Fu uno dei Padri fondatori della Congregazione di Don Orione in Polonia.
“Mantenere viva la memoria di quanto è accaduto è un’esigenza non solo storica ma anche morale. Non bisogna dimenticare. Non c’è futuro senza memoria. Non c’è pace senza memoria”.
Sono parole ammonitrici, queste pronunciate da Giovanni Paolo II all’Angelus di domenica 11 giugno 1995, al termine della Celebrazione Eucaristica per il cinquantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale.
Il ricordo. È proprio quello che ha inteso fare l’Opera Don Orione il 18 e 20 giugno a San Remo per commemorare il cinquantesimo della morte di un suo illustre figlio, Don Biagio Marabotto, nativo di questa città (1895) e morto negli ultimi giorni di guerra in una stremata Varsavia, il 5 maggio 1945, per contagio di tifo contratto sulle frontiere della carità. L’epidemia stava facendo strage attorno a lui e il generoso sacerdote, pur senza mezzi e senza medicine, ma anche senza risparmio e senza troppe cautele personali, andava curando una grande quantità di malati, giovani e anziani di ogni nazionalità, ebrei compresi e non esclusi militari dell’Armir sbandati dopo le tragiche battaglie in terra russa.
Per ricordare la figura di questo sacerdote, tanto umile quanto eroico, dalla Polonia è arrivato l’Arcivescovo Bronislaw Dabrowski, il non dimenticato e benemerito segretario (per ben venticinque anni) della Conferenza episcopale polacca, che ha presieduto la Concelebrazione Eucaristica di domenica 18 giugno nella Cattedrale di San Siro e, rievocando gli antichi rapporti personali di discepolato con Don Biagio, ha tracciato la figura di un sacerdote di straordinaria levatura per coraggio, cultura, estrema fedeltà alla Chiesa e a Don Luigi Orione e soprattutto per eroica carità: quella carità che lo aveva portato a farsi fratello dei contagiati di tifo fino a contagiarsi lui stesso e rimanerne vittima nello spazio di pochi giorni.
Del profilo spirituale di lui il presule polacco non si è stancato di ripetere che la propria formazione religiosa e sacerdotale la deve tutta a Don Biagio, il quale era di un rigore e nello stesso tempo di una amabilità fuori dell’ordinario, con uno stile di vita talmente orionino e stampato sull’esempio del fondatore, che quando egli venne in Italia e per la prima volta conobbe Don Orione, si accorse che lui Don orione lo aveva già visto tale e quale in Don Biagio.
Nella stessa Concelebrazione la presenza del superiore generale Don Roberto Simionato stava a indicare l’interesse che, anche all’interno della Congregazione la figura di Don Biagio va assumendo mano mano che procede una specie di riscoperta delle sue vicende, che peraltro fin dagli inizi gli avevano meritato, anche da parte di alti personaggi (es. l’allora Mons. Montini), il titolo di “martire della carità” .
L’altro momento rievocativo si è svolto il martedì successivo, giorno 20 giugno, nel Teatro dell’Opera del Casinò di San Remo, dove le testimonianze sulla figura di Don Biagio, oltreché ancora da S. E. Mons. Bronislaw Dabrowski, sono venute da un altro confratello polacco, Don Stephan Batorj, che assistette Don Biagio nei pochi giorni di malattia e ne raccolse sino alla fine i sentimenti di fede e di donazione a Dio e alla sua santa volontà.
C’erano anche, però, fior di personggi attorno al tavolo e di fronte a un pienone di gente con in prima fila il Vescovo diocesano S.E. Mons. Giacomo Barabino e il Vescovo emerito S.E. Mons. Angelo Verardo, con tutte le autorità diocesane. C’era per esempio la scrittrice Luciana Frassati, che in qualità di consorte dell’ambasciatore polacco a Vienna, poté conoscere molto bene di persona il nostro Don Biagio e di lui ha lasciato una testimonianza superlativa in una pagina del libro “Il destino passa per Varsavia” , che termina con l’affermazione che Don Marabotto, per la forza della sua carità “stava diventando di giorno in giorno un prete sempre più leggendario”.
Molto più intima e più avvincente è stata la testimonianza di Don Batorj. Il Don Biagio vero, il Don Biagio sacerdote, religioso e apostolo è venuto fuori dalle sue parole dimesse e straordinarie. Il racconto che egli andava facendo della malattia mortale del suo superiore (lo chiamava così), che lui solo era incaricato di accompagnare fraternamente alla morte, i giorni (solo sei) e le ore che passavano febbrili tra i tentativi che si facevano per salvarlo; gli atteggiamenti coscienti e pieni di fede di Don Biagio: tutte queste cose segnavano di commozione le tappe del racconto. Era sempre Don Biagio a sostenere, confortare e suggerire. Suggeriva di non piangere come fa, diceva, chi non ha fede. Chiedeva di non pregare per la sua guarigione, ma perché si compisse sempre la santa volontà di Dio. Si offriva per la fine della guerra, per la pace, per l’Italia e per la Polonia che, diceva, era anche la sua Patria. Chiese un funerale povero e sotto la sua testa, dentro la cassa, volle che al posto del cuscino ci fosse un mattone, simbolo della Varsavia amata e distrutta. La fine arrivava rapidamente e Don Biagio si spegneva il 5 maggio 1945, a cinquant’anni di età, di sabato, come aveva fortemente sperato e anche previsto.
Erano passati vent’anni da quando Don Orione, in previsione degli sviluppi della sua Congregazione in terra polacca, lo aveva scelto trentenne come il più promettente dei suoi giovani figli spirituali e lo aveva mandato, in qualità di suo delegato, in quella nazione. Il fondatore promise più volte una visita, ma evidentemente non ne sentiva un profondo bisogno e di fatto non si affacciò mai sulla frontiera polacca, nonostante quel suo sviscerato affetto verso un popolo sempre generosamente pugnace e sempre misteriosamente straziato per la sua fede. C’era Don Biagio là, e lui bastava perché le opere crescevano e le vocazioni di sacerdoti e di suore arrivavano numerose e valenti. Don Orione in Polonia, ha detto qualcuno, era lui, Don Biagio: stessa tempra di fede e di carità.
Il primo incontro del giovane Biagio con Don Orione era avvenuto tanti anni prima, nel 1912, quando il fondatore era andato di persona a prenderselo a San Remo, mentre ancora stava faticosamente operando il distacco dalla amatissima famiglia, in un clima di preghiera (pareva un San Luigi, scrisse di lui Don Orione che un giorno lo aveva visto pregare) e illibatezza di vita. Gli aveva anche scritto, un giorno, il fondatore per incoraggiarlo, non certo con allettamenti e promesse, ma con la proposta della povertà di Gesù, “Se verrai da noi, gli aveva scritto, troverai una vita povera ma piena di felicità perché a noi basta Gesù… Non ti potrai aspettare nessuno dei godimenti e dei piaceri di questo povero mondo, ma Gesù ti consolerà e ti conforterà”.
E nel viaggio, mentre lo accompagnava a Tortona, non poteva mancare un incontro con la Santa Madonna. Al Santuario della Misericordia di Savona ci arrivarono “pregando e pregando tanto” scrisse ancora Don Orione, e commossi di gioia perché in quei luoghi il giovane Biagio non c’era mai stato, ma confessò di averli visti con ogni particolare in un sogno.
Seguirono gli anni della formazione e dello studio, con molte e varie esperienze che il fondatore gli faceva fare in più parti d’Italia. Ci pensò poi la guerra, con quattro anni di gavetta (“un ufficialetto” diceva lui), con una grave malattia e una pesante prigionia a dargli la tempra forte e giusta. Nel 1920 venne l’ordinazione sacerdotale e vennero anche subito dopo, altre esperienze di ministero sacerdotale.
Fino a che un giorno Don Orione lo chiamò e lo spedì, sacerdote da soli cinque anni, a fondare la Congregazione in Polonia. Seguirono quindici lunghi anni di eccezionale fecondità spirituale. La Congregazione si ampliava per numero di religiosi e di opere, mentre lo spirito di Don Orione nella sua espressione più autentica e rigorosa si trasmetteva ai generosi figli della Polonia attraverso la parola e l’esempio di Don Biagio.
Ma fu ancora una guerra, l’ultima e la più micidiale, a fare scoprire i veri confini dell’energia spirituale di cui Don Biagio era capace. Era solo un prete come tanti altri, fino a quel momento solo un buon prete e un buon religioso, ligio ai suoi doveri e anche intraprendente, ma dentro i confini di un ruolo limitato, che era quello di un superiore che deve soprattutto far camminare la sua comunità, far crescere opere e figli spirituali.
Con la guerra, Don Biagio diede la vera misura di sé e si aprì a due prospettive molto più ampie. Da una parte, un’epidemia di tifo lo gettava in un’impresa di carità senza misura che alla fine ne faceva un martire. Dall’altra parte, ci fu chi gli assegnò una specie di ruolo diplomatico, che egli accettò con fiducia e svolse con assoluta adeguatezza, fornito com’era di quelle doti di prudenza, di sagacia, intelligenza e cultura che occorrevano.
Essendo stato rispedito a Roma il nunzio apostolico Mons. Filippo Cortesi, perché non gradito all’occupante tedesco, una specie di diplomazia coperta tra la Chiesa polacca e la Santa Sede (personalmente con l’allora Mons. Montini) passò a lungo attraverso la persona di questo umile e fedelissimo figlio di Don Orione, con scambio di informazioni e comunicazioni ma anche con l’invio da parte vaticana di mezzi e soccorsi per sacerdoti e Vescovi sbandati o in estrema difficoltà.
Un ultimo, tragico fardello venne a causa della guerra a pesare sulle spalle di Don Biagio confermandone le doti eccezionali di umanità e di coraggio. La guerra, con la presenza dell’occupante nazista, si portava dietro anche la tragedia dei “campi” dalla fama sinistra. Lui, Don Biagio, come italiano era stato risparmiato, ma i sacerdoti, i religiosi e i Vescovi polacchi che non erano potuti fuggire, erano finiti a languire e morire nei lager. Di molti di loro, fra cui non pochi orionini, Don Biagio si prese attentissima cura.
Ne segnaliamo uno solo perché è il nome di un sacerdote orionino per il quale, insieme ad altri sacerdoti, religiosi e anche Vescovi, sarà presto introdotta la causa di beatificazione collettiva. Questo sacerdote si chiama Don Francesco Drzewiecki e lo ritroveremo certamente nelle pagine della nostra storia. Era venuto giovanissimo in Italia, aveva conosciuto Don Orione, si era fermato alla sua scuola, era diventato un valoroso e generoso sacerdote e poi era tornato in patria. Ma qui ben presto finiva vittima delle operazioni delle SS e veniva rinchiuso, insieme con altri, prima nel campo di Lad e poi in quello ben più disumano di Dachau.
Don Biagio, come confratello e come superiore, a prezzo di fatiche inenarrabili e rischi gravissimi, lo visitava per confortarlo e sostenerlo anche con aiuti, finché fu a Lad. Ma non mancò di aiutarlo anche quando passò a Dachau dove, potendo, gli inviava corrispondenza e anche pacchi. Ma da parte sua il giovane prigioniero rivelava anche nel campo di sterminio, la tempra della sua formazione orionina, sereno in mezzo a privazioni estreme, per non dire a sevizie cui erano sottoposti i prigionieri dei “campi”. Egli cercava di aiutare tutti, con fortare tutti, specialmente i confratelli orionini che si trovavano con lui. Le sofferenze, le malattie, gli stenti e i maltrattamenti lo ridussero in condizioni da non poter più sopravvivere e così durante un trasferimento da Dachau verso un luogo sconosciuto, venne eliminato dagli aguzzini tedeschi. Era il 10 agosto 1942.