pp. 47-58.
[27] A. Paravicini Bagliani. Le chiavi e la tiara: immagini e simboli del papato medioevale, Roma 1998.
[28] Don Orione ebbe parte attiva nello sbloccare le trattative che condussero alla Conciliazione del 1929. In accordo con il Card. Gasparri, segretario di Stato, scrisse una illuminata lettera a Mussolini; partecipò ad una commissione di studio incaricata di studiare la possibile soluzione pratica; non perdette occasione per motivare la necessità della soluzione della Questione romana: “Bisogna che la Santa Sede sia libera, e tale appaia agli occhi del mondo cristiano, in modo evidente e indiscutibile. Io spero nella Provvidenza, e ho fede nel trionfo della giustizia e della verità; ho fede nella indipendenza e libertà effettiva, reale e tangibile del Vicario di Cristo”, Scritti 66, 250. Questo tema storico è trattato da F. Peloso, Don Orione e la Conciliazione, «Studi Cattolici» 45(2001) n.484, pp.426-431; A Lanza, Don Orione, la Questione romana e la Conciliazione, «Messaggi di Don Orione» 24(1993), n.81.
[29] P. Granfield, Papacy, in The Encyclopaedia of Religion, vol. XI, 1987, pp. 180-181.
[30] É. Poulat, Vatican (Cité du), in Encyclopedia Universalis. Corpus, vol. XXIII, 1995, p. 361.
[31] Da un discorso di Paolo VI, pronunciato dalla finestra del Palazzo Apostolico, il 9 luglio 1978: Roma simbolo vivente dell’unità del genere umano, in Paolo VI, Insegnamenti, Città del Vaticano 1979, vol. XVI, p. 541.
[32] Cfr. Nel Nome della Divina Provvidenza, p. 40.
[33] Nel nome, p. 100.