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Messaggi Don Orione
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Autore: A cura Don Flavio Peloso

Piero Bargellini, Tommaso Gallarati Scotti, Giuseppe De Luca, Martino Stanilao Gillet, Ignazio Silone, Stefano Ignudi, Alberto Vaccari, Paolo VI, Carlo Gnocchi

Le risonanze di stima e di venerazione suscitate dal beato Don Luigi Orione continuano, a sessant’anni dalla sua morte, a diffondersi con onde sempre più vaste. I tempi e le culture differenti non sembrano diminuirne l’intensità, ma anzi arricchirle di nuovi motivi ed impulsi. 
Questo fenomeno fa comprendere che si è di fronte ad una sorgente ad alto potenziale. D’altro canto, occorre continuamente guardarsi dal fenomeno della “distorsione” dell’originario impulso. Infatti, è inevitabile che l’immagine di una persona, la quale già in vita, e ancor più dopo la morte, assurge a grande fama, subisca una più o meno lenta “trasfigurazione” che finisce, talvolta, col renderla un poco diversa dalla realtà. Sarebbe un impoverimento. 
Sta avvenendo qualcosa del genere anche per Don Orione? Certo, può avvenire. Però, nel caso di Don Orione, è tanta e tale la mole di documenti originali - dalla montagna di suoi scritti autografi (116 volumi) fino alle centinaia di fotografie ed anche di filmati -, sono così numerose e dettagliate le testimonianze “de visu” di ogni tipo di persone che hanno conosciuto Don Orione, è talmente vivo il suo impulso spirituale (il carisma) in tanti sacerdoti, suore e laici, da rendere abbastanza agevole e sicuro “ritornare al vero Don Orione”. Ed è un dovere, spirituale e storico. 

Gli amici, ne abbiamo tutti l’esperienza, sono quelli che colgono più in profondità il nucleo essenziale del carattere e della spiritualità di una persona. Se poi, questi amici, sono anche poeti della parola e dell’anima - come sono quelli che parlano di Don Orione in queste pagine -, essi sono in grado di trasmettere quanto di più vero, bello ed universale vi è nella persona di cui parlano: Don Orione. 
Sono qui raccolte delle “risonanze di amici” illustri di Don Orione: Ignazio Silone, Padre Ignudi, Bargellini, Padre Vaccari, Gallarati Scotti, Papa Montini, Don De Luca, Padre Gillet, Don Carlo Gnocchi. Sono persone che hanno legato la loro vita e il loro nome a vicende della storia, della cultura, della Chiesa, della politica italiana e mondiale. 
Non li leggeremo per sapere di fatti nuovi riguardanti il santo Fondatore, ma per conoscere le relazioni umane che egli sapeva tessere. Come c’è una storia dei fatti e delle idee, documentabile e rigorosamente scientifica, che traccia sicuri cammini della memoria e dunque della vita, c’è pure una storia delle relazioni tra le persone, non meno importante e determinante, che, pur avendo meno cultori, merita d’essere scritta e conosciuta. 
Proprio mentre preparavo i testi di questo Quaderno, il Prof. Maffino Redi Maghenzani, studioso della figura e dell’opera di Ignazio Silone, da poco a conoscenza della stretta relazione tra Silone e Don Orione, mi ha fatto osservare: “Penso che per conoscere a pieno Silone, la sua attività politica come quella letteraria, non si possa prescindere dalla conoscenza della sua relazione con Don Orione, tanto essa fu influente”. Le relazioni fanno la persona. E fanno la storia delle persone. 
Le risonanze di amici di queste pagine, certo soggettive, ci aiuteranno a conoscere dei tratti della fisionomia propria di Don Orione, aiutandoci ad evitare che essa perda via via i caratteri propri, e diventi generica. 

Don Flavio Peloso


 

PIERO BARGELLINI



È nato, vissuto e morto a Firenze: 1897-1980. Fu scrittore, uomo politico, cattolico impegnato a mediare la fede con la cultura e la politica. 
Fu scrittore non sofisticato, uomo dal gusto per le cose vere e semplici, cattolico alieno da problematicismi quanto piuttosto operativo e cordiale: tutto questo gli procurò l'interesse di un vasto seguito di persone al di là delle differenze di generazione, di fede e di politica. 
Fondò e diresse la rivista "Il frontespizio" (1929) fucina di talenti letterari e artistici italiani e promotrice del rinnovamento letterario e artistico dei cattolici in Italia. 
Il suo impegno attivo nella politica fu praticamente ininterrotto dal 1951 al termine della sua vita. Militante della Democrazia Cristiana, fu consigliere e poi sindaco di Firenze, deputato e senatore della Repubblica italiana. Fu divulgatore e ambasciatore della cultura e dell'arte fiorentina nel mondo. Nel difficile periodo della "guerra fredda", rimasero famosi i cinque convegni per la pace e la civiltà cristana (1952-1956) promossi a Firenze assieme a Giorgio La Pira. 



Don Orione
“Vedo Gesù che torna: non è un fantasma, no! È lui, il Maestro, è Gesù che cammina sulle acque limacciose di questo mondo così torbido, così impetuoso. L'avvenire è di Cristo! 
Leviamo lo sguardo della fede, o fratelli; ecco Cristo che viene, vivo coi vivi, a darci vita con la sua vita. Sì, avanza al grido angoscioso dei popoli. Cristo viene portando nel suo cuore la Chiesa e nella Sua mano le lacrime e il sangue dei poveri: la causa degli afflitti, degli oppressi, delle vedove, degli orfani, degli umili, dei reietti”. 



Risonanze di Piero Bargellini

Cristo viene! Don Orione lo vide con gli occhi della fede, lo vide camminare sulle acque agitate e sconvolte dalla burrasca, anche prima che le onde fangose flagellassero il mondo. Don Orione aveva la vista lunga; scorgeva innanzi a sè gli eventi futuri. 
Vedeva così il mondo sconvolto, la società in convulsioni, il fango delle passioni travolgere uomini, il vento della malvagità svellere coscienze. Vedeva tutto ciò, presentiva la tragedia, preannunziava la catastrofe, senza però né sbigottirsi né disperare. L'uomo di Dio se con l'occhio dell'umano vedeva le onde turbarsi e svonvolgersi, con l'occhio del divino vedeva Qualcuno che camminava sulle onde, Qualcuno anzi che si faceva strada di quelle onde per giungere a noi, per ritornare a noi. “Vedo Gesù che torna”, egli diceva e lo vedeva tornare in mezzo alla bufera, sul mare sconvolto del mondo. 
Gesù torna. Torna chiamato dal grido angoscioso dei popoli; torna invitato dai nostri dolori, direi quasi forzato dai nostri peccati. Tutti lo invocano, tutti lo reclamano, anche coloro che al nome santo di Gesà non hanno il coraggio di mettere l'appellativo di Cristo, cioè unto del Signore, inviato da Dio. 
Molti lo invocano come una speranza, molti lo vedono come un simbolo di fratellanza, molti lo credono come un fantasma ammonitore. Mai forse come in questo momento si è parlato tanto di Gesù; confondendo la sua persona divina nella nebbia delle umane ideologie. Si crede di poterlo vedere Gesù nel miraggio della sociale giustizia, si crede di poterlo vedere nel fantasma dell'umana felicità, si crede di poterlo vedere nella figura di una mondana pace. Ma Don Orione ci ammonisce di levare lo sguardo della fede. Solo la fede fa scorgere Gesù “vivo coi vivi” , soltanto la fede ci fa conoscere il Cristo camminante sulle acque limacciose. 
E perché sulla figura, anzi sulla sua persona, non ci possono essere dubbi e non possono nascere equivoci, l'uomo di Dio segna i caratteri di Gesù. Egli è il Cristo, l'inviato del Signore, e porta nel suo cuore la Chiesa. Un Gesù che non abbia sul suo cuore, nel Suo cuore la Chiesa, non è Gesù; è un vano fantasma destinato a svanire tra i nembi della burrasca terrena; destinato a naufragare nei gorghi delle umane passioni. 
Ma non basta. C'è un altro segno che fa riconoscere Gesù dai falsi profeti. Egli ha nella sua mano le lacrime e il sangue dei poveri, la causa degli afflitti, degli oppressi, delle vedove, degli orfani, degli umili, dei reietti. 
Don Orione guarda al cuore e alla mano di Gesù. Nel Suo cuore egli vede la Chiesa; nella Sua mano egli vede le lacrime e il sangue dei poveri, la causa degli afflitti. 
Un Gesù che avesse la mano vuota di misericordia, la mano inerte, la mano inutile, non sarebbe il Cristo. La sua figura si perderebbe nel vento della bufera. Invece, s'Egli viene, è perché ha nella Sua mano un soccorso e un aiuto. La Sua causa non è quella dei superbi, dei potenti. È la causa dei poveri di cui Egli raccoglie le lacrime e il sangue, la causa degli afflitti di cui Egli è l'unico consolatore, la causa degli oppressi di cui è l'unico vendicatore, la causa degli umili di cui Egli è l'unico riscattatore, la causa degli orfani di cui Egli è l'unico Padre. 
Questo è Gesù che cammina sulle acque sconvolte; questo è Gesù che torna; Egli ha sul suo cuore la Chiesa, e nella mano la causa dei derelitti. Così l'ha veduto Don Orione, così è il vero Cristo salvatore e redentore del mondo. 

 

TOMMASO GALLARATI SCOTTI



Di nobile famiglia lombarda, nacque a Milano nel 1878 e morì a Bellagio l'1 giugno 1966, stringendo tra le mani una reliquia di Don Orione. L'amicizia con il prete tortonese ha accompagnato tutto l'arco della sua vita. Lo conobbe durante il terremoto di Messina e si fece promettere la vicinanza spirituale anche in punto di morte. Egli stesso raccontò: “Un giorno dissi a Don Orione; Caro Don Orione, io vorrei averla vicino al mio letto di morte, perché non vedo nessun altro prete che potrebbe consolarmi. Lui mi disse: Oh, ma ci vengo, ci verrò”. 
Fu volontario nella Ia guerra mondiale e si distinse per eroismo, tanto da venire decorato. Fu uomo di cultura e scrittore fecondo. Tutta la sua produzione letteraria è permeata dal suo spirito cattolico, qua e là tinto di modernismo, motivo per cui ebbe non pochi problemi con l'autorità della Chiesa. Scrisse saggi su temi cristiani, opere narrative, opere di teatro e poesie. Tra le opere più note: G. Mazzini e il suo idealismo politico e religioso, Storia dell'amor sacro e dell'amor profano, Vita di A. Fogazzaro, Vita di Dante, San Francesco d'Assisi, Miraluna. Fu ambasciatore d'Italia a Madrid e poi a Londra. Fu presidente dell'ente Fiera di Milano, del Banco Ambrosiano e sindaco di Milano.
 


Don Orione 

“Quanto è sublime e profondamente cristiano il nostro Manzoni quando dal labbro ispirato del Cardinal Federigo esce in un inno allo Spirito Santo, che si diffonde soave su tutto un popolo e gli fa pregustare la conversione dell'Innominato. È un qualche cosa di ciò che noi chiamiamo la Comunione dei Santi. 
L'Innominato è tra le braccia dell'uomo di Dio, "vinto da quell'impeto di carità, mentre le lagrime ardenti di lui cadono sulla porpora incontaminata del Cardinale, e le mani incolpevoli di questo stringono affettuosamente quelle membra, premono quella casacca, avvezza a portar l'armi della violenza e del tradimento".
E lo Spirito Santo penetra in lui, e la grazia lo trasforma. "Dio, dice il Cardinale, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde ora una gioia. Il popolo è unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito mette ne' loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch'esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete l'oggetto non ancor conosciuto".
E l'Innominato, che è al principio della risurrezione, sente il soffio dello Spirito del Signore che passa soave e vivificante su lui, e, alzando la faccia, esclama: "Dio veramente grande! Dio veramente buono"! (Cap. XXIII). E prova un refrigerio, una gioia, sì una gioia quale non ha provato mai in tutta la sua orribile vita. 
È lo Spirito Santo; Spirito di verità, Spirito di luce, Spirito di consolazione, che scende e rianima, e crea l'uomo nuovo”. 



Risonanze di Tommaso Gallarati Scotti

La nostra relazione risale all'incontro durante il terremoto di Messina. Ma la conoscenza più approfondita e meditata è degli ultimi anni in cui visse. Ricordo particolarmente, come una delle mie grandi esperienze spirituali, i giorni che passai accanto a lui nell'antico convento di Sant'Alberto di Butrio, dove aveva raccolto una piccola comunità di frati ciechi, che camminavano come ombre, bianchi e silenziosi, distaccati dai sensi e concentrati nel loro mondo interiore. 
E, forse, in questo c'era l'implicito desiderio di venire incontro non solo alla cecità fisica, ma anche alla cecità dell'anima umana che è molto più grave. Pio XI disse un giorno a dei ciechi: “Ma siamo tutti ciechi!...”. Questo voleva dire Don Orione con la sua pietà per i ciechi. 
Io arrivavo nel singolare cenobio in un'ora difficile di turbamenti e amarezze, di avversioni, di critica e di dubbio, e vi trovavo una serenità di coscienza in pace, aperta verso l'eterno. Io ero incerto, confuso, impigliato in grovigli non sciolti. Don Orione era semplice, sicuro, con la freschezza lieta di chi sente il mondo tutto penetrato da Dio. Viveva in una sfera che era quello del miracolo. Non aveva dubbi, ma capiva quelli degli altri. E capiva – proprio lui che li compiva i prodigi – ciò che, di essi, poteva disturbare i figli del secolo. “Voi vi fermate troppo alla corteccia, all'esterno – a ciò che stupisce e di cui parlano i giornali... – (un segno, un piccolo segno, fatto per scuotere i torpidi). Ma bisogna cercare al di là il Miracolo della bontà infinita di Dio...”. 
In quei giorni io ebbi con lui i contatti che può avere un'anima cristiana con un grande direttore di spirito; e non è poca cosa. Rimane in me la traccia di quello che lui mi disse, di quello che lui pretese da me; non era sempre indulgente. Di questo parleremo dopo. Quello che più ricordo e che, forse, è più utile, in questo momento, ricordare, è ciò che riguarda il miracolo. Io ero tormentato dal problema del miracolo; mi raccontavano molte cose e molti miracoli fatti da Don Orione, ed io ebbi l'indiscrezione, di chiedergli: “Mi dica se questo è vero o non è vero”. Io rimasi meravigliato di una cosa: della grande semplicità con cui mi rispose. Come c'è la semplicità di un grande signore che è pieno di ricchezza, c'è la semplicità di un grande signore dello spirito che è pieno di doni dello Spirito Santo. Mi rispose con semplicità e mi disse: “Sì, è vero”. Questa fu la sua risposta sopra quello che dicevano riguardo all'Eucarestia che aveva amministrato a molta più gente che non fosse il numero delle ostie che aveva nella pisside. Lui mi disse con semplicità: “Cosa volete, figliuoli, so che li ho comunicati tutti; questo lo so, poi Dio sa il resto”. 
Riguardo anche agli altri miracoli, mi pare che Egli fosse perfettamente nello spirito del Vangelo, poiché anche Gesù i miracoli esteriori li amava fino a un certo punto; diceva sempre di tacere. Perché diceva di tacerne? Perché sentiva – ritengo difficile dire queste cose, per me laico –, perché sentiva che bisogna che noi fissiamo bene la nostra attenzione, e sentiamo più il miracolo interiore che è più grande, che non rivedere i fatti con gli occhi materiali. 
C'è il miracolo di quelli che rivedono con gli occhi spirituali la verità di Dio, la verità di Cristo: questo è il grande miracolo, ed è lì dove Don Orione riportava e voleva riportare; era quello il miracolo che nessuno può discutere e che veramente è strabiliante quando avviene, quando ci troviamo di fronte ad un'anima che improvvisamente ritrova la luce piena e cambia completamente la vita e depone completamente tutto il suo modo di essere per cominciare a rivivere un'altra vita. Questo è un miracolo che supera tutti i miracoli di una gamba che si allunga e di un braccio che si muove; questo è il grande miracolo a cui egli voleva richiamare, e ricordo il calore con cui mi diceva: “Ma guardate al miracolo quotidiano di Dio nelle anime”. 
Poche settimane or sono, parlando – con un amico straniero non cattolico che ha una posizione eminente nella letteratura contemporanea – di quel lume che non può esserci dato dal genio e che chiediamo per nostra consolazione ai santi, dissi che, per me, ciò che ricercavo in essi era la carità. Egli rimase pensoso alquanto e sussurrò appena, con la sua voce sottilissima e mesta: "l'umiltà", perché aveva conosciuto la superbia. Per questo, benché non siano più i tempi in cui i santi erano proclamati a voce di popolo, il mio voto lo darei a Don Orione l'unico tra i candidati agli altari che ho conosciuto bene, e il più vicino, per me, a San Francesco, ma genuino, senza imitazioni e senza l'orpello del francescanesimo letterario. 
Ci sono delle cose meravigliose che io potrei raccontare, cose meravigliose come quella di Castelnuovo, di quel povero peccatore, grave peccatore, che si trova sulla via, di notte, e tra la neve s'inginocchia, si confessa ed eccolo convertito, perdonato completamente, riprendere una sua vita completamente diversa. Questo mi pare che era il punto – e domando qui se sono nella verità o no –, il punto che Don Orione voleva: voleva che ciascuno di noi vivesse questa vita più intima in cui si ritrova Iddio, in cui si vive profondamente di Dio, in cui si sentono i valori eterni dello spirito del Vangelo. 

 

GIUSEPPE DE LUCA



Di origine calabrese, nato a Sasso di Castalda nel 1898, egli amò definirsi "prete romano", non solo perché a Roma si stabilì (e morì nel 1962), ma per la sua fede e cultura cattolica e romana. 
Fu un letterato di grande valore ed esuberanza di produzione e di iniziative volte a dare identità e dignità alla cultura cattolica, mettendola in dialogo con le differenti culture "laiche". Filologo esperto e grande conoscitore della letteratura religiosa di tutte le epoche, curò la pubblicazione di numerosi testi e antologie. Collaborò a numerose riviste e giornali. Sua particolare benemerenza fu la promozione di importanti iniziative editoriali, quali Edizioni di storia e letteratura e l'Archivio italiano per la storia della pietà. 
Abitando in via delle Sette Sale 19, a due passi dallo studentato teologico di Don Orione, al numero 22, ebbe numerosi contatti con il Beato del quale scrisse delle pagine tra le più belle e profonde in assoluto. “Ho l'animo pieno di lui – scrisse –. Quando penso a lui, mi sento preso da indicibile dolcezza, come quando la sua mano si poggiava sulla mia testa”. 



Don Orione 

“Non saper vedere e amare nel mondo che le anime dei nostri fratelli – anime di piccoli, anime di poveri, anime di peccatori, anime di giusti, anime di traviati, anime di penitenti, anime di ribelli alla volontà di Dio, anime di ribelli alla Santa Chiesa di Cristo, anime di figli degeneri, anime di sacerdoti sciagurati e perfidi, anime sottomesse al dolore, anime bianche come colombe, anime semplici pure angeliche di vergini, anime cadute nella tenebra del senso e nella bassa bestialità della carne, anime orgogliose del male, anime avide di potenza e di oro, anime piene di sé, che solo vedono sé, anime smarrite che cercano una via, anime dolenti che cercano un rifugio o una parola di pietà, anime urlanti nella disperazione della condanna o anime inebbriate dalle ebbrezze della verità vissuta: tutte sono amate da Cristo, per tutte Cristo è morto, tutte Cristo vuole salve tra le Sue braccia e sul Suo Cuore trafitto. 
La nostra vita e tutta la nostra Congregazione deve essere un cantico e insieme un olocausto di fraternità universale in Cristo. 
Vedere e sentire Cristo nell'uomo. Dobbiamo avere in noi la musica profondissima e altissima della carità. Per noi il punto centrale dell'universo è la Chiesa di Cristo e il fulcro del dramma cristiano: l'anima. Io non sento che una infinita, divina sinfonia di spiriti, palpitanti intorno alla Croce, e la Croce stilla per noi goccia a goccia, attraverso i secoli, il sangue divino sparso per ciascuna anima umana. 
Dalla Croce Cristo grida: “Sitio!”. Terribile grido di arsura, che non è della carne, ma è grido di sete di anime, ed è per questa sete delle anime nostre che Cristo muore. 
Io non vedo che un Cielo; un cielo veramente divino, perché è il cielo della salvezza e della pace vera: io non vedo che un regno di Dio, il regno della carità e del perdono, dove tutta la moltitudine delle genti è eredità di Cristo e regno di Cristo. 
La perfetta letizia non può essere che nella perfetta dedizione di sé a Dio e agli uomini, a tutti gli uomini, ai più miseri come ai più fisicamente e moralmente deformi, ai più lontani, ai più colpevoli, ai più avversi. 
Ponimi, o Signore sulla bocca dell'inferno perché io per la misericordia Tua lo chiuda. Che il mio segreto martirio per la salvezza delle anime, di tutte le anime, sia il mio Paradiso e la suprema mia beatitudine. Amore delle anime, anime, anime! Scriverò la mia vita con le lacrime e col sangue (25.2.1939). 
L'ingiustizia degli uomini non ci affievolisca la fiducia piena nella bontà di Dio; sono alimentato e condotto dal soffio di speranze immortali e rinnovatrici. 
La nostra carità è un dolcissimo e folle amore di Dio e degli uomini che non è della terra. 
La carità di Cristo è di tanta dolcezza e sì ineffabile che il cuore non può pensare, né dire, né l'occhio vedere, né l'orecchio udire. Parole sempre affocate. Soffrire - Tacere - Pregare - Amare - Crocifiggersi - Adorare. 
Lume e pace di cuore; salirò il mio Calvario come agnello mansueto. Apostolato e martirio: martirio e apostolato. 
Le nostre anime e le nostre parole devono essere bianche, caste, quasi infantili, devono portare a tutti un soffio di fede, di bontà, di conforto che elevi verso il Cielo. 
Teniamo fermo l'occhio ed il cuore nella divina bontà. 
Edificare Cristo! Edificare sempre! “Petra autem est Christus!”. 



Risonanze di Giuseppe De Luca

Parlando di Don Orione, in occasione della sua morte, si accennò cautamente, ma con intenzione, che mai non si sarebbe potuto parlare di lui a modo, fino a quando non avessimo avuto sott'occhio e tra mano qualche documento della sua vita più interiore, qualche segreto svelato della sua anima men nota. Le sue parole erano come le sue "opere", nella luce del sole e per gli altri: doveva, tuttavia, Egli pronunciarne altre in un'altra luce (nessuno parla nel buio) non per noi né per la storia, ma in quello spazio che non è più cosa geometrica. 
Se un uomo c'è che non tace, quando tace, è il Santo, e i Santi che han detto a Cristo parole di fuoco, non sono come si crederebbe, i Santi della contemplazione, bensì e soprammodo i Santi dell'azione: S. Caterina da Siena, irrequieta e giramondo, S. Teresa d'Avila, riformatrice e fondatrice di molte Case, S. Francesco Saverio, che scappa dall'Europa e in pieno Cinquecento tocca il Giappone, muore solitario in un'isola di quei mari lontani, ecco i Santi, che devono aver parlato, quando parlavano a Cristo, con parole tutta luce e fuoco puro. 
Chi tace, anche con Dio, è il contemplativo, il quale vede, e vedendo si sazia e posa o semplicemente palpita. È molto raro che di quelle parole segrete resti fra gli uomini una traccia. Rarissimo, singolare, non però impossibile, quasi sempre casuale. Di Pascal nessuna meraviglia che siano giunte a noi le pagine matematiche, le pagine giansenistiche, le pagine apologetiche; ma è meraviglia grande, che ci sia restata la rivelazione del fuoco interno nella notte misteriosa. 
Don Orione, non era un grande scrittore, non era anzi scrittore affatto: non per vocazione, né per elezione, ma scriveva per necessità, come la comune degli uomini. E tuttavia alcune delle sue parole erano tali, scaturivano da così profondo fuoco, in una luce così nuova, che rimarranno più di molte dozzine di centinaia di volumi negli anni nostri. Alla cortesia di un amico, il quale vuol restare ignoto, dobbiamo comunicazione di un foglio in ottavo, scritto sulle quattro facciate, a piena pagina, e tumultuariamente, con molto uso di a capi, sviste evidenti, qualche cancellatura e giunte negli interlinea. Che cosa intendesse Don Orione, io non so né sa l'amico o almeno non me l'ha detto. 
Traccia di discorso non pare; e poi, quella data in parentesi fa pensare a notazione intima. Che sia uno scritto per altri, non pare nemmeno; tante confidenze, di sé non le avrebbe mai fatte. Noi crediamo, queste quattro pagine, residuo della carta di un'ora di preghiera, tentativo di salvare con l'inchiostro e in ombra un ricordo di affetti, un passaggio di luce, un segno di momenti carichi, esplosi nel silenzio e caduti poi quietamente, come cade una sera fra gli alberi in campagna. 
Non dico di un lettor semplice, dico d'un esperto di testi spirituali e mistici, che non può non restare percosso da alcune di queste frasi, roventi e incandescenti, che in un punto, han perduto l'uso delle maiuscole, agli a capo, e ogni punteggiatura: e son rimasti in carta nel disordine d'un sangue, che fluisce e cade da una ferita improvvisa, e pigliano un vento di volo, come strofe. 
Le ultime due pagine risentono d'una struttura più frettolosa e più disordinata: ma sono le più dirette e le più ricche di rivelazione interiore. La data apposta al proposito di scrivere la Sua vita con lacrime e col sangue (e cioè tesserla, farla, viverla; in questo senso Egli ("scriveva") ci dicono chiaro che si tratta degli ultimi anni di Don Orione. 

 

MARTINO STANISLAO GILLET 



Padre Gillet, nato a Louppy sur Loison 1875 e morto ad Aix les Bains 1951, domenicano, fu illustre professore di Teologia a Lovanio e di Filosofia a Parigi. Fu superiore generale dell'Ordine domenicano (1929-1946) e successivamente ordinato vescovo di Nicea (1946). Fu autore di numerose opere filosofiche e teologiche e apprezzato conferenziere. Si occupò attivamente dei problemi del cattolicesimo francese. Conobbe e stimò Don Orione. 


Don Orione 

“Chi ci darà l'inno dell'umanità redenta da Cristo, l'inno della carità? 
Vi fu già un uomo che cantò quest'inno e ne scrisse le più belle e più alte parole, dopo averlo attuato nella sua vita: S. Paolo. Ed egli poteva ben cantarlo questo inno, così come l'ha cantato, poiché nessuno più di lui lo sentì vibrare nel suo cuore, nessuno ha sentito più di lui l'amore di Gesù Cristo e dell'umanità; e gli echi di quella divina poesia sono giunti fino a noi, poiché, a partire da Cristo la religione diventò ispiratrice di carità e con lei è talmente congiunta che Cristianesimo senza carità non sarebbe che una indegna ipocrisia”. 



Risonanze di Martino Stanislao Gillet

Quando si pensa a Don Orione non si può pensare ad altro che alla carità. Poiché egli fu come la carità incarnata, quella carità di cui S. Paolo parlava, con esperienza consumata, quando scriveva ai Corinti: “La carità è paziente e benigna; la carità non è invidiosa, non è inconsiderata, non si inorgoglisce, non è ambiziosa, non cerca il suo interesse, non s'irrita, non tiene conto del male, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità; scusa tutto, crede tutto, spera tutto, sopporta tutto”. (I Cor. 13,4-8). In una parola la carità si fa tutto a tutti per amore di Dio. 
Certi Santi portano sul viso e negli occhi l'espressione della loro vita interiore, dei pensieri e dei sentimenti di cui essa si nutre: è come il riflesso di Dio che abita in essi. Basta guardare la fisionomia di Don Orione, basta vedere il suo buon sorriso per essere sicuri che egli non pensa ad altro che alle anime: a donar loro Iddio, questo Dio di amore che vive nelle anime dei giusti, e di cui il giusto vive abitualmente. Ciò che distingue la carità dagli altri amori è che essa non fa che dare, mentre negli affetti terreni, anche quelli più disinteressati, come l'amicizia, c'è sempre, dietro il vero dono di sé, il bisogno di prendere o di ricevere qualche cosa in cambio di questo dono. 
Prendiamo Iddio come esempio, per meglio mettere in rilievo questa opposizione di natura tra la carità soprannaturale e gli affetti puramente umani, generosi e, a fortiori, utilitari. 
Iddio, essendo perfezione infinita e Bene supremo, non ha bisogno di niente e di nessuno, basta a se stesso. Se crea altri esseri e, dopo averli creati, li ricolma di grazie, ciò non può essere che per amore, per la gioia suprema di dare dalla sua sovrabbondanza: di far partecipare questi esseri alla sua stessa vita. L'amore di Dio, il più disinteressato che esista, è all'origine della creazione, dell'Incarnazione, della Redenzione e in genere di tutti i doni di Dio. Perché è perfetto, perché è il Bene supremo, ama per dare, non per ricevere o – ancor meno – per prendere. 
Viceversa le creature, poiché sono imperfette, poiché sono beni relativi, hanno bisogno di tutto e, quando amano, è soprattutto per ricevere, per arricchirsi, per soddisfare ai loro bisogni. L'amore umano, sotto tutte le forme, è a base di mendicità. 
La più alta, la più disinteressata amicizia, non si sottrae a questa legge; anche quando ci consacriamo ad un amico, diamo soddisfazione in noi ad un bisogno umano: riceviamo quando diamo, non foss'altro che la gioia di dare. Ma se la grazia viene a trasformare la natura, se noi abbiamo vera carità, allora amando Dio per Se stesso e gli altri per Lui e come Lui, per dare loro Iddio, allora è, per così dire, il cuore di Dio che batte nel nostro cuore. Allora amiamo come Gesù ha amato, per gli stessi motivi e allo stesso modo, pronti a morire a noi stessi, comunque sia, per salvare le anime, per dare Dio alle anime. 
Così si spiega la carità eroica dei Santi, degli Apostoli, dei Martiri, dei Confessori, delle Vergini. Ciò ch'è follia agli occhi degli uomini, diviene saggezza ai loro occhi come a quelli di Dio. La loro carità fraterna è in proporzione sia del loro amore di Dio, sia dei bisogni delle anime. Le anime che essi dietro l'esempio di Gesù, preferiscono, sono quelle i cui bisogni sono più profondi: i peccatori, i poveri, i malati, gli sventurati di questo mondo, i bimbi, gli orfani, gli abbandonati, gli anormali. Tutto l'Evangelo passa nel loro cuore, ed il loro cuore si riversa nella loro vita, e passa – d'un medesimo slancio – nel cuore degli altri. 
Così si spiega Don Orione, di cui ho detto che è la carità incarnata. Basta guadarlo, per vedere ch'egli vive in Dio e Dio in lui. Nel suo portamento, nel suo sguardo, nel suo sorriso, nella sua conversazione, in tutta la sua persona si sente l'irradiarsi della presenza interiore di Dio. Si è come davanti ad un tabernacolo vivente: onde quell'attrazione, insieme, e quel rispetto che egli ispira a quelli che lo avvicinano. Questo uomo, questo santo uomo, vive in contatto abituale con Dio. È là, in questo cuore-a-cuore con Lui, che la carità di Don Orione ha la sua sorgente e come fiamma possente attraversa tutte le regioni della miseria umana, le regioni più desolate, le più desertiche, e le feconda, vi fa germinare la grazia, la virtù, in una parola i doni di Dio. 
Coloro che non sanno tutto questo, che non considerano i Santi se non dal di fuori, non arrivano a comprendere l'estensione della possanza del loro irradiamento. 
Un San Vincenzo de' Paoli, un Don Bosco, un Don Orione, malgrado le apparenze umane più umili, giungono a non fare che un tutt'uno con Dio, a essere altri Lui, poiché hanno Dio nel cuore: non l'idea di Dio e nemmeno la sola fede in Lui, ma in realtà lo stesso Iddio, Padre, Figliolo e Spirito Santo: l'Amore in persona, che abita nelle anime. 
La grazia ci imparenta con Dio – dice San Pietro – ci fa partecipi della Sua natura: consortes divinae naturae (II Petr. 1,4); perciò essi partecipano della sua possanza e del suo irradiamento. Da sé soli e ancora dietro l'esempio di Gesù essi sollevarono il mondo. 
Guardate: vedrete nel mondo intero i loro discepoli e le loro opere, perché la stessa carità anima gli uni e le altre. Ho fatto personalmente il giro del mondo e, ovunque sia andato, in tutti i paesei dei due emisferi, ho incontrato figli e figlie di San Vincenzo de' Paoli, Salesiani di Don Bosco, figli di Don Orione con la loro "Piccola Opera della Divina Provvidenza".
Quale esempio e quale lezione! Lasciati a se stessi, alle loro passioni, individuali e collettive, gli umini amano soprattutto per prendere, per ricevere. Essi sanno meravigliosamente distruggere, non creare. E quando creano (il nostro secolo dal punto di vista scientifico si vanta di essere un secolo di creazione), quando creano è ancora per distruggere. Quando la scienza, che ha per fine la ricerca della verità, è nelle mani di uomini che ignorano Dio o sono contro Dio, diviene una potenza di morte; le sue scoperte più meravigliose si trasformano in strumenti di menzogna e di morte. Invece tutte queste stesse meraviglie della scienza, al servizio di cuori generosi, caritatevoli, che amano Dio, e gli altri come Lui, diventano strumenti di progresso e di salvezza. 
E noi, figli spirituali e ammiratori di Don Orione, che cosa dobbiamo fare? 
Semplicemente vivere di Dio, al nostro posto e nella sfera della nostra attività; vivere della presenza di Dio in noi, del Suo contatto spirituale con l'anima nostra: in altri termini, avere una vita interiore personale e profonda, – in un'epoca in cui non c'è più che vita esteriore, impersonale, collettiva, rumorosa, agitata, – ma vuota... Per questo, del resto, è così sonora! 
Attingere a questa vita interiore, come Don Orione, l'amore di Dio e degli altri come se stesso; poi esercitare questa carità, verso noi stessi anzitutto, nella nostra vita personale, indi verso gli altri, verso quella che ne circondano: la nostra famiglia, i bimbi nostri, i nostri servitori, i nostri amici, i concittadini, il Paese nostro, la Santa Chiesa... 
Amarci l'un l'altro, come Dio ci ha amati. 
I nostri popoli cristiani, impregnati di cristianesimo, i nostri popoli latini si risolleveranno dalle loro rovine materiali solo se, ancora una volta, si abbevereranno di carità, attingendola alla sorgente stessa donde scaturisce: al cuore stesso di Dio, che abita in noi. Così sia! 

 

IGNAZIO SILONE



Secondo Tranquilli – questo è il suo vero nome – nacque a Pescina (l'Aquila) nel 1900. Morì il 22 agosto 1978. La sua adolescenza fu segnata dagli eventi del disastroso terremoto della Marsica nel 1915: rimase senza genitori e senza casa, senza sicurezze economiche e umane. “Io ho avuto la fortuna di vivere un certo tempo accanto a un santo”, confiderà Silone al drammaturgo Diego Fabbri ricordando il periodo trascorso in un collegio di Don Orione, a San Remo, nel periodo difficile della giovinezza. 
Stabilitosi poi a Roma, iniziò la sua vivace attività letteraria e politica. Aderì giovanissimo al partito socialista; nel 1921 fu tra i fondatori del partito comunista italiano, dal quale poi clamorosamente prese le distanze nel 1930. Per sottrarsi alla persecuzione fascista, emigrò in Svizzera, dove rimase fino al 1945. Rientrato in Italia fu eletto deputato nel partito socialista; diresse il giornale "Avanti" e la rivista "Tempo presente" fino a quando lasciò definitivamente la militanza politica. 
La sua produzione di narratore e di romanziere segna tutto l'arco della sua vita: da Fontamara (1930), a Vino e pane (1937), Il seme sotto la neve (1940), Una manciata di more (1952), Il segreto di Luca (1956), Uscita di sicurezza (1965) dove dedica uno splendido capitolo al suo "incontro con uno strano prete", Don Orione, fino a L'avventura di un povero cristiano (1968). 
Inquieto nella sua ricerca di verità e di giustizia, coerente e autonomo nel perseguirle, fu "cristiano senza Chiesa e socialista senza partito". Disse di stimare, al di sopra di tutti gli uomini: "Trostzki, perché non era socialista del sabato sera e Don Orione perché non era il prete della domenica mattina".



Don Orione. 

“Io faccio di tutto per rinserrarmi a una più alta visione della vita e considerare gli avvenimenti da un punto di vista più eccelso, da dove appariranno, è vero, un po' più piccoli di dimensioni, ma se ne scorge anche le supreme vette, oltre le terreni basi. Dà un forma netta e precisa a quanto hai in animo di fare, attento ai malsani contatti intellettuali, leggimi col cuore e non con gli occhi. Tu sei per me un interrogativo, che ogni giorno diventa, per me, più grande e impressionante. Molte ragioni non mi permettono di darvi una risposta. Tu hai davanti un gran bivio – un tremendo bivio –, con una idea molto eletta della vita...” 


Risonanze di Ignazio Silone

“Pescina, 29 luglio 1918. – Caro Don Orione, vi scrive Tranquilli e non vi chiede il favore di leggerlo, perché n'è sicuro. Non so cosa dire. Se non avessi riguardato sempre il vostro tempo come prezioso, vi racconterei ciò che mi è accaduto da quando venni via da San Prospero (nel 1917). Voi che, dalla conoscenza di un'anima, potete arguire quali saranno le sue sorti in dati casi, e conoscete la mia anima e sapete che mi son trovato solo, che a volte ho patito la fame, a volte il freddo, potete immaginare che cosa io sia diventato. Poiché, malgrado certe ombre e certe incoerenze, voi non potete negare che io sia sincero parlando di me. Oh perdonatemi, padre! 
Ecco che, parlandovi di nuovo, io non sono coerente: io credo, lo credono tutti che mi conoscono, di essere socialista e dianzi vi ho parlato di anima e di perdono! 
Ah, preferisco essere un materialista incoerente, che quando, giorni fa, riandavo con la mente i capisaldi del marxismo, e mi intrattenni sui fini ultimi dell'uomo e della società, sentii tanto gelo, tanta desolazione e con terrore m'accorsi (ah! che materialista!), che la mia nuova fede mi avrebbe senz'altro condotto al suicidio, appena che un dispiacere un po' forte m'avesse percosso. Temevo il bivio ed ecco che vi sono sospeso ed ho paura. Oh perdonatemi, padre, ed aiutatemi! 
"In certi casi della vita si salva soltanto chi ha un figlio, chi ha un padre, o chi crede in una vita ventura". Mi sono ricordato che, un giorno, voi, scrivendomi, mi chiamavate figlio ed io, padre. Ho ricercato, tra le mie carte, le vostre lettere e le ho rilette tutte, ed ho pensato tanto, ed ho sentito sempre più in me, nella parte più profonda di me, il gelo, ed ecco che vi scrivo e tremo. 
Padre, la mia salute è rovinata, i miei studi sono rovinati, io voglio ancora riedificare, riedificare, riedificare! Aiutatemi! Ripetetemi le parole di speranza, riconducetemi alle acque vive della vita. Nell'immenso gregge che vi precede, curate la pecorella che barcolla sui limiti del precipizio. 
Oh aiutatemi! Mandatemi lontano da questo clima, che mi ha rovinato la salute, da questo ambiente, che mi ha rovinato gli studi: dove è caldo, dov'è quiete. Non sono credente, non mi mandate tra i fedeli; non sono miscredente. Vorrei essere scettico, e non posso: il mio pensiero non vuole dubbi, non vuole essere indifferente. Ma, nello sforzo, gli manca il coraggio. 
Tronco qui, ché vi annoio. Un'ultima grazia: credetemi. Saluti come una volta. Vostro Secondino Tranquilli”. 
“A chi, non avendo conosciuto Don Orione, mi chiede di riassumere, in poche parole, quali tratti di lui mi siano rimasti più impressi nella mente, credo di poter rispondere in questi termini. Cominciando da un dato fisico, il particolare più notevole della sua persona era lo sguardo, come si può vedere anche da certe fotografie. Per la statura media, il colorito bruno, e altri tratti somatici, benché piemontese, Don Orione somigliava piuttosto ad un contadino sardo. Ma il suo sguardo era straordinario. Esso era, nello stesso tempo, benevolo e profondo; con una trasparenza che, in certi momenti, suggeriva l'idea della chiaroveggenza. 
Questa dote, la chiaroveggenza, che quasi sempre si accompagna, se non a corruccio, a severità, in lui produceva invece la compassione. Con tutto ciò, nonostante quella e altre sue eccezionali facoltà, egli appariva uomo di rara semplicità e naturalezza, tali da indurre, anche un ragazzo che vi fosse restìo, ad essere, almeno con lui, semplice e naturale. 
Infine, stimolato da alcuni miei ricordi, devo menzionare, pure a costo di essere frainteso, come uno dei tratti più salienti di Don Orione, fosse la sua fede. Indubbiamente egli credeva in Dio. Mi si può osservare che il numero dei credenti è stragrande; certo, anch'io conosco le statistiche, ma c'è modo e modo. Don Orione, visibilmente, credeva nella continua presenza ed assistenza di Dio, al punto di avere l'impressione, in certe contingenze, che ogni frontiera, tra il naturale e il trascendente, per lui sparisse. In un paio di quelle occasioni, e pur per caso, ebbi modo di meravigliarmi dell'assoluta tranquillità di Don Orione. Se Dio è malcontento del nostro lavoro, egli diceva, ha pienamente ragione di mandarlo per aria; ma se l'approva, in qualche modo ci aiuterà. 

 

STEFANO IGNUDI 



È noto come teologo e illustre dantista; apparteneva all'Ordine dei Frati Minori Conventuali. Nato a Genova il 28.2.1865, entrò nell'ordine nel 1886 e si laureò in Teologia e divenne sacerdote nel 1891. Dopo aver insegnato per alcuni anni a Colle Val d'Elsa e a Genova (1891-1895), fu trasferito a Roma ove passò tutto il resto della sua vita. Qui tenne per lungo tempo la cattedra di studi danteschi cui contribuì con le sue numerose pubblicazioni. Particolarmente importante il suo Commento alla Divina Commedia in 3 volumi. 
Ebbe incarichi di responsabilità nel suo ordine e vari Dicasteri della Curia romana lo ebbero per collaboratore. Accompagnò e sostenne P. Massimiliano M. Kolbe nella fondazione della "Milizia dell'Immacolata".
Padre Ignudi entrò in contatto con Don Orione negli anni '20 e tra loro si stabilì una stima ed amicizia cordiale, fiduciosa, di reciproco aiuto. Don Orione gli indirizzò lettere fraterne, lo invitò varie volte a predicare corsi di esercizi e a tenere conferenze nelle case della Piccola Opera. È a lui che Don Orione scrisse: “Serviamo il Signore allegramente, la nostra mistica dev'essere la carità allegra, la nostra dottrina tutta lieta in Domino; la nostra vita lietamente in Domino. Ci sarà il ballo in Paradiso? Io voglio cantare e ballare sempre. Caso mai, il Signore mi farà un reparto speciale per non disturbare troppo i contemplativi”.



Don Orione

“La concordia e l'unione degli amici ci arreca un (altro) vantaggio, che è la fecondità spirituale in ogni maniera di opere buone. A questa spirituale fecondità accenna il Salmista con la bella similitudine della rugiada, onde in Oriente si ricoprono, si rinfrescano e si giovano i monti soprattutto. “Sicut ros Hermon, qui descendit in montem Sion” (versetto 3). 
Le estive e fresche rugiade che, nei più caldi mesi della Palestina, cadono a fecondare i monti di Hermon e di Sion, non sono che pallida immagine della spirituale fecondità delle anime dei fratelli uniti nel Signore, perché, ove sono anche solo due o tre riuniti nel nome di Dio, Dio è in mezzo di loro e la mano di Dio è sovra di essi, e allora avviene che là, dove finisce la mano dell'uomo, là comincia la mano di Dio. Là ove vigoreggi la carità di Cristo, ove fiorisca, sotto lo sguardo di Dio, l'amorevole concordia di molti buoni uniti in Domino” 
“E tutti sentirete con me, certo, vivissimo il desiderio di cooperare, per quanto è da voi, a quel rinnovamento di vita cristiana – all'“Instaurare omnia in Christo” – da cui l'individuo, la famiglia e la società possono attendersi la ristorazione sociale. Ricordatevi che noi siamo e vogliamo essere i vostri più sinceri e affezionati amici; e vogliamo farvi sentire che vi consideriamo sempre dei nostri”. 



Risonanze di Stefano Ignudi

Vi sono tanti nomi che si prestano alle più diverse e contrarie applicazioni. Per esempio quello di "Amici".
Su molte taverne è scritto: "Osteria degli amici"; sono amici di osteria...; in guardia! 
Vi sono i "Circoli degli amici"; dagli amici di certi circoli ci guardi Iddio! 
A volte si parla di "affari tra amici"; e sono affari loschi, tenebrosi. 
Vi sono gli "amici di borsa, o portafoglio" dei quali un poeta pagano, qui di Roma, scriveva il distico: “Donec eris felix multos numerabis amicos, 
tempora si fuerint nubila, solus eris”. (Ovidio). 
Fino a che sarai felice conterai molti amici, ma se i tempi si faranno nebulosi resterai abbandonato da tutti. 
Per tutte queste specie di amici vale il proverbio: “Da certi amici mi guardi Iddio"”.
Ma vi sono gli "amici" in senso vero; e chi ha trovato un vero amico ha trovato un tesoro. Fra le definizioni del vero amico ve n'è una singolare: “Amico è un uomo che ci conosce a fondo e, nonostante ciò, ci vuol bene”. In questo senso ci è veramente amico Iddio, che davvero ci conosce a fondo e nonostante ciò ci vuol bene. Allo stesso Giuda nostro Signore diceva nell'atto di essere tradito: “Amice, ad quid venisti?”. E glielo diceva di cuore, perché di tutto cuore ne desiderava il pentimento e la salvezza. Pure amici veri ci sono la Madonna, l'Angelo Custode, i nostri cari Santi che ci conoscono a fondo e nonostante ciò ci vogliono bene. 
Don Orione è stato, ed è, un amico vero. Amico a molti che egli conobbe a fondo come veri servi di Dio. Oggi è la festa di San Domenico: abbiamo celebrato la Santa Messa al suo Altare in questa chiesa ricca di memorie domenicane. È conosciuta da tutti l'amicizia che legò i due Patriarchi, San Domenico e San Frncesco d'Assisi. I santi si conoscono e si sentono a vicenda amici. 
Don Orione fu amico a molti, a tutti, perché tutti conobbe nel comune fondo di creature di Dio. Vedeva tutti nel cuore di Gesù, e per questo tendeva le braccia a quanti mostrassero un dolore: “La nostra carità non serra porte!”. 
Si trovava egli qui in Roma al suo Istituto del Divin Salvatore. Una povera donna fu mandata a lui: picchia, ed è aperto. Domanda: “Sta qui Don Luigi? quello che prende i poveri?”. E poi a Don Orione che esce dal prossimo parlatorio domanda: “Siete voi Don Luigi?”. E in poche parole esprime la sua miseria e prega di essere ricoverata. 
Don Orione la ricevette, le assegnò il giorno ed il luogo ove avrebbe dovuto presentarsi. Quella era sul congedarsi quando, come persona cui sovviene cosa dimenticata, soggiunge: “Ma non sono sola, v'è anche mio marito che deve essere ricoverato”. Risponde Don Orione “E portate anche vostro marito!”. Così si concludeva la accettazione, senza tanti documenti o burocrazie. Don Orione era vero amico a tutti, per il solo guardare tutti in Dio. Per quanti incontrava per la via, domandava a Dio che tutti li salvasse. 
Ma anche era vero amico a quanti conosceva a fondo, purtroppo, per le loro cattiverie; gente di cui lo stesso nostro Signore, tutto mite ed umile di cuore, diceva che erano "razza di vipere". Don Orione li ebbe a provare, ne ebbe a soffrire, ed anche a profferire: “Mai mi sono sentito così bene, come in mezzo a certa razza di vipere”. E ciò diceva, non con la fierezza del superbo, che si leva dritto dalla cintola in su, ma con la tranquilla sicurezza dell'umile, che guarda e, in Dio, conosce a fondo i suoi nemici. 
“Se Dio è con noi chi sarà contro di noi? Si Deus pro nobi, quis contra nos?”. Ed allora ecco l'amico eroico: Diligite inimicos vestros, orate pro persequentibus et calumniantibus vos (amate i vostri nemici, pregate per quelli che vi perseguitano e calunniano! Amate, pregate, fate del bene a quelli che vi odiano! Par di sognare. Siamo circondati da un mondo a cui tali insegnamenti e precetti suonano come insensatezze: è, il mondo, l'aiuola che ci fa tanto feroci. 
Ma Don Orione non sognava, vedeva gli uomini a fondo, nella realtà delle verità eterne: “Omnes nos manifestari oportet ante tribunal Domini nostri Jesu Christi” . (Tutti, senza eccezione, abbiamo da fare i conti con Dio, che vuole amiamo anche quelli che ci sono serpenti: Da indi in qua mi fur le serpi amiche). 
E allora, se Don Orione ci è amico e ci fa del bene, pur conoscendoci a fondo, noi dobbiamo ricambiarlo come amici, benché non possiamo ora conoscere a fondo lui, cioè “tutto il cor che egli ebbe”. Amicizia vuol ricambio di amicizia: l'amicizia vera, non la mala, da cui abbiam pregato Dio che ne guardi. Ed è cantata per loro maggior tortura dai dannati dell'inferno, che ricordano piangendo la stoltezza dell'aver sostenuto che amore a nullo amato amor perdona; no, amore vero a chi male ama amar diniega. Non neghiamo dunque amore al nostro commemorato amico, non si perdoni a prove d'amore. Vos amici mei eritis si feceritis quae praecipio vobis. 
Quelli che l'hanno conosciuto hanno presente la cara immagine paterna, la sua carità, umiltà, innocenza, mortificazione, dolcezza, il suo vivere sempre alla presenza di Dio. Rendiamoci simili all'amico. Quelli che non videro la persona, ne leggano la vita. 
Oh, il bene che fanno queste letture! Don Orione era un lettore appassionato di agiografia, sin da ragazzo; preferiti erano i libri dei Santi, ed i Santi si sforzava di imitare quanto poteva! Oh, il male che fanno le letture cattive! Un giovane signore, passando in mare tra le isole greche, usciva in declamazioni di delirio ai bugiardi e falsi dei dell'olimpo, sì da parere pazzo. Certo gli tornavano a memoria i classici studiati nelle sue scuole. Don Orione quando da giovinetto ebbe in Valdocco sotto gli sguardi i monumenti della carità del Cottolengo e di Don Bosco, davanti a quei due giganti della storia vide impallidirsi tutti i personaggi da lui incontrati nello studio dei classici ginnasiali. E noi ora, alla lettura della vita di Don Orione, acclamiamo alle sue virtù, e imitandone i pensieri, gli affetti, le opere, ormai come amici ragioniamo con lui. 
Facite vobis amicos ut cum defeceritis recipiant vos in aeterna tabernacula; facciamoci amici i Santi, ché dopo il corso di nostra vita ci vengano incontro all'ingresso della beata Patria. 
Un giorno Don Bosco guardò fisso negli occhi il suo giovinetto alunno Orione e gli disse: “Ricordati che noi saremo sempre amici”. 
Valga anche per noi quella frase e ce la dica Don Orione: “Noi saremo sempre amici”. Suoi amici imitandone le virtù, cooperando secondo le nostre facoltà nelle opere da lui istituite; e amici sempre in Paradiso, nella visione e nel godimento di Dio”. 

 

ALBERTO VACCARI



Nato nel 1875, fu compagno di Don Orione al seminario diocesano di Tortona dei cui fervori giovanili fu testimone e beneficiario. “Per grazia di Dio – ricordò poi –, entrai anch'io nell'orbita di Luigi Orione e mi lasciai attrarre dal fascino che emanava dalla sua virtù”. 
Entrò poi tra i Gesuiti e dedicò tutta la sua lunga vita – morì nel 1965, a novant'anni – allo studio e all'insegnamento delle materie bibliche. Fu eminente cultore di esegesi biblica, produsse traduzioni e studi sulla Bibbia di grande valore. Fu consultore del Sant'Uffizio e della Pontificia Commissione biblica. Partecipò come esperto al Concilio Ecumenico Vaticano II. 



Don Orione 

“Una grande epoca sta per venire, ciò per la misericordia di Gesù Cristo Signor nostro e per la celeste materna intercessione di Maria SS. Un monumento grandioso vedo innalzarsi, non fondato sulla sabbia; una colonna luminosa di carità si eleva fondata sulla carità rivelata, sulla Chiesa, sulla pietra unica, eterna, inconcussa: "Petra autem erat Christus".
A questa Era, a questo grandioso e non più visto trionfo della Chiesa di Cristo, noi per quanto minimi, dobbiamo portare il contributo di tutta la nostra vita; per quanto è da noi, dobbiamo prepararla, affrettarla con la orazione incessante, con la penitenza, con il sacrificio e con trasfondere la nostra Fede, la nostra anima, specialmente nelle giovani generazioni, specie di quella gioventù che è figlia del popolo, e che più necessita di religione, di moralità e di essere salvata”. 



Risonanze di Alberto Vaccari

Una nuova epoca! Un'epoca di trionfo per la Chiesa di Cristo! Quanto la sospirano i buoni fedeli, i cristiani fervorosi! La società s'ispira alla dottrina del Vangelo, si dànno a Dio gli onori dovuti, l'opera di Gesù Cristo produce ubertosi frutti, si salvano le anime, le varie classi sociali in amichevole collaborazione collimano al bene comune, i popoli affratellati in pacifica convivenza creano la propria floridezza e non ostacolano l'altrui, Dio regna nelle menti e nei cuori degli individui e dei popoli. Tale è l'immagine che mi formo della nuova era, che i migliori si augurano e l'occhio divinatore di Don Orione intravede. 
È un'utopia? È un ideale troppo bello per verificarsi in questa misera terra? Così penseranno molti, che si potrebbero dire pusillanimi. Ma non è precisamente quello che tante volte chiediamo a Dio nell'orazione domenicale ogni giorno: “Sia santificato il tuo nome, venga il regno tuo”? 
Sarebbe forse che l'avvento di quel felice regno s'abbia da verificare solo nell'altra vita, in cielo, ovvero che Dio non abbia da esaudire in tutto la preghiera postaci in bocca dal suo stesso Figliuolo, partecipe e rivelatore dei divini segreti? 
I Santi nelle cose di Dio vedono meglio di noi comuni mortali, e se un santo della forza di Don Orione vede non lontano lo spuntare della nuova era, possiamo aprire il cuore alla fiducia nella lieta aspettazione. È ben probabile, per non dir certo che nessuno di noi viventi al dì d'oggi vedrà lo stabilirsi in pieno del nuovo assetto mondiale; ma è dovere d'ognuno di concorrere per la sua parte all'avveramento di sì felice previsione, poiché un tanto bene ha da essere il prodotto di un lungo e costante lavorìo delle volontà umane, sotto la guida della Provvidenza, per più e più generazioni. 
La maniera di preparare per la parte nostra lo schiudersi della nuova era, è chiaramente indicata da Don Orione: preghiera, penitenza, sacrificio, zelo. Ma il fermento che deve operare la felice trasformazione della società, quello stesso del resto che ha da pervadere ogni nostra azione in proposito, è la carità, un ardente amore di Dio e del prossimo che guadagna i cuori e discioglie ogni contrarietà. Può la scienza illuminare le menti, può l'eloquenza commuovere gli animi; necessaria è la prima a confondere l'errore, utile la seconda a vincere l'indifferenza o il torpore; ma il trionfo è riserbato alla carità operosa e sacrificata per il bene altrui. 
Già l'aveva osservato l'Apostolo nella prima predicazione del Vangelo, nel primo stabilirsi della Chiesa di Gesù Cristo; non vi figurano i dotti maestri della scienza, non i fecondi artefici della parola, ma quelli della carità di Gesù crocifisso formavano la sostanza del loro messaggio e il modello della loro vita (I Corinti I, 18-25). 
Lo stesso divino Maestro nella sua elevazione in croce, patente prova del suo sconfinato amore per l'uomo, additò la forza di attrazione, che tutti avrebbe attirati a Lui (Giovanni, 12, 32), e nel vicendevole amore volle fosse il distintivo dei suoi discepoli (ivi 13, 35). Sono solenni formule, nelle quali si effondono i più ardenti palpiti del Cuore di Cristo e niuno era indicato a tramandarcele quanto l'apostolo della carità il diletto discepolo, che nell'ultima cena posò il capo sul petto infuocato di Gesù; circostanza che ce le rende più memorabili e care. 
Il modo pratico di esercitare la carità? Può essere infinitamente vario secondo gli uffici, le persone, le circostanze, fra cui ci avviene di trascorrere la nostra vita. Soccorrere un bisogno, lenire un dolore, confortare un animo depresso, dare una mano a chi stenta, prestarsi volentieri a rendere servigio, trattar tutti con garbo e dolcezza, sopportare senza darne segno le noie di persone moleste, non stancarsi di beneficare anche se si è mal corrisposto, né inquietarsi per la ingratitudine umana. Sono atti di cui può essere intessuta la vita quotidiana di ognuno. 
Ma Don Orione ne specifica altri, e più nobili, che suppongono speciali congiunture o condizioni personali. “Trasfondere la nostra fede” con una parola salutare, con una religiosa conversazione, con un consiglio opportuno. L'efficacia della nostra parola, anche senza prendere il tono di predica, sarà tanto più grande, quanto meglio avremo saputo cattivarci il cuore del prossimo con la caritatevole condotta, di cui sopra. I più sensibili ai tratti di affabile carità sono i cuori dei giovani, e sono pur quelli, in cui e più profondamente s'imprimono i nostri ammaestramenti e più fecondi, se pure più lenti, maturano i frutti. 
Don Orione aveva un vero, un santo trasporto per i fanciulli; copia anche in questo del divino Maestro, che, mentre gli Apostoli, infastiditi della puerile gazzarra, allontanavano i ragazzi: “No – disse loro – non li respingete; lasciate che i piccoli vengano a me”. E accolti amorevolmente i giovinetti, se li stringeva al seno e ponendo le sue divine mani sul loro capo li benediceva (Marco 10, 16). Più; levato fra le sue braccia uno di essi e mostrandolo al popolo: “Questi, diceva, sono buoni soggetti per il regno dei cieli; e se voi non ne imiterete la semplicità, la purezza, la docilità non entrerete in quel beato regno”. 
La carità insegnata, con la parola e con l'esempio, da Gesù Cristo dev'essere il fondamento della società rinnovellata. 
Ma Don Orione vede la carità, ancora in altra forma, in seconda funzione. Sulle sue medesime basi s'innalza la carità come colonna, qual monumento maestoso. Che significato ha quel monumento? Esso è il ricordo, anzi la prova, del trionfo di Gesù Cristo e della sua Chiesa, è il documento eloquente della divina origine della Chiesa, il vessillo elevato a vista di tutte le genti, (Rom. I, 5, 12)”. 

 

PAOLO VI 



Giovanni Battista Montini occupa un posto rilevante nella storia della Chiesa e del mondo del XX secolo. Un uomo eccezionale per un tempo eccezionale, il tempo dei grandi mutamenti legati alla riforma del Concilio Vaticano II e dei nuovi equilibri politici, economici e culturali della seconda parte di questo secolo. Fu Papa dal 1963 al 1978. Era nato a Concesio (Brescia) nel 1897. 
Fu molto legato a Don Orione e alla sua Piccola Opera. Egli stesso raccontò del suo primo incontro con il beato Fondatore, ad una riunione degli Amici del Piccolo Cottolengo genovese: “parlò con un candore così semplice, così disadorno, ma così sincero, così affettuoso, così spirituale che toccò anche il mio cuore, e rimasi meravigliato di quella trasparenza spirituale che emanava quest'uomo così semplice e umile”. E poi, nella medesima circostanza commentò con Mons. Franco Costa: “Vedi, Don Franco, noi diciamo delle parole, mentre quando si ascolta Don Orione ogni parola è una semente di vita”. 
Come Sostituto della Segreteria di Stato (dal 1937), incontrò varie volte Don Orione. Come Cardinale a Milano (1954-1963), ogni anno, a S. Ambrogio visitava il Piccolo Cottolengo. Elevato alla Cattedra di S. Pietro ebbe numerosi gesti e parole di bontà verso l'Opera di Don Orione ed espresse più volte il desiderio di poter egli stesso beatificare "l'apostolo della carità". “Saremmo quasi tentati di dire – confidò durante una udienza agli Amici di Don Orione del 2.5.1965 – che fra gli Amici di Don Orione siamo iscritti anche noi. E cioè, abbiamo noi stessi avuto la fortuna d'incontrarlo vivente”. 



Don Orione 

“Qual è il grande segreto per riuscire nelle opere di apostolato, per ottenere dei risultati soddisfacenti nel nostro lavoro? 
Ogni arte ha il suo segreto. Voi, che andate a scuola e avete qualche nozione sull'arte, voi sapete che ogni scuola si differenzia da un'altra scuola. La scuola di Raffaello aveva un dato modo di foggiare le figure, aveva il suo segreto; e così quella di Giotto, di Michelangelo, di Leonardo da Vinci. E così direte anche dei condottieri; ciascuno aveva ed ha un suo segreto per riuscire, per vincere, per raggiungere la cima, per battere il record... 
Ebbene, qual è il segreto per riuscire nell'apostolato dell'educazione cristiana, nel campo della carità cristiana? Ve lo insegnerò in questa sera il segreto. 
Questo segreto è: l'unione con Dio, vivere con Dio, in Dio, uniti a Dio, avere sempre lo spirito elevato a Dio. In altre parole, è l'orazione intensa, secondo la definizione di San Tommaso: essa è il grande segreto! San Tommaso definisce l'orazione "elevatio mentis in Deum": l'orazione è elevazione della nostra mente a Dio”. 



Risonanze di Paolo VI

“Io ho qui – non so se sia il caso di ripeterlo – un verso latino, che mi circola per il cervello e che non mi ricordo più neanche se sia di Virgilio o di un altro. 
È questo, e ve lo traduco subito, cari bambini: Felix qui potuit rerum cognoscere causas". Beato colui che può intuire, conoscere l'origine delle cose. 
Tutte le volte che ci troviamo davanti ad un fatto grande, bello, che si documenta come questo con opere che tutti conosciamo e tutti ammiriamo, e che si iscrive sul suolo di Milano, fra i monumenti più moderni, più completi, più eloquenti della sua vitalità provvida e benefica, com'è l'Istituto di Don Orione, tutti abbiamo una curiosità: com'è che è avvenuto questo? dov'è la causa? qual è la fonte? come ha potuto essere? 
Perché, sì, ci incanta, ci diletta la esposizione, la scena esteriore delle cose. Il vedere delle cose alle quali i nostri sensi, la nostra diretta esperienza può aderire, ci fa grande piacere. 
Per chi conosce quant'è difficile realizzare, quanto è arduo il condurre a termine, che cosa costa costruire, come si fatica ad organizzare e soprattutto come si stenta e si pena a mandare avanti le cose che non hanno bilancio, che non hanno una rendita, che non hanno fondi propri, che non mercantilizzano la loro carità e la loro assistenza; per chi sa tutto questo, vien fatto di chiedere: ma, allora, dov'è il segreto? 
Il segreto di tanti sviluppi l'abbiamo già individuato, vi è spiegato qui con l'immagine che vi è posta davanti: è il segreto di un uomo di Dio, e non forziamo certo la mano e il giudizio della Chiesa, dandogli umanamente il titolo di santo... 
È la santità che ha reso possibile queste cose, questa energia misteriosa e potente, questo innesto di forze arcane e superiori con le più devote, le più eroiche donazioni della capacità umana a corrispondervi. È questo fenomeno, umano e divino insieme, che si chiama appunto la santità, che ci sembra senza fallo di poter individuare come l'origine di questa bellissima Opera che onora Milano, consola i poveri, organizza la carità, e oggi ci riunisce in questo giubilo di celebrazione. 
Contando gli anni, ci par di contare tutte le opere buone compiute, tutte le speranze non andate deluse, tutte le preghiere esaudite ed anche tutte le speranze che questo grande passo compiuto sembra ancora contener con sé verso l'avvenire per quei cinque e cinque lustri che poco fa l'oratore qui presagiva. 
Don Orione! 
Arrivati a Lui si direbbe che tutto è spiegato. 
Quando c'è di mezzo un'energia così, quando c'è di mezzo una psicologia di questi che hanno la statura superiore agli altri, di questi giganti della bontà e della beneficenza, allora le cose sono possibili. 
Ma guardate che, dicendo questo, noi non facciamo che trasferire la nostra curiosità da un orizzonte vago e indefinito ad una persona, la persona di Don Orione. E non siamo che alle soglie del segreto, perché dovremmo spiegare perché Don Orione e non altri ha potuto fare questo; e perché i suoi Figli ancora hanno la stessa capacità, e non si chiamano più Don Orione, ma ne vivono lo spirito. 
È vero? 
Ah, è segno che c'è un fluido che corre, è segno che c'è una specie di energia spirituale. Che passa da persona a persona, che si conserva là dove lo spirito è genuino e si potenzia di nuovi rapporti umani: che son sacrifici, che son dedizioni, che sono notti insonni, che sono veglie continue, che è umiltà, che è tutta questa profusione della carità cristiana. 
Lo spirito si accende anche di questo olio umano e i miracoli della carità si ripetono e si verificano”. 

 

CARLO GNOCCHI 



Nacque a San Colombano al Lambro nel 1902. Ordinato sacerdote nel 1925, svolse il suo primo ministero sacerdotale a Milano. La sua vita fu segnata dall'esperienza come cappellano militare della divisione "Tridentina" degli Alpini sul fronte di guerra albanese e russo. Terminata la guerra, si dedicò all'opera di assistenza ai bambini mutilati e orfani per i quali fondò, nel 1946, la "Pro juventute". Per essi aprì case ad Arosio, a Monza, a Pessano; l'opera poi si diffuse in altre regioni italiane. Ricevette numerosi attestati di benemerenza per l'attività assistenziale svolta. Morì a Milano nel 1956. 
Don Gnocchi incontrò in diverse circostanze Don Orione e ne restò conquistato. "Devo esclusivamente a Don Orione – ebbe a riconoscere – se la mia vita si è indirizzata sulle vie della carità, perché gli uomini dilaniati da una guerra tremenda ha soprattutto bisogno di affratellarsi per risparmiarne le ferite profonde e per ricostruire una nuova società". Fin dai primi difficili avvii della casa di Arosio, l'orionino Don Giovanni Casati, coadiuvato da alcuni chierici, fu braccio destro di Don Gnocchi. Il 19 marzo 1948, i "mutilatini" di Don Gnocchi passarono dalla casa di Arosio all'Istituto di Don Orione a Milano. 



Don Orione

“Nella visita fatta a Venezia ho veduto i nostri orfani assai affezionati ai loro Assistenti e Maestri, e ciò mi ha fatto piacere; così mi ha fatto piacere vedere alcuni che si sono fatti quasi Veneziani per meglio riuscire a fare del bene, e altri che si facevano piccoli per avere in mano il cuore dei piccoli. Di S. Filippo Neri è detto, in una lapide sul Gianicolo a Roma, là sotto la storica quercia, che egli "seppe farsi piccolo coi piccoli sapientemente".
Questo è il nostro spirito, o miei cari figli in Gesù Cristo! Con ogni pia e santa e fraterna industria, dobbiamo avvicinare il cuore dei giovani e farci come ragazzi con essi e, raccomandandoci a Dio, prendere in mano, con grande riverenza, l'animo dei giovanetti a noi affidati, come farebbe un buon fratello maggiore con i fratelli più piccoli. 
Avviciniamo i giovani come piccoli fratelli nostri, unendo al dolce, alla mitezza e bontà anche quel contegno dignitoso – ma non abitualmente severo – che valga a conciliarci la loro benevolenza. In tutto facciamo loro comprendere che vogliamo il loro verace bene, e che li vogliamo morali, cristiani, educati, civili e formati, tali da essere di onore a sé, alla famiglia, alla loro città e alla Patria”. 



Risonanze di Carlo Gnocchi

Poche volte, in verità, ho avuto la fortuna di incontrarmi con Lui (ed ora ne provo un pungente rammarico, che è quasi dispetto contro la mia pigrizia. Avere un santo a portata di mano e non approfittarne... D'altra parte, chi mai avrebbe potuto pensare che il Signore ce lo avrebbe tolto così presto!), ma la sua figura si è profondamente incisa nel mio ricordo. Alcuni tratti della sua persona fisica avevano un rilievo luminoso e rivelatore di una potente interiorità. 
Lo sguardo anzitutto. 
Gli occhi di Don Orione! Averli visti significa non dimenticarli mai più. Se il suo abito dimesso, l'atteggiamento raccolto, il volto dai tratti comuni potevano farlo passare a prima vista come un buon prete di campagna, bastava che alzasse gli occhi dall'abituale raccoglimento, perché ci si trovasse di colpo in presenza di una personalità d'eccezione. Era come una scoperta improvvisa. 
Aveva due occhi grandi, neri, caldi, ma fermi e profondi, di una dolcezza viva e fiammeggiante. Mentre però gli occhi degli uomini grandi conturbano e impongono la loro superiorità, quelli di Don Orione facevano bene, un bene dolce, calmo e profondo. Quando egli ti guardava, ti sentivi avvolgere e penetrare da un alone di calore intimo, di interesse amoroso e di bontà compassionevole. Pur sentendotene penetrato fino all'anima non ne pativi pudore, anzi sentivi bisogno di mostrargli le tue pene e le tue miserie, sicuro di averne compassione e conforto. Il suo era uno sguardo d'amore. 
Anche la sua voce aveva un'emergenza non comune. Aveva il timbro inconfondibile della profondità spirituale ed un costante carattere d'animo. Ecco perché anche le parole e le cose più comuni acquistavano sulle sue labbra un potere misterioso di commozione, di novità e di indelebilità. 
Forse poteva colpire in un uomo contemplativo e di orazione come lui la facilità della parola nella conversazione. Ne fui a tutta prima sorpreso anch'io. Notai però che parlava solo se interrogato; allora, dal suo silenzio umile e meditativo, erompeva pronta e generosa una parola calda, affettuosa e spesso abbondante. Certo la parola era per lui un altro dei "servizi" per il prossimo. 
Anche le sue mani facevano pensare; quelle mani che avevano la compostezza naturale della preghiera e si muovevano così parcamente, direi timidamente, nella conversazione. Erano mani solide e rudi di lavoratore, di costruttore anzi, che parevano atte a trattare ed a piegare la materia concreta ed inerte. Quante case infatti e istituzioni, in breve volgere di anni, erano sorte miracolosamente per opera di quelle mani di operaio instancabile della carità di Cristo! 
Di tutte queste tre cose insieme ricordo l'eloquenza irresistibile e commovente, nel suo primo discorso agli amici milanesi dell'opera sua, nell'Aula Magna dell'Università Cattolica. 
Il Senatore Cavazzoni l'aveva preceduto parlando di lui e dello sviluppo prodigioso dell'opera sua in Italia e nel mondo. Intanto, dal suo scranno, l'interessato dava segni visibili di impazienza e di disappunto. Appena disceso l'oratore, Don Orione montò di scatto sul podio. "Non gli credete – disse con impeto quasi audace – tutto quello che il Senatore ha detto è una bugia! Io non ho fatto niente, è la Provvidenza che ha fatto tutto. Io sono un sacco di stracci, nient'altro che un sacco di stracci; un sacco di stracci, capite!". 
La sua voce in quel momento si era fatta alta, sdegnata, quasi dolorante; le mani tremanti malmenavano convulsamente la povera talare sul petto ansante; e gli occhi accesi erravano sull'assemblea sorpresa e commossa ad implorare credenza. 
Poi si tacque un poco spossato ed umiliato. 
I nostri occhi erano velati di pianto ed il cuore si era fatto piccino e spaurito. Forse era la prima volta che s'era affacciato sull'abisso dell'umiltà convinta e sofferta dei santi.

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