Cronaca dell'addio di Don Orione (Parte I)

E' riportata la prima parte dello studio pubblicato con il titolo "Cronaca dell'addio" (Velar, 2016). Ricostruisce come Don Orione visse il declino della sua vita con i problemi di salute che andarono aumentando negli ultimi tre anni di vita fino alla morte avvenuta a Sanremo il 12 marzo 1940.
L'ADDIO DI DON ORIONE
di don Flavio Peloso
INTRODUZIONE
Il genere letterario “cronaca” risponde al progetto di ricomporre cronologicamente gli ultimi giorni di vita di Don Orione e i successivi giorni del trionfo di devozione popolare durante le varie tappe del percorso del suo Corpo da Sanremo a Milano a Tortona.
Abbiamo utilizzato le numerose testimonianze, gli appunti e i diari di molti testimoni oculari che descrivono dettagliatamente gli avvenimenti. Sono testi scritti per motivi affettivi o per devozione personale o per dare testimonianza su Don Orione durante il processo di canonizzazione. Le testimonianze hanno in comune l’aderenza ai fatti perché motivate dalla volontà di conservare quanto visto e toccato di una persona santa e di un evento eccezionale.
Pur avvalendoci di molti testimoni, ci sono due interlocutori principali della nostra cronaca: Giuseppe Zambarbieri e Modesto Schiro. Essi furono particolarmente partecipi agli eventi riguardanti il Fondatore e ne hanno redatto una relazione molto minuziosa e precisa.
Il primo, Giuseppe Zambarbieri,[1] all’epoca dei fatti era un giovane universitario di 26 anni, chierico e segretario di Don Orione, incaricato di “seguirlo come un’ombra in tutti i suoi spostamenti” a partire dal 1° aprile 1939, giorno della grave crisi cardiaca occorsa ad Alessandria. Fu accanto a Don Orione fino all’8 marzo 1940, giorno della sua partenza da Tortona per Sanremo. Poi accompagnò l’itinerario della sua Salma da Sanremo al santuario della Guardia di Tortona per la sepoltura, il 19 marzo.
Il secondo testimone è Modesto Schiro[2] era un chierico di 42 anni; come infermiere si occupò di Don Orione con continuità. Fu compagno e custode di Don Orione dal momento della sua partenza in treno da Tortona, il mattino del 9 marzo, fino al suo ultimo respiro, a Sanremo, alle 22.45 del 12 marzo 1940.
A comporre i molti tasselli della cronaca concorrono molte altre testimonianze confrontate e integrate tra di loro, privilegiando quelle di chi fu protagonista più diretto e bene informato dei singoli fatti.[3]
Lo studio è diviso in due parti: cronaca dell’addio di Don Orione e cronaca dell’addio a Don Orione.
La cronaca dell’addio di Don Orione inizia con la prima grave crisi di cuore avuta da Don Orione a Gardone Riviera (Brescia), il 23 settembre 1938. È a partire da questo fatto che egli ebbe il chiaro segno e la convinzione che la sua vita stava per concludersi in tempi brevi. Come di fatto avvenne. L’attenzione della nostra cronaca si concentra sull’ultimo suo mese di vita e, con maggiori dettagli, sull’ultima settimana, iniziata a Tortona, il 6 marzo dando l’addio a luoghi e persone care, e conclusa con la morte a Sanremo, il 12 marzo 1940.
La cronaca dell’addio a Don Orione va dal momento della morte a quello della sepoltura, le sera del 19 marzo 1940. Descrive il commiato dato da confratelli, amici, devoti e dalle folle nelle città di Sanremo, Genova, Milano e nei borghi grandi e piccoli della Riviera Ligure, della Lomellina, del Pavese e dell’Alessandrino e infine nella sua Tortona. Le testimonianze personali, i resoconti scritti, gli articoli di giornale sono abbondanti di particolari descrittivi e anche di annotazioni sul clima e sullo stato d’animo con cui furono vissute quelle imponenti manifestazioni.
Assicurando che la ricostruzione degli eventi sulla base delle testimonianze in nostro possesso è attendibile e ci rende realisticamente partecipi ai fatti e al clima sia dell’addio di Don Orione e sia dell’addio a Don Orione, diversamente e complementariamente interessanti, invito alla lettura.
1938-1939: il declino della salute e il vigore dell’anima
Don Orione era tornato nell'agosto 1937 dal Sud America con la salute scossa dalle fatiche di quei tre anni e anche dai 64 anni di età. Da vari anni soffriva di diabete e di mal di reni. Si manifestarono anche i primi disturbi di cuore.[4] Pur in quelle condizioni continuò a prodigarsi, per nulla turbato e senza affatto preoccuparsi di sé.
Don Carlo Sterpi fece notare il suo sacrificio ai chierici del Paterno per richiamarli all’impegno: “Vedete, il signor Direttore come va sempre, come va sempre... Sembra che sia venuto dall'America più giovane di prima, tanto non sa star fermo e si dà attorno per il nostro bene e per il bene della Congregazione e di tanti poveri. Vedete che non è neppure più padrone di se stesso, perché tutti lo vogliono, tutti lo cercano ed egli per fare del bene va sempre e non dice mai di no. Chi sa come fa a resistere a questa vita. Qualche volta ce lo portano a casa moribondo: voi non sapete tante cose, non sapete che egli sta male tanto, di cuore. In realtà – conclude il ricordo don Giovanni Venturelli - noi non sapevamo, come invece si seppe di lì a qualche mese, che il Servo di Dio, il 23 settembre 1938, mentre ritornava dal visitare la benefattrice Enrichetta Negrinotti a Gardone Riviera, si era sentito male”.[5]
Che avvenne?
Don Orione ebbe un primo terribile attacco di angina pectoris a Gardone Riviera il 23 settembre del 1938, ove era andato per vedere una villa offertagli dalla signora Enrica Negrinotti di Milano.
La villa della signora era in alto e bisognava fare una salita per giungervi: vi arrivò sul mezzogiorno e vi si trattenne fino alle 16; discese poi, da solo, al porto del lago per imbarcarsi. Nella discesa non si sentì bene.
Don Orione raccontò l’accaduto nella Buona notte del 25 settembre.
“Io l’altro ieri, sono stato a Gardone sul lago di Garda... Discendendo da questa villa, tutto ad un momento, entravo in paese che ha molti alberghi…, io non mi sono sentito bene; il cuore era come se cascasse, e io ho lasciato là la valigetta e il soprabito. Ho chiesto se c’era lì vicino un gabinetto perché avevo una grande pressione al cuore e, per di più non potevo respirare. La persona che stava a custodia dei gabinetti comprese il mio male e disse: ‘Le vado a prendere un caffè’. E mandavo colpi di tosse e, ad ogni colpo di tosse mandavo fuori saliva e sangue. Io pensavo alla morte e sudavo freddo”.[6]
“Non si reggeva in piedi - ricordò poi la stessa custode - ma aveva tanta premura di partire”. Ripresosi, Don Orione riuscì a salire sul battello e poi sul treno e nel cuore della notte arrivò al Piccolo Cottolengo di Milano.[7]
Dopo questo primo preoccupante episodio, Don Orione non si sgomentò, continuò a buttarsi nelle sue opere di bene con slancio e generosità, ma la fatica si faceva sentire sempre più grave. Nei mesi successivi, gli succedeva spesso di passare qualche ora della notte seduto sul letto, in preda a dolorose soffocazioni, ma continuava ugualmente il suo consueto ritmo di lavoro, senza alcuna sosta. C’erano anche altri acciacchi degli anni che lo facevano molto tribolare e gli cagionavano sofferenze, penosi disturbi e non poca umiliazione.
Il 22 gennaio 1939 tenne all’Università Cattolica di Milano la famosa conferenza dal titolo La c’è la Provvidenza, un inno di fiducia in Dio commentando I promessi sposi di Alessandro Manzoni.[8] Il senatore Stefano Cavazzoni, che organizzò quella conferenza, testimoniò: “All'uscita dall'Università cattolica, stretto da una folla che non voleva lasciarlo, io vidi i professori di università e non solo di quella di Milano, inginocchiati a terra, fusi ad operai, industriali, impiegati, a povere donne, a dame dell'aristocrazia, per avere il saluto e la benedizione”.[9] Le foto ritraggono un Don Orione sofferente oltre che quasi umiliato da tante manifestazioni di plauso alla sua persona.
1 aprile 1939: il primo attacco di cuore
Il venerdì 1° aprile 1939, sopravvenne un attacco cardiaco mentre stava viaggiando in auto con don Enrico Bariani, ad Alessandria. Cedette come di schianto e fu portato all’ospedale di Alessandria più morto che vivo. Fu il dott. Siro Mazza ad accoglierlo in ospedale e a praticargli la prima assistenza.
Don Sparpaglione testimonia: “Ad Alessandria, si era recato per un impegno riguardante la fondazione del nuovo Istituto Artigianelli. Don Enrico Bariani, che lo accompagnava nel traversare in macchina la piazza Marconi, vide Don Orione improvvisamente abbandonarsi sulla spalliera in preda ad affanno. Prontamente balzò di macchina, corse in un vicino caffè e procurò un cordiale, ma Don Orione lo ricusò e disse: «A casa, a casa, a Tortona!». Don Bariani imboccò via Roma e si fermò davanti ad una farmacia dove, per caso, c'era un medico, il quale, constatate le allarmanti condizioni, ordinò di ricoverarlo in ospedale ad Alessandria.
Attorno a lui accorsero sacerdoti, medici, suore e il Vescovo di Alessandria. Chiese la santa Comunione e volle a tutti i costi celebrare la santa Messa, appena fu in grado di sostenersi. Appena poté riprendersi, confortò tutti con la sua serenità di fronte alla morte che lo aveva sfiorato, e a un dottore che lo assisteva disse scherzando: «Dottore, sono piemontese, ho la testa dura». E a una suora che trepidava disse: «Ma perché vi affannate tanto? Non è ancora venuta la mia ora».
Il primario dell’ospedale, il professor Andrea Manai, gli disse: “Questi attacchi si ripeteranno due, tre volte, finché Ella soccomberà”.[10]
Passati pochi giorni di cura e di amorosa assistenza, parve rimettersi. Nei pochi giorni di degenza ospedaliera, Don Orione dimostrò un tale senso di forza morale, di bontà e di rassegnazione, da destare ammirazione in tutti quelli che in quei giorni lo circondavano. Quando, dimesso dall'ospedale, tutti gli si strinsero attorno nel corridoio del piano della direzione, era pallido, ma sereno e sorridente: “Vedete che sono ancora qui?”, “Le vostre preghiere mi hanno aiutato a... tornare indietro”. Disse proprio così.[11]
Era il 7 aprile, venerdì della settimana santa, quando Don Orione fece ritorno a Tortona.[12] Cantò la santa Messa a San Michele il giorno dopo, sabato santo. Ai molti auguri pervenutigli rispose con una lettera dove era questa frase: «Sono risuscitato. Ave Maria e avanti!». Nello stesso giorno, ancora debolissimo, si fece portare a Sarezzano per una visita alla salma del padre del confratello don Dante Mogni.[13]
Nel giorno di Pasqua, a pranzo con i suoi, si lasciò andare a qualche confidenza: “Quando io sentivo, una settimana fa, la morte che mi pendeva sopra il capo, come una spada di Damocle, due cose solo mi balzarono alla mente. La prima è di non essere stato così esigente nella formazione dei chierici, cioè nella vostra formazione. E l’altra cosa è di non essere stato così esigente nella formazione di me stesso; anzi questa è la prima cosa. Il resto non mi dava a pensare”.[14]
Maggio-dicembre 1939: “Questo benedetto cuore che non vuol più tirare!”.
Le raccomandazioni dei medici a Don Orione, in quei giorni, furono molte. Le accolse con animo riconoscente, con la migliore volontà di metterle in pratica. Si usò qualche riguardo in più, nei primi giorni. Accettò che il giovane Giuseppe Zambarbieri lo seguisse come un’ombra in tutti i suoi spostamenti. Ogni tanto lo si vedeva mettersi le mani sulla parte del cuore, come per procurarsi un sollievo.[15] Il lavoro cui doveva far fronte era enorme. Le richieste erano assillanti e continue, da ogni parte. Come avrebbe potuto sottrarsi? Come tenere un regime di quiete, mentre urgevano tali e tante responsabilità?
Continuò nei suoi impegni. Furono ancora mesi belli per Don Orione che godeva di poter fare, andare, parlare come nei tempi migliori.
Il mese di maggio 1939 fu di gioie e di fatiche straordinarie. Fu a Fumo per l’apertura del nuovo Santuario della Madonna di Caravaggio, prestandosi anche a predicare e confessare, e a Genova - Molassana, per l’inaugurazione di Villa Santa Caterina per nobili decadute. A giugno e luglio fu più volte a Roma. In agosto fu a Villa Moffa per gli esercizi spirituali.[16]
Il giorno della festa della Madonna della Guardia, il 29 agosto del 1939, appariva come sfinito. Scese a tavola, sotto il famoso tendone, e trovò la forza per pronunziare parole piene di entusiasmo santo e di calore. Volle poi seguire la processione, ma non resistette. Quando si arrivò all’altezza della chiesa di S. Rocco, uscì dal corteo, scese per il vicolo che porta in via Mirabello e fece una sosta al Paterno; di lì, raggiunse il Duomo, ma era disfatto e cereo. Non stava bene e si trascinava, soprattutto nel fare le scale.
Momento di grande gioia per Don Orione fu l’udienza avuta con il nuovo Papa Pio XII, il 21 settembre. “Mi ha ricevuto, non dico con benevolenza, non dico con paterna bontà, perché sarebbe poco. Non trovo parole per esprimere l’accoglienza benevola del Santo Padre. Mi sono dovuto raccogliere quella sera in preghiera, tanto era stato il gaudio trasfuso in me, per la grazia del Signore, dall’udienza papale. Ho detto al Santo Padre, mentre Lo ringraziavo della benevolenza usatami, che volesse avere la bontà di mantenerci il Padre Visitatore,[17] almeno fino al giorno dopo che sarò morto io, e che voglia continuare la benevolenza ai Figli della Divina Provvidenza anche dopo la mia morte, poiché, in certe ore, mi sento quasi mancare”.[18]
I mesi di settembre e ottobre passarono in continua alternanza del male. Però lui stava “Benone!”, come rispondeva a chi gli chiedeva del suo stato di salute, alzando la testa e sorridendo, quasi fosse nel pieno vigore delle sue energie. L’11-13 novembre, tenne un piccolo corso di predicazione a Villa Solari, in Genova, iniziando l'opera dei Ritiri Minimi.[19]
Il 27 novembre 1939, tornando in treno da Roma a Tortona, dovette trasbordare vicino a Sestri Levante, a causa del deragliamento di due treni merci. Era l’una di notte, piovigginava. Don Orione si prese una forte costipazione. Fu costretto all’immobilità per diversi giorni e passò il mese di dicembre con problemi ai polmoni, con tosse e con espettorazione sanguigna.[20]
Il 9 dicembre gli giunse la notizia della morte improvvisa di un suo giovane chierico di 18 anni, a Villa Moffa, e volle recarsi a confortare i chierici suoi compagni. Tornando a Tortona, commentò: “Ho assistito stamattina alla visita del medico che cercò le cause: paralisi cardiaca! A 18 anni! Come si fa presto a morire! Prima ancora di trovarmi davanti alla salma del c hierico io ho pensato: Questo Chierico è morto al mio posto, ed è morto di paralisi cardiaca, lo stesso male per cui, in parecchi momenti, mi sono trovato io, tra la vita e la morte. Per questo benedetto cuore che non vuol più tirare! Guardando il morto, una voce mi diceva: Forse questo Chierico è morto al tuo posto, di paralisi cardiaca, il male di cui 99 su 100 morirò anch’io, dopo tutto quello che mi è capitato”.[21]
L’11 dicembre era a Milano, per un incontro con amici e benefattori del Piccolo Cottolengo Milanese. Si lasciò andare a espressioni di particolare giovialità e fiducia nella Divina Provvidenza. “I nostri tesori saranno i ciechi, gli sciancati, i rachitici, i deficienti; i bambini deformi saranno le perle, i fratelli più cari. Io passerò, voi passerete; sopra di noi sorgerà il Piccolo Cottolengo. Quando il Signore mi chiamerà a Lui, oh io lo so che cosa dirò, invocando perdono per i miei peccati: presenterò al Signore tutti questi poverelli e chiederò misericordia per il bene loro fatto e portato”.[22]
I momenti di intimità familiare erano di grande conforto per Don Orione e per i confratelli. Come alla vigilia del Natale di quel 1939, per esempio, quando si fermò a conversare più a lungo. “A conclusione, dopo cena – riporta un resoconto scritto – i sacerdoti gli chiedono la benedizione natalizia ed egli dice: Una benedizione grande scenda su tutti voi. Il canonico Perduca, sentendolo tossire, gli dice: Non andate a dire la Messa a mezzanotte perché non state bene. E il Signor Direttore risponde: È l’ultima Messa che dirò a mezzanotte (si ride… ma era vero)”.[23]
Leggendo le trascrizioni dei suoi discorsi e conversazioni di quei giorni di dicembre, balza agli occhi la serenità, quasi la giocondità, con cui Don Orione parla ai confratelli. Gli incaricati a scrivere quanto egli diceva, in più occasioni, dopo certe sue arguzie e facezie, annotano: “si ride”. Prima delle parole della Buona notte del 27 dicembre, una nota dice: “È vispo fuori dell’ordinario”.[24]
Il 5 gennaio 1940, si recò a Seregno per la tumulazione della salma della signora Cornelia Tanzi, moglie di Pasquale Pozzi, caro amico e benefattore. Per strada, poco prima di Monza, nuovamente non si sentì bene. Fece fermare la macchina e si trattenne alquanto. Si riprese e riuscì ad arrivare a Seregno ove tenne un bel discorso.[25]
Il giorno seguente, festa dell’Epifania, Don Orione parlò alla meditazione della comunità. Le note del Diario riportano: “La Messa è alle sette: il Signor Direttore non può più alzarsi presto come prima. Ha dovuto cedere! A pranzo, i chierici bandisti hanno suonato alcune marce e una "Pastorella": Don Orione durante quest'ultima era molto lieto e... batteva il tempo a don Sterpi che naturalmente sorrideva. Alla fine dice: Suonateci ancora una volta un po’ di ‘presepio’ che poi andiamo! E si è fatto il bis”.[26]
A chi gli raccomandava di riposare, di ritirarsi in una casa tranquilla, diceva: “Se mi si impedisce di lavorare, mi si farebbe morire anche prima”.
Nella Buona notte del 19 gennaio 1940, raccomanda: “Noi, Figli della Divina Provvidenza, dobbiamo vivere di fede: sarebbe ironia chiamarsi Figli della Provvidenza e non vivere di fede. Ma non una fede morta, blanda, una fede tarda, una fede tiepida, ma viva, ma fervida, ma operosa! Dobbiamo essere anime operose: nulla dies sine linea; nessun giorno deve passare senza un'opera buona, senza un'opera ispirata ad una fede viva, una fede attiva, una fede che sia irradiazione della luce di Dio. Videant opera bona et glorificent Patrem qui in coelis est. Vedano i vostri fratelli le opere vostre e diano gloria non a voi. Siate anime operose! Siamo anime operose, anime luminose, anime calde di amor di Dio e anime calde verso i nostri fratelli! Providentes bona non solum coram Deo sed etiam coram omnibus!”.[27]
La domenica 28 gennaio, mentre si trovava a Genova, Don Orione si sentì male nuovamente. Ormai il cuore e i polmoni non reggevano più. Se ne rendeva conto.
A Milano, il 6 febbraio, fu a salutare il card. Schuster e al Piccolo Cottolengo ricevette un gran numero di persone.[28] Alla sera, dopo avere stentato più del solito a salire la lunga scala che nella stazione centrale di Milano immette ai binari, quando finalmente fu in cima e gli riuscì di articolar parola, disse con un filo di voce a Zambarbieri: “Vedi? Il mio povero cuore è proprio come una corda logora: si tira, si tira, finché finirà per spezzarsi”.
9 febbraio 1940: la crisi cardio-polmonare.
La sera dell’8 febbraio 1940, Don Orione ritorna al Paterno di Tortona da Genova ove era stato per il solito appuntamento del giovedì. “Il giovedì 8 febbraio a Genova, mi portarono in giro e mi stancai forse un po’ troppo. Ritornai qui alla sera, mi sentivo affaticato, ma senza tuttavia avvertire sintomi allarmanti”.[29] I confratelli lo vedono salire le scale dalla portineria al primo piano, afferrandosi alla ringhiera, sostando quasi ad ogni scalino. Nel suo saluto, il sorriso non riesce a togliere il velo di sofferenza che gli copre il volto. Stenta a prendere qualcosa per cena. Tutti lo guardano e si guardano preoccupati.
Non manca però alle preghiere della comunità e alla fine dà la Buona notte. Parla di santa Scolastica, della quale ricorre la memoria il giorno seguente, e di San Benedetto suo fratello. Conclude: “San Benedetto volle morire in piedi, in piedi... non potendo più reggersi, i suoi discepoli lo ressero piangendo. E noi, o cari chierici, dobbiamo morire d'in piedi, guardando il cielo, lavorando… Che bella cosa morire d'in piedi!”.[30]
Durante la notte, verso le quattro e mezzo del 9 febbraio 1940, ha un violento attacco di angina pectoris con senso di soffocamento. “Nella notte, fui colpito da un attacco cardiaco insolitamente violento. Ebbi appena la forza, nella stretta del male che mi soffocava, di chiamare soccorso”, ricorda Don Orione.[31]
Suda ansimante. Don Camillo Bruno, l’infermiere che lo veglia, accorre per i primi aiuti. Si diffonde la voce allarmata: “Don Orione sta male”. Arrivano don Carlo Sterpi, gli altri confratelli e il dottor Guido Codevilla, medico di famiglia del Paterno.
Don Orione si riprende un poco e mormora: “il santo Viatico”. Don Camillo Bruno scende nella chiesa di San Michele e il malato riceve il Santissimo con viva pietà, affaticato ma cosciente, senza parlare. Qualche istante dopo chiede l’Unzione degli infermi. Al termine, solleva alquanto il capo e sussurra: “Va meglio”.[32]
Dopo i soccorsi medici immediati, arriva il professore Andrea Manai, primario dell’ospedale di Alessandria, che gli pratica un salasso.
Tormentato dall’arsura, Don Orione chiedeva sovente qualche pezzetto di ghiaccio, facendo segno con la mano. Ad un certo momento chiese una corona ed espresse il desiderio che gliela mettessimo al collo.
Solo il giorno dopo fu dichiarato fuori pericolo. Fu deciso il trasferimento dalla sua stanza fredda alla stanza dell’orologio, vicino alla cappella.
Seguirono giorni di grande preoccupazione per le ripetute crisi respiratorie e di angina pectoris.
Ricevette le visite di don Roberto Risi e don Gaetano Piccinini, venuti appositamente da Roma”, ricorda don Adriano Calegari. “L’abate Emmanuele Caronti, il Visitatore Apostolico, arrivò ed entrò in camera in punta di piedi. Don Orione si accorse della sua presenza e, con voce stentata, esternò la propria meraviglia e riconoscenza per tanta degnazione.
Il miglioramento andò via via accentuandosi, finché nel consulto del 14 febbraio pomeriggio il prof.. Manai, cedendo alla viva insistenza di Don Orione, gli permetteva di alzarsi. “L’indomani, giovedì 15 febbraio, Don Orione poteva così celebrare la Santa Messa nella Cappellina del Paterno e a noi parve, rivedendolo all’altare, di rinascere con lui, dopo giornate di così ansioso tormento. Si sperò che potesse rimettersi in breve tempo e riprendere così tutta intera la sua infaticabile opera di bene. Era ormai tornato al suo lavoro di tavolino e le giornate – per quanto costretto al regime che i medici avevano ordinato – erano già piene di attività”.[33]
Alla sera del 17 febbraio 1940, Don Orione raduna nella sua cameretta i sacerdoti presenti in casa: don Curetti, don Gatti, don Genovese, don Toso, don Simonelli, don Orlandi, don Cardona.
“Appena entriamo mi dice di prendere una scatola di caramelle e vuole che ne offra ai sacerdoti almeno una per occhio, dice. (si ride) Egli dal letto parla a bassa voce. Fa una pausa: Già da qualche tempo non ci siamo più trovati tutti insieme. Ho desiderato di passare un momento con voi”. Don Orione parla confidenzialmente dei prossimi ordinandi, raccomanda la puntualità alla meditazione, fatta insieme, perché “si tratta di dar gloria a Dio con la comunità”. Poi fa l’elogio di don Alice e don Bidone. “Vedete che buon esempio dà ai chierici quel Zambarbieri”. E prosegue: “Dopo quel colpo di mal di cuore che mi è capitato, mi sono sforzato, non ve lo vorrei dire, di celebrare almeno a voi la Santa Messa. Si è detto che lo facevo perché non dormivo di notte. Ma questa non è la prima ragione: la prima ragione è quella di essere con la comunità e per darvi buon esempio. Non è mai troppo il bene che si fa per il Signore... Spero, fra qualche giorno, di essere con voi alla meditazione e a celebrarvi la Messa. Io non so cosa hanno stabilito, ma pare che mi vogliono impacchettare per spedirmi non so dove; vuol dire che saremo uniti in ispirito, ed in Paradiso saremo uniti. Vedete! Prima vi ho dato il dolce, e adesso... (sorride) Ma anche questo deve essere dolce...”. Inizia una conversazione scherzosa con don Curetti e, infine, augura la buona notte.[34]
Il giorno successivo, 18 febbraio, Don Orione poté alzarsi e unirsi alla vita della comunità. Aprì il suo cuore con particolare confidenza con il discorsetto di Buona notte.
“In questi giorni facevo un po’ di filosofia della storia dei passati giorni, e, un poco manzoniano, sono andato all'ultimo capitolo dei Promessi Sposi, e là il Manzoni è andato a far cercare da Renzo e dalla sua buona moglie Lucia, la ragione come mai fossero capitate loro quelle vicende, più dolorose che liete. E così il Manzoni cavò il succo del romanzo, in un modo alto e degno. E anch’io pensavo a cavare il succo da quello che è capitato a me e alla casa vedendo in tutto la mano, la voce di Dio: Dominus est. Iddio parla con la vita e con la morte, con la gioia e con il dolore. Tante sono le vie di Dio per mezzo delle quali manifesta la sua volontà.
E mi è andato il pensiero ad un passo di San Paolo che scriveva così al suo diletto Timoteo: Attende tibi et doctrinae; insta in illis. Hoc enim faciens et te ipsum salvum facies et eos qui te audiunt. Attendi a te e all'insegnamento. Persevera in questo; poiché ciò facendo, salverai te stesso e quelli che ti ascoltano (Tm. 4, 16).
Attende tibi: pensa a te, rientra in te! Questo è il primo monito che il Signore ha voluto darmi nella malattia. Rientra in te, cioè pensa di più all'anima tua, pensa di più a compiere in te la volontà del Signore. Questo è il supremo negozio per cui il Signore ci ha creato e redenti, per cui ci ha concesse tante grazie: la gloria di Dio nella santificazione dell'anima nostra; cercare la gloria di Dio nella santificazione delle nostre anime. (…)E stasera ho pensato di fare parte anche a voi di queste riflessioni, a voi che avete molto pregato in questi giorni per la mia conservazione, poiché io devo alle vostre preghiere se respiro e vivo. Ed ho fiducia che voi continuerete a pregare per la mia sincera, vera e totale conversione. Sicché ho pensato di darvi questa prima Buona notte dopo la mia malattia… Io vidi la morte davanti a me, mentre io stesso sentivo il rantolo della mia agonia e capisco che la mia vita si poteva spezzare da un momento all'altro.Ora quello che io sento che è mio bene, sento che è anche il vostro. Lasciate che altri pensino a correre dietro ai beni di questa terra; lasciate che altri corrano dietro ai piaceri, credendo di trovare la felicità, ed invece trovano il disinganno e la morte; lasciate che altri corrano dietro alla gloria e alla fama credendo di trovare in questo la beatitudine e la pace. Noi, soprattutto, ben sappiamo che queste sono "immagini di ben falso e bugiardo"; sono false immaginazioni di bene che non potranno mai soddisfare il nostro cuore, perché il nostro cuore non può sentirsi pago e felice avendolo Iddio creato per sé: Fecisti nos ad Te, Domine, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te, dice Sant'Agostino”. [35]
Don Orione ritornò alla sua attività, seppur ridotta, e seguirono ancora alcune giornate di vita normale. Volle essere puntuale e fedele alla meditazione al mattino presto. “Da qualche mese Don Orione era particolarmente preoccupato di questa fondamentale pratica di pietà; non aveva risparmiato esortazioni e raccomandazioni pur di avere presenti tutti i suoi sacerdoti, nel primo mattino; aveva voluto dare lui l’esempio, per quanto fossero le sue condizioni di salute compromesse. Però, già il 19 febbraio, dovette rimettersi a letto per una complicazione bronchiale. Il clima freddo e umido di quei giorni invernali, insidiò i bronchi, scossi già dall’influenza del dicembre. E vennero così altri 10 giorni di letto”.[36]
Zambarbieri annota di quei giorni “la pace, la pazienza ed una rassegnazione edificantissima. Mai un lamento ho potuto cogliere sulle sue labbra, neppure nelle ore in cui il male lo tormentava di più; mai un gesto di contrarietà, una parola brusca. Si rammaricava qualche volta per doversene stare inoperoso, inerte, spiacente di recar disturbo agli altri. Non faceva che benedire Iddio in tutto.
Quando, in quei giorni, gli davo qualche buona notizia, la prima cosa che mi diceva era questa: “Vedi com’è buono il Signore”, e mi faceva recitare qualche preghiera con sé. Qualche volta si pose in ginocchio accanto al letto e mi pregò di intonare il santo Rosario, rispondendomi. Spesso mi trovai presente alla S. Comunione che faceva nel cuore della notte, e ricordo con quale devozione accoglieva il Signore, dopo essersi a lungo preparato.
Verso tutti quelli che lo avvicinavano aveva tratti di finissima carità. Lo vegliavamo, in quelle notti, fino alle ore piccole, ma dovevamo farci vedere molto di rado da lui, perché sentiva pena del piccolo sacrificio che si faceva per lui.[37] Per parte sua era sempre disposto a ricevere tutti, anche i visitatori più importuni, né si lasciò scappare gesto di noia o di impazienza. Per tutti aveva una parola buona, una espressione di conforto, ed anche quando si sentiva più oppresso dal male era lui che sapeva trovar forza per consolare gli altri”.
Continuò ad interessarsi del governo della Congregazione non solo, ma – prevedendo che la chiamata doveva essere ormai vicina – pose mano a sistemare questioni che aveva particolarmente a cuore, non preoccupandosi della sua persona, ma della sua famiglia religiosa.
1 marzo 1940: “Bisogna andare a Sanremo”.
Il 1° marzo 1940 anche la complicazione bronchiale pareva felicemente superata e poté celebrare la Messa. Era però debolissimo, pallido in volto, e recava ovunque i segni di un organismo consunto.
“È solamente da sabato – informa Don Orione - che lascio il letto, ma sono sempre molto debole. Il Signore non mi ha voluto ancora con sé, e spero così ritornare presto al mio umile lavoro. Per quel poco che il Signore vorrà da me, eccomi pronto. E se, nei giorni di vita che mi rimangono, mi sarà dato di confortare qualche povero di più, di dare qualche consolazione al cuore del Papa e dei Vescovi, Iddio sia benedetto anche in questa guarigione!”.[38]
Era comune speranza di confratelli e medici che un clima più mite ed un poco di quiete avrebbero certo portato qualche beneficio. Il luogo più indicato parve Sanremo, ma quando la cosa fu prospettata a Don Orione, questi sentì ripugnanza ad accettare.
“Don Sterpi mi incaricò di parlargliene – informa don Bariani -. Mi ascoltò con una certa attenzione, poi sorridendo mi disse: Siete dei grandi bravi figliuoli, ma vi dimenticate che siamo figli della Divina Provvidenza. E non volle più sentirne parlare. Io però non mi persi di coraggio e parlai della cosa al professore Andrea Manai, primario dell'ospedale di Alessandria che lo aveva avuto in cura nell'attacco dell'anno prima. Il professore accettò”.
Si presentò a Don Orione con il dottor Codevilla.
“Ho saputo che avete due case a Sanremo. È una Provvidenza, vedete. Bisogna andare a Sanremo per trascorrervi qualche settimana di convalescenza”.
“Sì, sì…”, rispose Don Orione quasi senza pensarci.
Dopo qualche attimo, si riscosse e guardò negli occhi il professor Manai e poi il dottor Codevilla.
“Ditemi la verità, è un sacerdote che vi prega di essere espliciti: sono alla fine dei miei giorni?”.
“Ma no, no, perché questa domanda?”.
“Perché, se così fosse, io voglio togliermi anche da questa stanza troppo di lusso e morire nella povertà. Io sono un povero figlio di campagna, mio padre era selciatore di strade, tutta la mia famiglia era povera… Io qui non ci devo stare”.
“Ma dove volete andare?”.
“Se è per uscire di qui io voglio andare a morire fra i poveri, all’istituto di Borgonovo. Là ci sono tanti ragazzetti senza nessuno, abbandonati, raccolti dalla Provvidenza. Voglio morire attorniato da quei figlioli abbandonati, in una casa che vive e pratica la povertà”.
Il dottor Codevilla non trattiene le lacrime e anche il professore Manai ha gli occhi lucidi.
Partiti i due dottori, rimasto solo con don Enrico Bariani, Don Orione chiede se don Sterpi sia a conoscenza di quella proposta. “Signor direttore, lei sa che non si fa nulla senza informare don Sterpi”.[39]
Don Orione comprende e non può sottrarsi all’invito di don Sterpi che per lui ha il valore di una obbedienza. L’obbedienza vale bene il sacrificio. Infine, a togliere ogni indugio, giunse anche la raccomandazione premurosa fatta dal Visitatore apostolico, l’abate Caronti, accorso a Tortona.
La partenza per Sanremo viene fissata al 7 marzo. Don Orione sente che la sua vita sta per finire ed è giunto il momento del congedo. Ne scrive, in quello stesso giorno, a mons. Paolo Albera: “Stamattina ho ripreso a celebrare, con un po’ di fatica. Avevo già cominciato a dire la Messa, dopo quei gravi momenti, ma poi ho preso del freddo e una bronchite, è solo da ieri che mi alzo alcune ore. Grazie al Signore va meglio, ma non sarò più come prima. Fiat! Certo è stato un avvertimento e un grande atto di divina misericordia, perché mi metta a posto su parecchie cose, e mi tenga preparato. Lo so che la mia vita è minata, e forse più che non si creda, ma sono nelle mani del Signore. Ora vogliono che vada a Sanremo, farò come vogliono. Confido nelle tue sante orazioni, sì che possa rimediare e fare ciò che Dio volesse ancora, e poi addormentarmi nel Signore, ai piedi e tra le braccia della santa Chiesa, nostra madre”.[40]
3 marzo: “fidàti e abbandonati al Signore”.
Anche il 3 marzo, Don Orione ha voluto celebrare la Santa Messa alla comunità. Il suo volto è pallido, ma non abbattuto; parla adagio e piano piano. È la Domenica “Laetare”. Contrariamente al suo solito, Don Orione non legge il Vangelo tratto dal capitolo 6 di San Giovanni, ma lo commenta in modo molto appropriato, contestualizzando la scena della moltiplicazione dei pani e del discorso di Gesù.
“Questo Vangelo, innanzi tutto, vuol disporre i nostri animi a credere che nel divinissimo Sacramento è il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, e vuole disporci a crederlo più fermamente specialmente ora, all'avvicinarsi della Pasqua.
Ma questo Vangelo, o miei cari chierici, parla a noi, Figli della Divina Provvidenza: è il Vangelo, direi, della Divina Provvidenza. Il Signore ha detto: ‘Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia e poi tutto il resto vi verrà dato in soprappiù’. Quella moltitudine seguiva Gesù, cercava il regno di Dio, cercava la vita, la più alta vita, quella vita di cui Cristo aveva detto: Veni ut vitam habeant et abundantius habeant.
Qui è la Divina Provvidenza che tutto vede, tutto provvede, tutto dispone. Era l'occhio del Signore, era il Cuore di Gesù, che vedendo i bisogni di quella moltitudine, provvede a che non cadano lungo l'erta del monte e per via, prima di arrivare alle loro case. Così noi, cari figliuoli, dobbiamo sempre cercare soprattutto il Signore e vivere vita di fede, cercare la vita del Signore, il regno di Dio, la salute dell'anima nostra e dei nostri prossimi, fidàti e abbandonati al Signore, il quale non mancherà di confortarci, di venirci incontro nelle necessità del nostro corpo e per tutto quello che possono essere i bisogni materiali della vita”.[41]
Le parole trovavano conferma nel modo con cui viveva i limiti della salute. “Io mi recavo spesso a trovarlo – testimoniò l’abate Emanuele Caronti -, mi trattenevo anche a lungo presso il suo letto ed ho potuto ammirare la grande rassegnazione con cui sopportava il male e, quando io lo esortavo a farsi coraggio, prospettandogli la possibilità di una ripresa, egli mi rispondeva «Sono nelle mani di Dio». Anche durante la malattia Don Orione si manteneva in continua preghiera”.[42]
6 marzo: sortita mattutina per salutare San Marziano e la Madonna.
È la festa di San Marziano.
Don Calegari ricorda: “Alle 4.30, quando stavo per entrare in cappella per la meditazione, Don Orione mi fece chiamare dal chierico infermiere. Andai nella camera dell'orologio e lo trovai a letto. Mi disse in tono di chi vuole convincere di una cosa ardua: “Senti, dovresti farmi una grande carità. Oggi è la festa di San Marziano. Mi sento portato a fare una visita all'urna del Santo, in Duomo. Va’ a prendere la macchina”. Io, meravigliato e intimorito al pensiero di quelle che potevano essere le conseguenze sul suo fisico prostrato, a causa di un'uscita di camera e di casa a così breve distanza dalla grave crisi superata, cominciai ad opporre timidamente dei ma e dei se, facendo presente, tra l'altro, che la mattinata era fredda e l'ora importuna. Egli però insisteva. Mi fece presente che a quell'ora, minima sarebbe stata l'affluenza dei fedeli, ed egli avrebbe potuto fare le sue devozioni con maggiore libertà.
Lo condussi in Duomo sulla macchinetta utilitaria inglese che avevo portato dall'Inghilterra. Entrato nella cattedrale avvolto nel suo ampio mantello non andò a prostrarsi propriamente ai piedi dell'urna del Santo che già stava esposto, ma in una delle panche più vicine, e là, assorto in umile profonda preghiera si trattenne parecchi minuti.
Alzatosi, uscì di chiesa passando attraverso una delle navate laterali e risalì in auto. Quando stavo per avviarla, mi disse con il tono di prima: “Senti, già che siamo qui, portami dalla Madonna (a San Bernardino)”. Questa volta non opposi difficoltà e lo condussi volentieri al santuario della Guardia. Quel coronamento non poteva mancare.
In breve raggiungemmo il santuario passando per la via Emilia ancora deserta. Fece fermare la macchina davanti alla seconda porta laterale dalla parte della roggia. Don Orione salì a stento i pochi gradini e, portandosi all'estremità destra della balaustra dell'altare maggiore, si inginocchiò per pochi istanti in preghiera. I chierici di sacrestia fecero appena in tempo a baciargli la mano che egli già stava uscendo.
Al Paterno, dove la notizia della scappata del direttore si era già diffusa suscitando meraviglie d'apprensione, attendevano il Superiore al ritorno, presso la porta di entrata, il chierico infermiere e qualcuno dei sacerdoti.
Don Orione entrò e lentamente salì le scale che portano alla direzione. Attraversò il loggiato e prima di salire i gradini che conducono al ripiano del Crocifisso, s'avvide che il canonico Perduca lo attendeva sorridente davanti alla porta dell'economato esprimendogli la sua meraviglia. Don Orione, che sino allora aveva camminato a stento e tutto incurvato nella persona, si rizzò con energia e a voce decisa disse: Cosa credete? Che io sia un ammalato? Sto meglio di voi. E accompagnava le parole con un gesto del braccio”. Contento.
Don Orione celebra poi la Messa alla comunità. Parla di San Marziano e il pensiero va ad alcuni ricordi personali di vita.
“Io non dimenticherò, non ho mai dimenticato, come fino dal primo anno, quando non c'era che il primo piccolo nucleo di ragazzi a San Bernardino e venivano istruiti nella musica dal padre del Perosi, che veniva anche a fare lettura in refettorio mentre si mangiava polenta e patate… il maestro Perosi, fece cantare in quel primo anno e poi anche in seguito queste parole musicate da lui: Filios tuos, Marciane, ne deseras!, San Marziano, non abbandonare, non dimenticare i tuoi figli!
Anch'io stanotte, e poi stamattina, quando ho avuto la consolazione spirituale di recarmi in Duomo, ho aperto il mio cuore e anche la mia voce, il mio canto, a pregare il Signore che accogliesse la voce e il canto di tutti quei figli della Congregazione che furono là e che pregarono San Marziano”.
Oggi, quando sarete là davanti all'urna che ricorda ai Tortonesi il loro primo Vescovo e martire, ciascuno di voi preghi San Marziano che voglia volgere dal cielo lo sguardo su noi, che voglia ottenerci da Dio di essere figli non indegni del suo martirio, non indegni della sua fede. I Figli della Divina Provvidenza devono essere forti e intrepidi, in tutto, ma specialmente nella fede, nello spirito di sacrificio, occorrendo, fino alla morte, fino al martirio, fino a fare della nostra vita ostia viva a Dio e olocausto a Dio e alla Chiesa”.
A mezzogiorno, Don Orione è a pranzo con i confratelli. Sul tavolo, davanti a lui, con pensiero di affetto, gli fanno trovare la statua antica della Madonna della Divina Provvidenza, quella del primo collegetto, quella che vide la nascita e la crescita della Congregazione.[43] Don Orione gradisce quel pensiero, il suo volto è percorso da una luce che, affievolita dalla sofferenza, è ancor più viva e amabile. Ricordi e preghiere si fondono nel ringraziamento alla Divina Provvidenza per la grazia e la storia di vita iniziata lì, negli anni della gioventù.
7 marzo: commiato da suore e chierici.
Al Paterno di Tortona, tutto è pronto per la partenza. Ma al mattino Don Orione annuncia il rinvio. A don Bariani sorpreso, Don Orione dice pensoso: “Se sapessi perché non parto, non insisteresti perché vada”.
Più tardi, chiama Giuseppe Zambarbieri, gli fa mettere in ordine il registro delle Messe e gli detta alcune lettere a vari destinatari. “Dì loro che mi mandano a Sanremo, ma che non tra le palme vorrei vivere e morire, bensì tra i poveri”.[44] “La sensazione che il Fondatore si preparasse per il viaggio senza ritorno mi si fece sempre più viva nell’anima”, annota Zambarbieri. Forse per questo aveva bisogno di un po’ più di tempo.
“Verso le ore 10 – racconta don Adriano Calegari – Don Orione mi pregò di condurlo in macchina a salutare il Vescovo. Obbedii. Sul piazzale del Duomo, davanti alla porta dell'episcopio, lo aiutai a scendere e poi a salire fino all'appartamento vescovile. Lo attesi nel salone di entrata e lo accompagnai alla macchina.
Mi pregò poi di condurlo a San Bernardino. Percorremmo Corso Montebello che, essendo laterale, offriva la possibilità di passare inosservati. Fu allora che egli mi disse, a mio conforto: Vedi, caro don Adriano, la Provvidenza non ti ha lasciato tornare in Inghilterra anche perché con questa macchina tu potessi compiere ancora una grande opera di carità verso questo povero vecchio. A San Bernardino fece una breve visita al Santissimo Sacramento e alla Madonna della Guardia.
Poi ritornò e si trattenne per qualche minuto presso la Casa madre delle Suore, che erano accorse commosse attorno al Padre per sentire ancora la sua parola e ricevere la sua benedizione.
Passò alla casa del Probandato, che sta al lato opposto di corso Genova, e, nel cortile, trovò i probandi già schierati su due file con don Franceschini in testa. All'apparire del Padre si inginocchiarono. Egli aveva già fatto capire che non intendeva trattenersi che pochi secondi. “Vi do la benedizione, vi lascio un ricordo: preghiera e studio. Preghiera e studio”. E li benedisse con gesto largo e commosso. Poi uscì e, sempre in macchina, fece ritorno alla casa madre.
Queste visite brevi avevano tutte il carattere di un estremo congedo”.[45]
Alla sera scrive a Don Bartoli a riguardo dell’apertura di un’opera di carità a Messina e dell’accettazione di un prete in difficoltà di Acireale. Poi conclude: “La carità non si misura col metro, e non è mai troppa. Domattina parto per San Remo: me la vado a godere! E pensare che è proprio un mese giusto che non fo’ più nulla! Pazienza! e avanti in Domino. Vedete però che non voglio morire tra le palme di S. Remo, ma tra i nostri poveri che sono Gesù Cristo. Oggi sono stato a salutare la Madonna, i nostri chierici e aspiranti, le suore cieche e le non cieche: come vedi, sto bene. Sono stato anche da S. E. Mg.r Vescovo e in curia. Stasera saluterò questi della casa e poi me ne andrò in Domino”.[46]
8 marzo: l’ultima Buona notte
Al mattino, tutto era pronto per la partenza di Don Orione alla volta di Sanremo.
“Io avevo già preparato la macchina davanti alla porta della casa - è don Calegari a ricordare -. Visto che Don Orione tardava ad uscire di camera, mi avviai verso di quella. Dall'atteggiamento di don Bariani che stava uscendo di là, compresi che erano sorte delle difficoltà.
Entrai nella camera e lo trovai seduto e nell'atteggiamento di chi vuol prendere una decisione all'ultimo momento. Accanto gli stava il dottor Codevilla. Tutti noi, ma specialmente don Bariani, tentavamo di dissuaderlo e di farlo tornare sull'idea di partire quel mattino, ma egli resisteva. Ottenne in fine di poter rinviare soltanto al giorno seguente, e, in tono da non essere preso del tutto sul serio, disse testualmente così: Vado a Sanremo per farvi contenti, ma tornerò in una cassa.[47]
Nel pomeriggio incontrò gli undici chierici che riceveranno l’indomani il diaconato: ”Sentendoci venir meno le forze e la vita che se ne va, noi anziani possiamo avere un conforto guardando a voi ai quali affidiamo il Vangelo, la croce, la stola, l’altare, tutto...”.
Verso sera, Zambarbieri portò a Don Orione il Registro delle Sante Messe che aveva sistemato assieme a don Carradori. “Ne fu contento, mi ringraziò e poi con un paterno sorriso, mi disse queste testuali parole: E così abbiamo passato l’ultima giornata insieme... Io non potei articolar parola, per la commozione”, ricorda Zambarbieri.
Dopo le preghiere della sera, nella cappella del Paterno, Don Orione dà l’ultima Buona notte.[48]
“Sono venuto, sono venuto a darvi la Buona notte, e sono venuto anche per salutarvi, perché, piacendo a Dio, domani mi assenterò per qualche tempo; per poco o per molto o anche per sempre, come piacerà al Signore. E nessuno più di me sa che la mia vita, benché apparentemente data l'età, sia ancora florida, nessuno più di me sente che questa mia vita è attaccata ad un filo e che tutti i momenti possono essere gli ultimi. E che se devo ringraziare Dio, il mio ringraziamento non è e non può essere che questo: Misericordia Dei quia non sumus consumpti! E' misericordia del Signore se sono ancora qui a parlarvi. Quindi mi vedo davanti e vicina la morte, più che non l'abbia mai veduta e sentita così vicina.
Desiderano che vada a San Remo, dove da tanti anni non sono mai più andato, perché sento ripugnanza ad andare in queste case, in questi luoghi ameni, che non sono proprio per noi. Per questo devo fare uno sforzo ogni qualvolta devo andare a Novi, uno sforzo ogni qualvolta devo andare al Dante e a San Remo, perché sento che quelle non sono le case, non sono l'Opera della Divina Provvidenza. Saranno buone case, saranno buoni religiosi e sacerdoti, ottimi figli; ma sono case che, per un cumulo di circostanze, e solo per esse, il Signore ha voluto, ha permesso che si aprissero; ma esse non esprimono lo spirito che il Signore desidera da noi.
Comunque, lasciando da parte queste considerazioni, è da tanto tempo che non vado a San Remo, da prima che andassi in America; e anche quando so che là c'è chi fa bene, lascio di andare e mando altri, perché si sappia e si tenga conto che sono case che devono scomparire, perché non sono case della Congregazione della Provvidenza.
Ora mi vogliono mandare a San Remo, perché pensano che là, quelle aure (enfatico), quel clima, quel sole, quel riposo possano portare qualche giovamento a quel poco di vita che può essere ancora in me. Però non è tra le palme che io voglio vivere! E, se potessi esprimere un desiderio, direi che non è tra le palme che voglio vivere e morire, ma tra i poveri che sono Gesù Cristo!
Dunque, partire di qui senza dirvi nulla sarebbe stata cosa che ripugnava al mio cuore, e sentivo che avrebbe anche fatto male a voi. Sono venuto a salutarvi, spiacente di non poter assistere dopo domani alla prima Messa del nostro fratello che viene ordinato domani (don Pigoli). Però, come ho detto a lui da solo prima, e poi assieme agli altri novelli diaconi quando sono venuti a trovarmi, se non sarò presente col corpo, certamente sarò presente in un modo più alto, con tutto il mio spirito! E domani egli sarà il primo che porterò sull'altare, insieme a quell'altro nostro fratello che sarà pure ordinato domani a Roma (don Kisilak). E' questo il primo jugoslavo, a cui oggi ho scritto e che si prepara a partire fra venti giorni per le missioni. Partirà il 28, se piacerà a chi comanda di fare il passaporto. Bella cosa salire l'altare, prendere la benedizione del Papa, andare di corsa a salutare i suoi e poi, se il Passaporto sarà pronto, partire per le missioni! E spero che insieme partiranno altri, tra cui alcuni polacchi, ai quali ho rivolto una preghiera: che andassero a prendersi cura dei loro fratelli.
Io amo tanto i Polacchi! Li ho amati fin da ragazzo, li ho sempre amati!
Quand'ero all'Oratorio di Torino ci conducevano a passeggio e ci dicevano: Là vive un Generale polacco che è venuto ad offrire il suo sangue per l'Italia. Io sempre, quando passavo davanti a quel palazzo, alzavo gli occhi a quella finestra e il cuore al Signore e pregavo per quel Generale. Sentivo un amore particolare per Lui che aveva offerto la sua vita per la nostra cara Italia. Ho incominciato a raccogliere Polacchi quando la Polonia era ancora schiava di tre imperi: i Tedeschi, l'Impero Austro-Ungarico e i Russi. Non ho aspettato ad aprire le nostre Case ai Polacchi quando la Polonia era già libera! E mai ho sentito tanto amore ai Polacchi quanto ne sento ora, mai ho sentito tanto dolore come in quei giorni, in cui la povera Polonia è stata così barbaramente dilaniata; mai ho sentito tanta pena come quando l'Italia non ha fatto nulla per la Polonia, mentre a centinaia e centinaia, a migliaia, i Polacchi hanno sacrificato la vita per l'indipendenza italiana. E voi, o cari chierici Italiani, ricordate queste parole e amate i Polacchi! Vogliate sempre bene a questi vostri fratelli! Non pretendete che siano senza difetti per amarli; non c'è nessuno senza difetti! Vogliate bene a quelli che piangono, a quelli che soffrono! Dice la Sacra Scrittura: Andrai più volentieri alla casa del pianto che a quella del tripudio e del trionfo!
Sono venuto, dunque, a darvi la Buona notte. Potrebbe anche, sapete, essere l'ultima... Ma nulla ci deve essere più caro che compiere in noi la volontà del Signore! Anche voi vogliate vivere sempre alla presenza del Signore; vogliate fare sempre la volontà di Dio. Nulla vi sia più caro che fare la volontà di Dio! Questo è il ricordo datoci nell'ultima udienza di Pio X, il nostro Papa, il Papa che ci ha dato la prima casa in Roma, a Monte Mario. E' il Papa che sta per essere elevato agli onori degli altari, il Papa che ha ricevuto nelle sue mani i miei voti perpetui.
Un giorno si discuterà, e so già quello che si dirà, se la Congregazione è stata approvata o no, anche dopo che il Papa ha ricevuto nelle sue mani i voti perpetui di colui che indegnamente è il fondatore di quest'opera, dandogli insieme tutte le facoltà per fare ordinare i suoi chierici! Ma questo ve lo dico a vostro conforto, non perché io voglia fare in qualche modo degli appunti a quello che è avvenuto. Anzi vi prego di non pensare neppure a questo, perché non ve l'ho detto per fare delle recriminazioni, ma solo per affezionarvi di più alla Chiesa, per porvi più che in abbandono ai piedi della Chiesa.
Cari figliuoli, sono venuto a darvi la Buona notte: potrebbe essere l'ultima. Vi raccomando di stare e di vivere sempre umili e piccoli ai piedi della Chiesa, come bambini, con piena adesione di mente, di cuore e di opere, con pieno abbandono ai piedi dei Vescovi, della Chiesa! E non vi dico del Papa, perché quando si dice dei Vescovi, a fortiori si dice del Papa, che è il Vescovo dei Vescovi, il dolce Cristo in terra. Cercate di amare sempre il Signore, camminate nella via di Dio, non desiderate altro che di vivere secondo le leggi di Dio, secondo la vostra vocazione, adempiendo non solo quello che è la legge di Dio, i Comandamenti di Dio, ma anche quelli che sono i consigli della perfezione, i voti religiosi coi quali vi siete legati alla Chiesa e alla Congregazione.
La prima grande madre è Maria santissima.
La seconda grande Madre è la Chiesa.
La terza, piccola ma pur grande Madre, è la nostra Congregazione.
Siate tutti di Maria Santissima! Siate tutti "roba" della Chiesa! Amate molto il Signore! Siate devotissimi della Madonna! Evitate ad ogni costo, a costo di qualunque sacrificio, il peccato, tutti i peccati. La morte ma non peccati, diceva Savio Domenico. In queste parole del discepolo più caro di Don Bosco, c'è tutto lo spirito di Don Bosco, c'è tutto quello che il Signore vuole da me e da voi.
Se qualche volta ci sentiamo deboli, raccomandiamoci al Signore e a Maria Santissima. Confessiamoci bene, bene, non per abitudine. Non accontentatevi di un confessore così, così... ma andate ai piedi del sacerdote che rappresenta Gesù Cristo: andate ad esprimere a Gesù Cristo tutto il vostro amore e il vostro dolore. Preparatevi ed accostatevi con slancio e con fervore alla Santa Comunione; e preparatevi, nell'unione di Cristo, ad esserne un giorno ministri non indegni. Che bel conforto, anche per voi, di sapere che domani avremo la consolazione di avere due sacerdoti e dodici diaconi! E anche tra di voi prossimamente vi saranno degli ordinati, dei promossi a qualche ordine... Ma non vengo per dirvi questo, anzi, per carità, non vorrei che deste troppo peso a questo per non storpiare la Buona notte di questa sera.
Questa è una Buona notte tutta speciale, tutta particolare, e voi lo sentite... Domani vi celebrerò la Santa Messa, pregherò per tutti quelli che domani saranno ordinati. Non vi nascondo che per tutto l'anno 1940 è permessa dal Padre Visitatore la promozione ai vostri ordini. Forse il Signore ci concede questo per darmi conforto in questo mese nel quale mi sono sentito poco bene.
Dunque, addio, cari figliuoli! (si ferma un istante, china il capo appoggiandosi alla balaustra, commosso) Pregherete per me ed io vi porterò tutti i giorni sull'altare e pregherò per voi.
Buona notte!”.[49]
Quasi per tacito accordo nessuno si muove dai banchi. Don Orione si inginocchia e appoggia la testa sulle braccia poggiate sulla mensa dell'Altare. Si sente un silenzio pieno di commozione. Parecchi piangono. Passano alcuni minuti. Poi il canonico Perduca prega un chierico di andare a chiedere al Direttore la benedizione per tutti.
Don Orione si alza, recita un'Ave Maria e con ampio gesto benedice, dicendo: "Gratia, misericordia, pax, et benedictio Dei Omnipotentis: Patris et Filii et Spiritus Sancti descendat super me et super vos, et maneat semper nobiscum. Amen”.
Appena rientrato in camera, Don Orione chiede, contrariamente alle altre volte, se don Orlandi e i suoi aiutanti scrivani erano alla Buona Sera, facendo così pensare ad un suo tacito desiderio che la parte sostanziale di queste parole di addio rimanessero fissate per iscritto.[50]
9 marzo: la partenza da Tortona.
Al mattino del sabato, vestendosi, Don Orione commenta con Zambarbieri: “Povera la mia veste, non ne può proprio più, come la mia vita”.[51]
Celebra la Messa, distribuisce ancora una volta la Comunione a tutti. Lo fa appoggiando il gomito sinistro sulla mensa dell’altare, senza muoversi.
Poi va da don Gatti: ”Desidero fare la mia confessione, una confessione ad mortem”. Torna nuovamente in camera: quando ne esce, affida la chiave all’incaricato, il chierico Costanzo Costamagna. Con la chiave gli consegnò una certa somma di denaro, non contati come ogni giorno, più abbondanti, e gli disse: “Poi te li daranno altri…”.[52]
Don Orione scende dalla camera. Nel corridoio sono schierati, in due file, sacerdoti e chierici commossi; egli sorride a tutti, affretta il passo visibilmente emozionato. Don Calegari, che l’attendeva con la macchina, ricorda: “Egli pregò i chierici di ritirarsi, forse perché non voleva scene sulla pubblica via e forse perché la loro presenza gli faceva pena. Don Sterpi, invece, seguito dai sacerdoti si accostò alla macchina visibilmente commosso. Furono scambiati gli ultimi saluti e l’auto lentamente si allontanò. Erano circa le ore 9.
Alla stazione ferroviaria di Tortona, si trattenne in sala di aspetto. Furono comprati i biglietti. Avrebbe dovuto essere accompagnato a Sanremo da don Enrico Bariani e dal chierico infermiere Modesto Schiro; però a Don Orione sembrò troppo e disse a don Bariani di rimanere a Tortona.[53]
Mentre attendevano il treno, sopraggiunsero di corsa don Pigoli ed i Diaconi che arrivavano dalla cattedrale, ove erano stati ordinati proprio in quelle prime ore della mattina.[54] Don Orione li benedisse, sorrise, e li congedò imbarazzato, non volendo che si creasse attenzione attorno alla sua persona.
Quando fu dato il segnale di arrivo del treno, Don Orione si alzò e, uscendo sul marciapiede, visto un fotografo che stava aspettandolo al varco, riuscì con abile manovra, facendo credere di voler andare incontro al treno, a sgattaiolare tra la folla e a sfuggire all'obiettivo che lo colse solo di sfuggita.[55]
Rimase il tempo per gli ultimi sguardi e saluti. Si sforzava di sorridere, ma il sorriso moriva su di un volto fatto scarno dal male, mentre non poteva non apparire anche all’esterno la sofferenza di Don Orione in quell’estremo congedo da tutte le persone e cose più care. Salì sul treno. Lo accompagnava il chierico infermiere, Modesto Schiro,[56] al quale lasciamo la narrazione del seguito.
Il viaggio verso Sanremo
“Il treno era affollatissimo. Trovammo un posto per lui in uno scompartimento da 8, di quelli con le panchine di legno, per fumatori. C’erano già sette persone, lui fu l’ottavo. Io restai fuori in piedi. Il treno si mise in moto.
Dopo una decina di chilometri ecco il controllore: “biglietti!”; e cominciò il suo controllo. Don Orione gli mostrò i due biglietti. Il controllore, uscendo, mi rivolse la parola:
“Ma quello lì non è Don Orione?”.
“Sicuro!”.
“E perché sta in terza? No, no, lo porto io in prima!”.
Avvertii Don Orione. Lui frattanto aveva estratto da una piccola valigetta, che aveva portato con sé, un mucchio di posta; aveva estratto la sua stilo, e s’era messo a fare della corrispondenza: a lavorare insomma. Si levò. Pose la valigia sul posto, nel caso potesse farvi ritorno, mi seguì. Arrivammo alla porticina che dava adito al nuovo vagone, entrammo: vide il posto. Era di prima, coi suoi bei cuscini rossi: “No, no; ci sono i cuscini rossi” (capii che voleva dire: è troppo di lusso). E non volle fermarsi; tornò al suo posto di terza.
Io restai fuori con Michele Bianchi e Paolo Marengo,[57] nel corridoio. Parlavamo, guardavamo il paesaggio. A Serravalle il treno fermava. Lui uscì dallo scompartimento, dall’altra parte cosicché noi non ce ne avvedemmo. Scese e salì su un altro vagone. Mossosi il treno andai a dare un’occhiata per vedere se non avesse bisogno di qualche cosa: non c’era. Domandai alle persone che stavano nello scompartimento. Lo conoscevano, sapevano che era Don Orione.
“È sceso di qui”, mi dissero.
Ne avvertii Bianchi e Marengo. Eravamo in verità un po’ in ansia. Che avrà fatto? Sarà sceso a Serravalle? Che dobbiamo fare noi? “Beh, vedremo a Ronco” concludemmo. Giungemmo a Ronco dove c’era fermata del treno. Ed ecco ce lo vediamo presentarsi davanti, sul marciapiede. Era saltato subito giù dal vagone e veniva per rassicurarci, ed anche un po’ per prendere in giro i suoi… custodi.
“Scusino signori – ci disse – loro dove vanno?”.
E Marengo: “Ma sa che Lei fa degli scherzi che non vanno?”.
Don Orione sorrideva beato. Suonò il fischietto della partenza; venne con noi, restò in piedi con noi. Si parlava del più e del meno; ma non mancò di tenere allegra la compagnia.
“Siete dei bei guardiani: in tre dietro uno, e ve lo lasciate scappare”.
A Genova, in stazione, ci attendeva don Enrico Sciaccaluga. Scesi, ci siamo fermati in stazione a conversare. Poi Don Orione si volse a Bianchi e a Marengo: “Adesso voi andate a casa a fare qualche cosa; ci sono già io qui a fare niente”.
Un cordiale saluto. Partiamo per Sanremo, questa volta soltanto lui ed io.
Il treno questa volta era poco affollato; andammo in un solito vagone di terza a sedili di legno. Stemmo quasi sempre in corridoio. C’era poca gente, nessuno che lo conoscesse.
Mi mostrava i paesi: “Vedi, là sono stato a predicare… Là conosco il parroco… Là c’è un nostro benefattore… Là c’è della gente molto buona”.
Quando passammo a Bussana, mi disse: “Lì c’è il santuario del Sacro Cuore, che tu andrai a visitare”.
A Taggia mi parlò della Madonna che muove gli occhi: “
Io sono stato lì a predicare”.
Giungemmo a Sanremo alle 14.30.
L’arrivo inaspettato a Sanremo
Alla stazione non c’era nessuno ad aspettarci. Ci aspettavano da due giorni ed erano andati ad aspettarci al treno due volte; poi avevano smesso, proprio il giorno del nostro arrivo”. Don Bariani, che pensava di arrivare in auto alla stazione prima del treno, per vari imprevisti giunse con abbondante ritardo.[58]
Usciti di stazione proposi un calesse-taxi, che si usava a Sanremo. “No, no, andiamo a piedi”. Ma avevamo ben cinque valige, tra le quali una bomboletta di ossigeno. Insistei per il calessino. Don Sterpi mi aveva ordinato di non farlo affaticare, a qualunque costo. Malgrado lui fosse contrario, andai lo stesso a chiamare il calesse.
Quando lo vide: “Beh, beh! – disse – andiamo”. Il taxi ci portò a Villa Santa Clotilde.
Arrivammo.[59] Scesi e Don Orione mi fece cenno di suonare a quel caratteristico uscio. Non veniva nessuno. Continuai a suonare e finalmente giunse una suora.
Visto Don Orione, cadde in ginocchio: “Non c’è nessuno a casa”.[60]
E Don Orione: “Bene! Hai visto come ricevono Don Orione! Nessuno alla stazione, nessuno qui”. E sorrideva beato.
“Padre – disse la suora - sono andate tutte al santuario di Bussana!”.
Entrammo, andammo in chiesa a fare una visita.[61] Poi andammo in sacrestia: c’era un bel quadro di Don Orione. Don Orione divenne scuro: “Togli, togli subito, togli quell’affare lì”.
Non sapevo che fare; finalmente mi decisi e girai il quadro con la faccia verso il muro. Poi Don Orione entrò in casa, s’accomodò in parlatorio e si mise al lavoro, traendo dalla valigetta le lettere già scritte, e l’altro carteggio.
Domandai alla suora se poteva dare qualche cosa a Don Orione, perché non aveva ancora pranzato: potevano essere le quattro del pomeriggio.
“Non ho niente, Padre. Ed io non sono nemmeno capace di fare da mangiare”.
Io andai in cucina con la suora. “Guardiamo un po’ che cosa si può fare; cerchiamo di dargli qualcosa da mangiare”. C’era un pollo crudo, un po’ di pasta. Misi a cuocere il pollo, col brodo feci un po’ di minestrina; e fu il pranzo che Don Orione consumò lietamente.
La cameretta di Villa Santa Clotilde.
La camera era stata già preparata. Ci si poteva entrare tanto dal parlatorio, col quale comunicava, che dall’atrio; veniva dopo un’altra camera, che era destinata a me. Una porta-finestra comunicava con il giardino della Villa, con molte piante, largo una trentina di metri e lungo una cinquantina.
Io presi la posta da spedire ed andai fuori, sia per l’impostazione della corrispondenza, sia per andare al San Romolo, ad avvertire don Severino Ghiglione che Don Orione era arrivato.
Don Ghiglione, con alcuni assistenti, corse a Villa Santa Clotilde per ossequiare il Padre: “Mi colpì il grande pallore del viso. Prese un boccone e si trattenne a conversare con il signor Gregorio Tononi e con me finché si ritirò per un poco di riposo. Mi incaricò nel frattempo di procurargli delle cartoline e un orario ferroviario”.[62]
Intanto arrivò anche don Bariani con la sua auto. Arrivarono anche le suore; era superiora Suor Maria Rosaria.[63] Si scusavano: “Niente, niente, sorrideva Don Orione, ci siamo accomodati. Stiamo bene così. Non occorre nulla”. Era lieto.
Arrivò rapidamente la sera. Andai per accendere la luce, ma mancava la corrente. Forse un guasto.
E Don Orione: “Bene, bene, proprio bene! Hai visto? Anche questa!”.
E ci sorrideva… Era evidente che voleva stare lieto e tenermi lieto.
Entrammo nella sua camera. Sulla parete di sinistra, di fronte al letto, una mensola con sopra una statuetta di gesso della Santa Madonna. Era una Madonnina assai devota, di Lourdes, alta una quarantina di centimetri, bianca, con la fascia celeste. Davanti le ardeva, in un bicchiere, un lumicino di cera agli sgoccioli, che mandava una tenue luce tremolante.
“Vieni, vieni”, chiamò. Mi mise la mano sulla spalla: “Vedi! Non ti sembra una camera mortuaria?”.
“No, no, è perché stasera non c’è la luce…”.
E lui sorridendo: “Ma bene, ma bene; proprio tutto bene!”.
Portai dalla chiesa una candela per lui, una per me. La corrente mancò tutta la notte.
Cenammo insieme in parlatorio; ma prima avevamo detto insieme il santo Rosario, con tutte quelle preci che in Congregazione si usa di aggiungere.[64] Il santo Breviario lo aveva detto un po’ in viaggio, un po’ in casa, mentre io facevo da mangiare. Finita la cena, andammo in chiesa per le preghiere della sera; le segnava lui stesso. Poi, verso le nove, ci ritirammo in camera.
Fuori dei luoghi nominati, non è stato in alcun altro luogo della casa. Nemmeno è uscito di casa, per andare in qualche luogo di Sanremo, come al San Romolo od altro. I tre giorni di vita a Sanremo li ha trascorsi tra camera, parlatorio e chiesa. Non è uscito nemmeno nel giardino. Nei tre giorni il tempo è stato abbastanza buono, meno nell’ultimo, nel quale ha piovuto.
Rientrato in camera, anch’io passai nella mia camera, lasciando la porta aperta, per il caso che si sentisse male ed avesse bisogno di aiuto. La notte passò tranquilla, dormì bene.
10 marzo: una giornata da buon religioso.
Si levò verso le ore sei, forse un po’ prima. E così fece nei tre giorni che visse a Sanremo. Dicemmo insieme l’Angelus, le preghiere della levata. Poi andammo in Chiesa; segnò egli stesso le preghiere di regola del mattino, poi facemmo la mezz'ora circa di meditazione. Lesse lui stesso l’Apparecchio alla morte di S. Alfonso.[65] Finita la meditazione, passò in sacrestia, si vestì e celebrò la Santa Messa alla comunità; ma già s’era sparsa la voce ch’era arrivato, ed in chiesa vennero diverse persone; in tutto, in chiesa, c’era una cinquantina di persone, specie signore, benefattrici.[66]
Finita la S. Messa, è andato al suo banco, in Chiesa, a fare il ringraziamento; prima in ginocchio, poi seduto. Pregava, tutto assorto, con i gomiti sulla spalliera del banco ed il volto fra le mani.
Dopo una mezz’oretta, era pronta la colazione: caffè, latte, qualche biscotto. “No, un po’ di pane, pane ci vuole, è più sostanzioso. Una volta non avevamo nemmeno il pane”. Ed infatti prese un po’ di pane ed una tazzetta di caffè e latte, iniziando e chiudendo col segno della Croce, come si usa in Congregazione. Poi le suore mi avvertirono che c’era della gente che voleva parlare con Don Orione, e lui ricevette. Un professore, primario dell’ospedale di Sanremo, lo visitò verso le 10, su chiamata di Don Bariani.[67] Don Ghiglione riferisce: “Lunedì mattina c'è stata la visita del dottor Giuseppe Panizzi, ricevuto da Don Orione nella sua cameretta. Gli ha fatto un po' di resoconto dei fatti passati riguardanti la sua salute e, così, brevemente, è stato liquidato senza che gli abbia fatto una visita vera e propria”.[68]
Don Orione ritorna al lavoro sul tavolino, in camera, fino all’ora di pranzo.
Passa ore al tavolino a sbrigare la corrispondenza. Ogni tanto lo vedo interrompersi: “Gesù, Gesù”. Rimane assorto in preghiera un momento, poi la penna riprende a correre.
Alle dodici dicemmo insieme l’Angelus; indi passammo in parlatorio per il pranzo. Poi andammo in chiesa per la Visita: c’erano anche le suore che lo avevano aspettato. Usciti di chiesa, insistei perché non riprendesse subito il lavoro, ma si riposasse un poco.
“Ma dì – rispose – lascia un po’ stare; riposeremo in Paradiso”.
Scrisse altre lettere, mi mandò ad impostare. Il giorno prima (il 9) mi aveva fatto impostare una quindicina di lettere; oggi, tra mattina e pomeriggio, ne ho impostate diciotto o diciannove.
A tratti poggiava gli occhiali sul tavolo e metteva il volto fra le mani. Penso che in quei momenti pregasse; era una interruzione del lavoro per volgere il pensiero a Dio. “O Gesù, o Gesù!” era la sua giaculatoria più usata.
Nel pomeriggio ricevette ancora. Vennero don Enrico Bariani, don Severino Ghiglione e qualche altro.
Quando incominciammo a recitare il Rosario, speravo che si mettesse a sedere. Ma lui si inginocchiò, ed allora anche io mi inginocchiai e così recitammo il Rosario, con le solite preghiere aggiunte, come si usa in Congregazione. Cenammo come al solito, verso le sette; c’era anche don Bariani. La conversazione la teneva lieta e serena.
Dopo cena passammo in chiesa a recitare le preghiere della sera; poi don Bariani ci dette la Buona notte e si ritirò; anche noi ci ritirammo. Don Orione lavorò un po’ al tavolino, poi si mise a letto, e lesse un po’ la vita di S. Francesco. Mezz’ora dopo, circa, spense il lume, e dormì placidamente.
La giornata era stata per lui una delle solite: di lavoro e di preghiera; aveva parlato il necessario, taciuto molto. L’atteggiamento sereno e lieto, e qualche frase scherzosa per allietare l’ambiente, come era solito.[69]
La salute era stata buona. Tanto che m’aveva detto ad un certo punto: “Ma guarda che ammalato sono io! Guarda se sono da mandare qui per acquistare la salute!”.
11 Marzo: preghiera, lettere e gioco di furbizia con Modesto.
Levata come al solito, alle sei. Diciamo insieme l’Angelus e le preghiere della levata. Preghiere del mattino che segnò lui stesso; mezz’ora di meditazione sull’Apparecchio alla morte di S. Alfonso; verso le sette la S. Messa. Un po’ lunga anche questa mattina. L’atteggiamento, sempre più raccolto, era ancora più assorto del solito nella preghiera. Io lo guardavo, e mi colpiva quella sua bella devozione, semplice, tanto assorto.[70]
Dopo il ringraziamento, colazione in parlatorio. Mangiò ancora quel poco, ma con buon appetito. Poi al lavoro, verso le otto.
“Quest’oggi è giornata campale”, mi disse.
Doveva, fra l’altro, spedire il telegramma al Santo Padre, che gli costò molte prove, dato che non se ne sentiva soddisfatto. Il telegramma lo fece verso le dieci del mattino; andai io a portarlo alla posta verso le 11 o 12.
Per la sua corrispondenza mi fece scartabellare più volte i Promessi sposi del Manzoni, e la Divina commedia di Dante Alighieri.[71]
Come la giornata precedente, sospendeva di tanto in tanto il lavoro per prendersi il capo fra le mani, con quell’atteggiamento che mi sembrava di preghiera; e non mancava di fiorire le parole, che mi rivolgeva, con un buon pensiero delle cose di Dio.
Alle 12, come al solito, Angelus; poi pranzo in parlatorio. Indi la Visita al Santissimo Sacramento in Chiesa. Nella mattinata aveva ricevuto anche alcune visite in parlatorio: due o tre signore.
Ed eccoci al riposo, dopo il pranzo. Io m’ero accorto che la sua veste era lisa sul petto, dalla parte sinistra e da un momento all’altro poteva rompersi.
“Signor Direttore, gli dissi, riposi un poco. Intanto io porto la veste alle suore e la faccio rammendare…”. Volevo proprio che nel pomeriggio facesse una bella riposata. Mi guardò un po’, poi mi disse: “Senti, non potrebbero ripararla questa sera? Vai a sentire le suore”.
Dalle suore non ci andai. Uscii un poco e dopo una decina di minuti tornai.
“Le suore alla sera sono stanche, il lavoro lo fanno più volentieri di giorno. Mi dia la veste dopo il pranzo!”.
Dopo il pranzo, lui si mise a letto, perché aveva una sola veste: allora entrai in camera, dopo aver chiesto permesso, a ritirare l’indumento. Egli mi fermò col gesto e mi disse: “Intanto che le suore riparano l’abito, va’ a visitare il santuario di Bussana. Prega, prega. Vedrai che bel santuario che trovi!”.
Tra andare e venire sarò stato via un’ora e mezza. Tornato, la veste non era ancora pronta. Me la dettero verso le quattro. Pensando che Don Orione dormisse, non lo disturbai. Poi m’accorsi che faceva dei versi con la gola come uno che chiarisca la gola: capii che era un modo discreto per farmi capire che aspettava la veste. Allora mi decisi, bussai ala porta:
“Permesso?”.
“Un momento – rispose. E poi: Avanti!”.
Entrai, l’attesa era stata brevissima. Ma vidi subito che aveva lavorato; sentendomi chiedere permesso, era andato a mettersi a letto, in fretta, tanto che una coperta era scivolata da una parte in terra. Sul tavolo c’era un bel mucchio di lettere.
“Oh, sei arrivato!”.
Avevo la veste tra le mani. E vedendo che guardavo al mucchio delle lettere su tavolo:
“Cosa guardi, curioso!”.
“Guardo, guardo…”, balbettai io.
I miei occhi e la mia testa stavano rivolti a quel mucchio di lettere; mi dispiaceva pensare che non aveva riposato. Uscii di camera. Lui intanto indossò l’abito; poi mi chiamò, mi mandò ad impostare. In conclusione Don Orione, dopo la colazione, era stato occupato tutta la giornata. Scrisse 22 o 23 lettere, che parevano molto impegnative, a giudicare dall’attenzione e cura che vi mise nello stenderle.[72]
Poco prima di cena, arrivò Don Umberto Terenzi, parroco del Divino Amore, su suggerimento di Padre Pio da Pietrelcina, ricevuto cordialissimamente.[73]
Don Orione descrive così, quei giorni trascorsi a Sanremo: “Mi trovo a Sanremo da tre giorni per un po’ di convalescenza, perché, dopo quella bastonata al cuore e quando già avevo ripreso a dire la santa Messa, mi capitò addosso una bronchite, da cui comincio a sentirmi libero da pochi giorni. Veramente avrei dovuto riprendere servizio, ma sono venuto qui unicamente per accontentare don Sterpi e tanta brava gente. E mi ci sono rassegnato; ma, grazie a Dio, spero di poter riprendere presto il mio modesto lavoro per la fanciullezza bisognosa di fede e di un’arte che dia pane, e per i nostri cari poveri. Non è tra le palme di Sanremo, ma tra i poveri che devo vivere e morire”.[74]
“Io regolarmente, in quei tre giorni – riferisce Modesto l’infermiere – gli feci le iniezioni di Resil, una la mattina dopo la Messa, una alla sera prima di cena. Gli davo anche le gocce di Coramina, 20 gocce, tre volte al giorno, prima dei pasti. Prendeva anche lo Strofando, tre volte, 14-15 gocce”.
12 Marzo: ore serene tra visite e lettere da scrivere.
Don Orione passò la giornata del 12 marzo molto tranquillamente, secondo il consueto orario. Levata alle 6; Angelus, preghiere della levata; in chiesa per la meditazione, santa Messa, ringraziamento.
La S. Messa fu un po’ lunga, come nei giorni precedenti. Finì verso le 7.30.[75] Poi io dovetti assentarmi. Mentre uscivo di chiesa, Don Orione s’avvicinò a don Terenzi: “Andiamo, servo io la S. Messa”.
Feci a tempo a vedere che don Terenzi, il quale non poteva dire di no, s’alzava e muoveva verso la sacrestia. Tornai il più presto che potei; entrai in chiesa che si era al Sanctus. Don Orione stava in ginocchio sulla predella. Mi vide, ma non si mosse. Allora, io mi inginocchiai in terra tra il celebrante e lui. Lo guardavo, ma non si muoveva. Lo tirai per la cotta. Si voltò.
“Lascia, lascia. Servo io”, mormorò.
“No, no, la servo io…”.
“Ma lascia, lascia”.
“Ma no, faccia il piacere, non si stanchi, si metta al banco”.
“Oh, non posso più nemmeno servire Messa!”.
Si alzò, ed andò al banco, con la sua cotta, pregando, e si trattenne sino alla fine della Messa.[76] In chiesa c’erano diverse persone: una ventina. Erano, generalmente, signore che lo conoscevano ed erano venute a sentire la sua Messa; s’erano però trattenute, vedendo che Don Orione era ancora in chiesa.
Finita la Messa di don Umberto Terenzi, Don Orione restò ancora un po’ in chiesa a pregare. Poi è venuto in parlatorio con don Terenzi, quando io li chiamai perché la colazione era pronta. Intanto era arrivato anche don Enrico Bariani, ed insieme, i tre, fecero colazione in parlatorio. Venne anche don Ghiglione dall’Istituto San Romolo.
Poco dopo le 10, giunse il canonico Arturo Perduca da Tortona, Paolo Pedevilla, il noto benefattore tortonese, ed il chierico argentino Ignacio Merino.[77] Verso le 11 cominciò a piovere. A mezzogiorno pranzammo. C’erano a tavola Don Orione, don Perduca, Pedevilla, don Bariani ed io. Conversazione piacevole. C’era anche don Terenzi. Finito il pranzo tutti uniti andammo in chiesa per la visita al Santissimo Sacramento.
Quel giorno niente riposo. Restammo uniti fin verso le 16 in parlatorio. Al congedarsi dagli altri, Don Orione divenne serio e ci rivolse queste parole: "Vi presento l'insigne nostro benefattore di Tortona, il più grande, quello che, come sapete, vuole in casa sua i Buoni Figli (come li chiamiamo noi) ed intende lasciare i suoi beni perché questa opera di bene continui. Presenti voi, lo assicuro che, appena a Tortona, il primo che andrò a visitare sarà lui”.
Don Perduca, don Bariani e Pedevilla si congedarono da Don Orione.[78] Don Perduca chiese la benedizione per la Congregazione, per tutti noi, per Pedevilla, per se stesso. E Don Orione: “Ben volentieri la dò, ad un patto, che voi poi diate la benedizione a me”.
Alla loro partenza, Don Orione consegna una lettera per don Sterpi. “Caro Don Sterpi, il Signore sia sempre con noi! Vi mando da Don Bariani una parola che vi tranquillizzi, oltre a quanto vi dirà lui. Sto bene, non ho più sentito alcun disturbo: mangio con appetito e dormo molto, non ho mai dormito tanto così, ho fin vergogna. Non sono ancora uscito perché il tempo non è guari buono; se si farà bello, andrò a far visita a Mgr. Rousset e a Mgr. Daffra, e forse mi spingerò sino alla Madonna della Costa e al Santuario del S. Cuore, a Bussana”.[79]
Si stava chiudendo anche la giornata del 12 marzo. Don Orione era lieto. Quando si erano messe a suonare le campane della chiesina delle Carmelitane che sta poco distante da Villa Santa Clotilde, Don Orione si era rivolto a don Bariani: “Senti? Le Suore ti chiamano”. Don Bariani era stato al mattino a celebrare presso quelle Suore e gli era stato fatto un rimbrotto perché aveva sporcato di tabacco la biancheria della Messa. Aveva raccontato la cosa a Don Orione e questi gliela ricordava scherzando.
La quiete della sera.
Restato solo, Don Orione terminò il Breviario ad intervalli. Le altre operazioni della giornata si susseguirono come gli altri giorni. Alle 18, santo Rosario, Angelus, ecc. Verso le 19 eravamo a cena.
“A mio giudizio, Don Orione ha lavorato, sì, non sarebbe stato capace di stare lì ad oziare, ma ha lavorato serenamente, senza strapazzi o strafare – osserva Modesto Schiro -. Nella giornata del 12 ha scritto qualche lettera, poche, di cui una alla Contessa Ida Gallarati Scotti, consorte del Podestà di Milano. Le impostai io. Quattro o cinque, mi pare; non di più, perché le visite lo tennero molto impegnato”.
Dietro un'immaginetta, scrisse in quel giorno: «Signore, voglio oggi e sempre regnare nel tuo paterno cuore e tra le braccia della Santa Madre Chiesa, Madre dei Santi e anche Madre della mia anima».[80]
Don Umberto Terenzi si è congedato tra le 17 e 18.[81]
Verso le 19 siamo a cena.
Sono le ore 20. Don Orione si preoccupa che don Bariani accompagni don Terenzi alla stazione, poi lo abbraccia: “Crescete nell’amore della Madonna e spargetelo dappertutto!”.
Dopo, insieme, diciamo le preghiere della sera;[82] indi ci ritiriamo.
Don Orione va in camera verso le 21 e si dispone a dire le preghiere personali.
Si era da poco ritirato, quando suonò il campanello del telefono. Era il Grand’Ufficiale Achille Malcovati che chiamava da Roma. Don Orione si alzò e si portò all’apparecchio. L’amico, ignaro della sua situazione, gli raccomandava una povera donna bisognosa di essere accolta in un Piccolo Cottolengo. L'accettò suggerendo di mandarla a Genova. Don Orione, a distanza di un’ora dalla morte, dice il suo ultimo “si”.[83]
Erano circa le 22. Rientrò in camera. Il chierico Modesto era nella camera vicina con la porta comunicante.
“Dormendo io in una camera accanto alla sua, mi accorsi che Don Orione lavorò ancora un poco. Scrisse a don Giuseppe Zanocchi e poi ad un benefattore. Indi si coricò, leggendo un po’ del suo San Francesco.
Per precauzione avevo lasciato, come nei giorni precedenti, la porta aperta per il caso che si sentisse male ed avesse bisogno di aiuto. Mi recai, prima di mettermi a riposo, ancora una volta da lui per assicurarmi delle condizioni. Mi congedai augurandogli la buona notte e mi rispose: «Buon riposo. Sia lodato Gesù Cristo».
Così cominciò quella notte.
Ore 22.45: “Gesù, Gesù… vado”.
“Un quarto d'ora dopo sentii una specie di lamento: accorsi immediatamente. Erano le 22,30. Don Orione aveva, nel suo letto, due cuscini. Teneva, nel dormire, la testa un po’ alta, per il cuore e la respirazione. Quando si sentì male, accese la luce e si tirò più su. L’aspetto non era preoccupante, ma capivo che non stava bene. Teneva la mano sinistra sul cuore, e con la mano tormentava in quel punto un po’ la camicia.
Gli chiesi: “Le faccio una puntura, signor Direttore?”.
E lui: “No, no, aspetta un poco, che passa”.
Stava sul letto, in silenzio. Premeva la mano sul cuore, sentivo che stringeva un po’ i denti in qualche momento. Si vede che il male era forte, benché i segni esterni non fossero così notevoli come nell’altra crisi. Qualche volta muoveva gli occhi verso l’alto, ma non pronunciava parole. Io stavo lì, guardando, senza toccarlo, sempre più preoccupato, per vedere come si mettevano le cose. Avevo visto l’altro attacco a Tortona che era molto più forte. Pensavo che sarebbe passato.
Passarono così alcuni minuti. Proprio credevo in un malessere passeggero.
Poi insistei un’altra volta: “Signor Direttore, facciamo la puntura!”.
“Aspetta un poco!”.
Allora proposi: “Prenda almeno alcune gocce di coramina!”.
“Bene, quelle sì”.
Gliele versai subito e allora le prese: tre piccoli sorsi, rapidamente, per consumare quel dito d’acqua nel bicchiere”.
Erano passati dall’inizio pochi minuti, circa un quarto d’ora. Visto che aveva preso la coramina e che il male non accennava a diminuire, tornai ad insistere:
“Facciamo anche la puntura”.
Fece a questo punto segno di accondiscendenza.
“Si”, disse.
Avevo già preparato tutto. Rapidamente feci l’iniezione di Resil.
Visto che aveva la respirazione difficile, lo sollevai e misi dietro la schiena alcuni cuscini: in seguito pensai bene farlo scendere su una poltrona accanto al letto. Ma peggiorava.
Vuole che chiami don Bariani?
Sì, sì.
Uscii e tornando vidi Don Orione disposto a scendere dal letto.
Vuole ossigeno?
Sì.
Mentre, sul letto, prendeva l’ossigeno arrivò don Bariani.
Insieme lo aiutiamo a sedersi sulla poltrona.
Don Orione gli sussurra: “Un dottore”.
Don Bariani esce a cercare un dottore.
La poltrona era dalla parte opposta del comodino, verso la finestra. Io gli tenevo il braccio destro intorno alla spalla, e lui appoggiava su di me il capo; era ormai morente.
Intanto, per il tramestio, anche le suore si accorsero che qualche cosa di grave stava succedendo.[84] Suor Maria Rosaria, la superiora, pensando che potevamo aver bisogno di qualche cosa apparve sulla porta di comunicazione tra la mia camera e quella di Don Orione. Don Orione fece il gesto per fermarla con la mano mancina.[85]
La Suora uscì. Don Orione fece un gesto energico per allontanare con la sinistra le coperte e, sorretto, si adagiò sulla poltrona appoggiando il capo sul mio braccio. Sudava. Lo avvolsi in una coperta, lo scialle nero sulle spalle.
Quando poi vidi che Don Orione stava proprio morendo, io feci cenno a Suor Maria Rosaria, che vedevo come un’ombra furtiva, affacciarsi appena alla porta e sparire, di venire. Essa entrò, ma senza farsi vedere da Don Orione, e si pose di dietro a me, che stavo al fianco della poltrona, con il beccuccio dell’ossigeno nella mano sinistra e col braccio destro circondavo le spalle del morente, il quale si abbandonava sul mio petto e contro il mio viso.[86]
Don Orione, con gli occhi rivolti al cielo, sussurrò “Gesù, Gesù”, una prima volta, ed ancora “Gesù, Gesù”, e poi “Vado”.[87] Alzò gli occhi verso di me, rivolgendomi uno sguardo che non dimenticherò mai più. Non c'era in lui nessun segno di turbamento, ma una grande serenità. Poi, per la terza volta, alzando ancora gli occhi al cielo, senza rantolo, senza affanno, ripeté: “Vado... Gesù! Gesù!” e reclinò il capo sulla mia spalla”.
Sono le 22,45 del 12 marzo 1940.
[1] Don Giuseppe Zambarbieri (1914-1988) fu discepolo caro a Don Orione e suo successore alla guida della Congregazione dal 1963 al 1975; Archivio Don Orione [citato ADO], Roma, Relazione di Don Giuseppe Zambarbieri.
[2] Don Modesto Schiro era nato a Vicenza nel 1898 e, dunque, aveva 42 anni nel 1940; morì nel 1979. Combatté come bersagliere nella I guerra mondiale a Caporetto e sul Piave. Entrò in Congregazione a 30 anni; uomo semplice e pratico, affezionato a Don Orione che accudì come un padre; ADO, Relazione di Modesto Schiro.
[3] Mi servirò principalmente dei fascicoli presenti in ADO di Carlo Sterpi, Felice Cribellati, Adriano Calegari, Umberto Terenzi, Suor Maria Rosaria (Caterina Baiardi), Arturo Perduca, Enrico Bariani, Severino Ghiglione, Giovanni Venturelli, Domenico Sparpaglione, Guido Codevilla. Fonte preziosa di notizie è: Sacra Congregatio pro Causis Sanctorum, Beatificationis et canonizationis servi Dei Aloisii Orione sacerdotis professi fundatoris Congregationis Filiorum Divinae Providentiae et Parvarum Sororum Missionariarum a Caritate. Positio super virtutibus, Postulazione della Piccola Opera della Divina Provvidenza, vol. I-III, Guerra, Roma, 1976 [Sarà citato Positio]. È utile la lettura delle biografie di Giorgio Papasogli, Vita di Don Orione, 5a edizione, Gribaudi, Milano, 2004, soprattutto dei capitoli 59 e 60, p.499-521; e di Domenico Sparpaglione, San Luigi Orione, 10a edizione, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004, p.291-308.
[4] Si veda M. R. Zbicajnik e F. Mela, Don Orione e il diabete, “Messaggi di Don Orione” 2011 (42), n.135, p.47-55. L’unica malattia seria che Don Orione aveva affrontato durante la sua vita fu la polmonite, nel novembre 1926; Cart. Codevilla 5, III.
[5] G. Venturelli, Positio, p.925-926.
[6] Buona notte del 25 settembre 1938; Parola IX, 385.
[7] Ne riferiscono nella Positio A. Boggiano Pico (p.171), G. Zambarbieri (p.716), G. Venturelli (p.926).
[8] Il senatore Stefano Cavazzoni, che organizzò quella conferenza, testimoniò: “All'uscita dall'Università cattolica, stretto da una folla che non voleva lasciarlo, io vidi i professori di università e non solo di quella di Milano, inginocchiati a terra, fusi ad operai, industriali, impiegati, a povere donne, a dame dell'aristocrazia, per avere il saluto e la benedizione”. Le foto ritraggono un Don Orione sofferente oltre che quasi umiliato da tante manifestazioni di plauso alla sua persona.
[9] Positio, 244-345.
[10] Don Zambarbieri testimonia: “Il primario prof. Manai insisteva perché Don Orione si spogliasse, ma non ci fu verso. Don Orione se ne scusò amabilmente. Egli non volle farsi accorgere che portava il cilicio. Il prof. Manai che dovette poi costatare i segni della penitenza di Don Orione, ne fu molto ammirato ed edificato; ne ebbe anzi una salutare scossa per la sua vita religiosa che diventò, dopo gli incontri con Don Orione, assai più esemplare”.
[11] La testimonianza è del dott. Siro Mazza, riportata da Don Venturelli.
[12] Nella prima Buona notte del sabato santo, disse: “Sono venuto ancora una volta a darvi la buona Pasqua ed insieme ad invitarvi a ringraziare il Signore del dono grande che ci fa. Oggi abbiamo avuto a Roma 8 nuovi Sacerdoti e 7 Diaconi”; Parola X, 141.
[13] Testimonianza di Don Sparpaglione; Positio, p. 401.
[14] Parola X, 143.
[15] Don Modesto Schiro, infermiere, testimonia: “Io che lo avevo in cura come infermiere, gli praticavo in quei casi iniezioni di Resil e gli amministravo gocce di Coramina ordinate dal dottore. Gli attacchi si ripetevano di tanto in tanto, senza che gli impedissero di attendere al suo ufficio”.
[16] Don Sparpaglione testimonia: “Io rimasi meravigliato ed ammirato nei successivi esercizi di Bra, nei mesi estivi, della tranquillità con cui dichiarava che l'angina pectoris non gli avrebbe consentiti troppi mesi di vita”.
[17] Emanuele Caronti fu Visitatore Apostolico della Piccola Opera della Divina Provvidenza dal 1936 al 1946. Dopo il primo momento con carattere “ispettivo”, la sua visita, anche per volontà esplicita di Don Orione, assunse un carattere “formativo” per la Congregazione orionina che egli accompagnò a strutturarsi nelle forme canoniche fino alla sua approvazione pontificia (1944). Don Orione lo considerò come insigne benefattore della Congregazione. Cfr la biografia di G. Lunardi, Emanuele Caronti. Uomo di Dio e della Chiesa, Edizioni La Scala, Noci, 1982; C. Pensa, La visita apostolica, “Atti del Consiglio Generalizio della Piccola Opera della Divina Provvidenza”, ottobre-dicembre 1946, p. 9-12.
[18] Ne riferì ai confratelli l’11 ottobre 1939; Parola XI, 153.
[19] Don Orione aveva informato che la “Casa nei dintorni di Genova e verrà intitolata ‘Cenaculum Christi’ e servirà per quei Signori che volessero raccogliersi per brevi giorni in santo ritiro”; Parola XI, 197.
[20] ADO, Cart. Zambarbieri.
[21] Parola XI, 278.
[22] Parola XI, 286.
[23] Parola XI, 322.
[24] Parola XI, 333.
[25] Parola XII, 5-8.
[26] Parola XII, 15.
[27] Parola XII, 45.
[28] Il card. Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, “aveva di Don Orione grande stima e ne parlava come di un santo”; Testimonianza di don Fausto Capelli; Positio, p. 508; cfr F. Peloso, Don Orione e il cardinal Schuster. Due santi per il Piccolo Cottolengo Milanese», “Terra Ambrosiana”, luglio-agosto 2003, 44-52.
[29] Don Orione fece un resoconto dei suoi problemi di salute passati in quel febbraio 1940 nella lettera a mons. Leone Nigris del 5 marzo 1940, Delegato Apostolico in Albania; Scritti 49, 188-190.
[30] Parola XII, 108.
[31] Lettera a mons. Leone Nigris, cit.
[32] “Conscio all’estremo pericolo che correvo, chiesi e ricevetti il santo Viatico e la Estrema Unzione. Poi, anche la mente si annebbiò mentre continuava un rantolo affannoso che sembrava proprio quello della morte. Non ricordo bene per quanto tempo rimanessi così: il cuore resistette e, a poco a poco, il rantolo scomparve”; Lettera a mons. Leone Nigris, cit.
[33] A Don Zanocchi, Don Dutto e ai confratelli in Argentina, proprio il 15 febbraio scrive: “Non vorrei che steste in trepidazione d'animo qualora vi fosse giunta la notizia che qualche giorno fa un malore improvviso, dello stesso genere di quello che mi capitò in Alessandria a marzo, tenne per qualche ora tra la vita e la morte la mia vita. Mi trovavo a dormire, ché era notte, quando mi sentii come morire e mi vidi veramente la morte davanti, tanto che a gran fretta ebbi il Viatico e l'Estrema Unzione. Poi passò, ma l'insulto cardiaco si ripeteva alla distanza di alcune ore, e sempre più grave. Tengo ancora il letto e solamente stamattina ho potuto alzarmi per celebrare. Mi sento assai meglio, ma, per qualche tempo, dovrò riposare; come vedete non sono io che Vi scrivo, ma detto”; Scritti 68, 157.
[34] Resoconto in Parola XII, 109-110.
[35] È un estratto della Buona notte riportata in Parola XII, 116-121. Poi prosegue parlando della vita comunitaria, dell’Anime, anime! e dell’apostolato. È interessante constatare come Don Orione dialoga con gli eventi della malattia che sembrano sovrastarlo. In realtà, è lui che li domina con una coscienza lucida e attiva della vita vissuta, sostenuta dalla visione del futuro e della vita eterna.
[36] È ancora Zambarbieri ad annotare questi ricordi.
[37] “Più di una volta, aprendo gli occhi e vedendomi nella camera – prosegue Zambarbieri -, mi rimproverava dolcemente “Ma sei ancora qui? Poi, con voce di supplica: “Vai a letto…”.
[38] Lettera a mons. Leone Nigris del 5 marzo 1940, cit.
[39] Don Sterpi, fin dal 1° marzo, aveva inviato Don Bariani per incontrare Don Severino Ghiglione, direttore dell’Istituto San Romolo di Sanremo per approntare una cameretta per Don Orione a Villa Santa Clotilde. ADO, cart. Ghiglione.
[40] Lettera del 1° marzo 1940; Scritti 49, 74. Paolo Albera fu compagno e collaboratore di Don Orione nei primi tempi della fondazione della Piccola Opera; divenne Vescovo di Mileto in Calabria.
[41] Parola XII, 125-128. È solo un passaggio dell’omelia, abbastanza lunga e articolata, dalla quale traspaiono i temi cari di tutta la sua vita, e i sentimenti di gratitudine a Dio, di fiducia nella sua Provvidenza e l’attesa della “vita abbondante”.
[42] Positio, p. 671.
[43] Durante il pranzo, viene scattata anche una foto che è praticamente l’ultima foto di Don Orione.
[44] Cfr. lettera a Don Bartoli; Scritti 114,7.
[45] ADO, cart. Calegari.
[46] La lettera, datata 7 marzo fu terminata l’8 marzo; Scritti 22. 217-218.
[47] ADO, cart. Calegari.
[48] Don Luigi Orlandi ricorda: “Quando Don Orione parlava, durante gli esercizi spirituali, si annotavano le sue prediche. E subito dopo, o il più presto, si passava in dattiloscritto quanto tracciato frettolosamente. La sera dell’8 marzo 1940, nella cappella della Casa Madre di Tortona, gli scribaccini furono presi di sorpresa. Nessuno si attendeva che egli venisse a parlare, tanto era occupato negli ultimi preparativi della sua partenza per San Remo. Così, quando il noto passo strascicato risuonò nel corridoietto avanti la stanza dell’orologio, fu tutto un richiedere, ai più vicini, fogli da scrivere, matite e penne: sorse persino un piccolo problema... di rifornimento, allorché ci si accorse che Don Orione non diceva soltanto poche parole ma si accalorava, non accennando a finire. Poi, per stenderle definitivamente e fedelmente, si fecero veramente le ore piccole”; ADO, cart. Orlandi.
[49] Parola XII, 133-138.
[50] Don Giuseppe Zambarbieri: “Tutti avevamo il presentimento sicuro – e ce lo scambiavamo a vicenda – che la fine del nostro caro Padre doveva essere imminente. Quale senso si poteva dare alla sua ultima Buona notte se non questo?”.
[51] Don Zambarbieri affermò: “Ho la ferma persuasione che il Servo di Dio previde la sua morte. Negli ultimi mesi del 1939 e sul principio del 1940 mi lasciò capire sovente, in momenti di intima confidenza, che riteneva ormai prossima la divina chiamata”.
[52] Zambarbieri che era presente alla scena ricordò poi che c’era il denaro necessario per 4 giorni, fino al 12 marzo compreso! Da quel giorno altri provvidero per il pane quotidiano.
[53] Don Bariani racconta: “Don Sterpi mi aveva ordinato di accompagnarlo per stargli sempre vicino, ma al momento della partenza, vedendomi, Don Orione mi ordinò di restarmene a Tortona. Ritornato al Paterno, Don Sterpi mi vide e mi chiese perché non fossi partito. Io risposi che il Direttore non aveva voluto e che mi aveva rimandato a casa. Ma Don Sterpi non volle sapere ragioni e mi disse: Parti subito e non allontanarti mai da lui. Io ubbidii e con la macchina mi recai immediatamente a Sanremo”.
[54] Don Giovanni Venturelli ricorda: “Andammo di fretta noi alla stazione, perché lui era già andato avanti: quando ci vide, forse perché c'era gente e non voleva richiamare l'attenzione sopra di sé, baciò le mani all'unico sacerdote novello Don Pigoli, e poi ci fece un cenno di benedizione e ringraziandoci ci invitò a ritornare subito a casa”.
[55] “D’accordo con don Orlandi, si era pregato un fotografo di trovarsi al treno per qualche istantanea, e si era fatto pensando che potessero essere quelle le ultime fotografie del nostro caro Padre. Tanto era viva in noi l’impressione delle parole con cui il venerato Fondatore ci aveva predetta prossima la sua fine. Furono difatti, quelle due fotografie (il fotografo, disgraziatamente, non riuscì a fare di più e di meglio) gli ultimi ricordi di Don Orione che dovevano rimanere” (Zambarbieri).
[56] Di qui in avanti la ricostruzione degli eventi è fatta sulla base della testimonianza scritta di Modesto Schiro, molto dettagliata perché fu continuamente accanto a Don Orione dalla partenza da Tortona fino al momento della morte. Don Domenico Sparpaglione l’aiutò a rivederla letterariamente.
[57] Erano due noti e affezionati amici di Don Orione.
[58] Don Ghiglione ricorda così l'arrivo di Don Orione: “Nel pomeriggio del 9 marzo 1940 sono raggiunto sul terrazzo del convitto San Romolo da un chierico trafelato che mi dice: hanno telefonato dalla Villa che è arrivato Don Orione. Incredulità, meraviglia, commozione si susseguono nel mio animo e il disappunto di non essermi trovato a riceverlo. Ma come mai non hanno avvertito da Tortona? Ecco, Don Bariani con la sua macchina contava di arrivare prima, invece gli incidenti furono tanti che ad un certo punto comprese che non sarebbe arrivato in tempo e allora telefonò, ma mentre la suora riceveva la comunicazione, Don Orione suonava il campanello della Villa Santa Clotilde”.
[59] La stazione di Sanremo era piuttosto lontana da Villa Santa Clotilde.
[60] La suora era Suor Maria Eufrosina.
[61] Suor Maria Teresa Wasescha era in cappella: “Stavo preparando i veli violacei per coprire le immagini sacre, essendo il sabato precedete la Domenica di Passione. Don Orione venne subito in cappella a fare la visita al Santissimo Sacramento, trovò ancora le immagini scoperte e ciò ha fatto a lui piacere”.
[62] ADO, cart. Ghiglione.
[63] Il suo nome di famiglia era Caterina Baiardi, nata a Cassano Spinola (Alessandria) nel 1902 e morta a Tortona nel 1973. Era alta, di corporatura robusta; era di intelligenza aperta e di profonda sensibilità spirituale. Da qualche anno faceva da superiora nella villa Santa Clotilde a Sanremo.
[64] Don Ghiglione: “Vuole assolutamente che Don Bariani, l'infermiere ed io si ceni insieme nel parlatorio. Finita la cena Don Orione si inginocchia sul pavimento e segna le preghiere della sera”.
[65] Il libri di cui si servì Don Orione in quei giorni a Sanremo furono: il Breviario, la Divina Commedia, i Promessi sposi, l’Apparecchio alla morte e la Vita di San Francesco.
[66] Suor Maria Teresa Wasescha: “Il giorno 10 marzo venne a celebrare alle ore 8 la Santa Messa, servita da Modesto, l’infermiere. Le suore e il personale della casa, per non aggravare la stanchezza del Padre, non fecero la Santa Comunione da lui”; ADO, cart. Wasescha.
[67] “Quest’uomo è robustissimo, camperà ancora vent’anni”, disse il dottore a Modesto. Ma aveva aggiunto: “Desidero fare l’analisi delle orine, e poi anche quella del sangue”.
[68] Cart. Ghiglione.
[69] I testimoni concordano nel dire che “Durante i tre giorni che rimase a Sanremo era sempre ilare ed anche in vena di scherzare” (Don Bariani).
[70] Suor Maria Teresa Wasescha precisa: “Il giorno 11 marzo Don Orione ha celebrato alle 7.30. Già lo si vedeva quanto faticasse a fare le genuflessioni, e pure piegava il ginocchio sino a terra, dovendo poi fare gran sforzo per erigersi di nuovo”.
[71] Don Ghiglione ricorda: “Martedì 11 ho fatto parecchi giri per trovare l'indirizzo esatto delle sorelle Astesano Osculati: erano benefattrici del Piccolo Cottolengo Milanese; per la nefasta opera del pastore valdese Ugo Janni erano passate al protestantesimo, ma Don Orione pensava di fare loro visita nella certezza con l'aiuto di Dio e riuscire a farle tornare sulla buona strada”.
[72] Secondo la testimonianza di Modesto Schiro, Don Orione, dopo la sua partenza da Tortona, scrisse una sessantina di lettere: il giorno 9, una quindicina; il 10, 18 o19; l’11, 22 o 23 e il telegramma al Papa; il 12, 4 o 5.
[73] Don Terenzi riferisce nella sua lunga testimonianza scritta: “Lunedì 4 marzo 1940, mi trovavo a San Giovanni Rotondo (Foggia) dal Padre Pio da Pietrelcina, cappuccino stimmatizzato, del quale più volte Don Orione mi aveva parlato come di persona conosciuta bene. Anche Padre Pio, nelle mie visite a lui fatte, più volte mi aveva parlato di Don Orione come di persona conosciuta. Mentre ero in colloquio col Padre Pio e parlavamo di tutt’altro, all’improvviso mi dice: Lo sai che Don Orione sta male? “Ma no, Padre, è stato molto male ai primi di febbraio, gli hanno pure dato l’Olio Santo, ma ora è guarito, ha celebrato pure la Messa subito dopo gli attacchi al cuore. E Padre Pio: Ma sì, lo so, allora me l’hanno pure scritto da Genova. Ma ora ti dico che sta male; dicono che sta bene, lo credono, ma sta male. Il modo come m’ha detto tutto questo, m’ha dato l’impressione che volesse preannunciarmi vicina la morte di lui. Io ne ho avuto subito la convinzione; tanto che decisi, appena fossi tornato a Roma, di correre a trovare Don Orione, se ancora avessi fatto in tempo. La sera di domenica 10 corrente partivo per Genova. Alle 14.30 del lunedì ero a Sanremo, Villa S. Clotilde”; ADO, cart. Umberto Terenzi.
Di questo giorno è anche un breve scritto di Don Orione a Tullia Soster, di Strigno (Trento), una “figliuola spirituale di Padre Pio dal 1920”: “Andate pure da quella Persona [Padre Pio]: portate i miei rispetti e invocate una preghiera per la mia sincera conversione”; cfr F. Peloso, Don Luigi Orione e Padre Pio da Pietrelcina. Nel decennio della tormenta (1923-1933), Jaca Book, Milano, 1999.
[74] Lettera alla signora Anna Brusadelli dell’11 marzo 1940; Scritti 44, 183. Giulio e Anna Brusadelli sono i benefattori che hanno offerto la casa di Cassano Magnago per destinarla a orfani e ragazzi poveri.
[75] Suor Maria Teresa, sacrestana, ricorda che aveva preparato in bianco per la Messa, essendo il giorno della festa di San Gregorio Magno. Don Orione avrebbe voluto celebrare in violaceo, essendo nella settimana di passione, ma poi la guardò con un sorriso e le disse: “Oh, lasciamo, lasciamo così. E così ha celebrato la Messa di San Gregorio Magno”.
[76] Suor Maria Teresa vide che “nella fretta, Modesto venne in presbiterio con la cotta arricciata sulle spalle e Don Orione, vedendolo così, si avvicinò a lui e gli aggiustò la cotta con tanta delicatezza”.
[77] Recavano una lettera di Don Sterpi che si concludeva con “spero che la vostra salute andrà migliorando e Deo gratias!”.
[78] I Due arrivarono al Paterno di Tortona, verso le 22.30, diedero buone notizie sulla migliorata salute di Don Orione a Don Sterpi proprio mentre stava chiudendo una lettera per Don Orione che postillò: “Giunge il canonico e mi porta la vostra e le vostre notizie. Deo gratias!”. Proprio in quel momento Don Orione stava morendo.
[79] Lettera a Don Sterpi del 12 marzo 1940; Scritti 92, 60.
[80] Scritti 84, 20.
[81] Don Bariani ricorda: “Don Terenzi, senza rendersi conto delle condizioni fisiche di Don Orione, lo assediò per tutta una giornata in discorsi di non molta rilevanza. Don Orione lo ascoltava benevolmente senza dare segni di noia e di impazienza. Dovetti intervenire io per porre termine a tutto”. Don Ghiglione è più esplicito: “Bene per la sua venerazione al nostro padre, ma gli è mancata la discrezione. Era arrivato il martedì ed al mercoledì era ancora là. Non vedeva il disappunto di Don Bariani e mio? E si che non gliene facevamo un mistero. ‘Ma gli fa piacere trattenersi con me’, si giustificava. ‘Ma è un piacere che gli fa male’, incalzavamo noi. Finalmente Don Bariani gli ha detto chiaro di andarsene e si è poi deciso di prendere il treno delle 20.18”.
[82] In un’altra memoria del 4 aprile 1940, Modesto precisa che “entrò in camera ed inginocchiato per terra, appoggiato a una sedia, recitò le preghiere”.
[83] Commentando questo ultimo gesto di carità, il cardinale Siri, il 21 marzo 1965, disse: “Fu il suo ultimo si agli uomini”.
[84] Ricorda Suor Maria Rosaria: “Me ne andai a letto, ma molto preoccupata. Erano appena pochi minuti che avevo spento la luce e tutto ad un tratto sento uno che corre per le scale… e sento la voce di Modesto che chiama: ‘Don Bariani Don Bariani, presto il Direttore sta male’. Balzai dal letto, mi vestii alla meglio e via di corsa”.
[85] Suor Maria Rosaria testimoniò: “Lo trovai seduto sul letto agonizzante, con il capo abbandonato sulle braccia di Modesto. Quando però si accorse che chi stava per avvicinarsi a lui era una suora, si scosse, riprese nuova vita, anche quegli occhi ormai velati dalla morte si accesero e mi guardò con uno sguardo severo, ma anche paterno, e alzando quella mano tremante perché priva ormai di forza, mi fece cenno di allontanarmi”. Commentando quel momento, aggiunse: “Mai più potrò dimenticare quell’ultimo sguardo e quella mano! Non mi sono offesa, no, anzi sentii in quell’istante che mi trovavo di fronte ad un’anima grande, a un santo, a un qualcosa di sacro”.
[86] Suor Maria Rosaria: “Rientrai nuovamente in camera, quando sentii che con un filo di voce disse a Modesto: ‘Asciugami’. Siccome il fazzoletto che aveva era già tutto inzuppato perché il sudore gli cadeva a goccioloni dalla fronte e non poteva lasciare l’infermo, perché impotente a sorreggersi, andai io nel cassetto e lo diedi”.
[87] Suor Maria Rosaria aggiunge: “Un istante prima di morire, sembrò cercasse qualcosa, credo il Crocifisso, e poi incrociando le mani sul petto e stringendole forte, sollevò gli occhi al cielo e ripeté ‘Gesù… Gesù’”.